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E la chiamano estate...

La notizia
La spericolata estate in città fra truffe, furti e borseggi. I grandi centri si svuotano, è boom di reati. Sono gli anziani i più bersagliati.
La Stampa, 5 agosto 2002

Maurizio Lo Faro Il commento
"Ma che bella l'estate in città. Nella pagina di cronaca, ieri due suicidi[…].Il poliziotto sfoglia le carte come fossero schedine del totocalcio: .

L'estate, ineluttabile, ogni anno reca con sé il desiderio di divertirsi, mollare gli ormeggi, avventurarsi verso terre nuove ed inesplorate, vivere esperienze che, proprio perché contenute in un tempo e in uno spazio definito, sembrano meno pericolose e più eccitanti.

Altrettanto inevitabile, molto spesso, è l'accorgersi del proprio senso di solitudine, della difficoltà a sperimentare e portare avanti tali progetti, al punto da imporsi un divertimento forzato pur di non riconoscere la possibilità di una delusione che potrebbe farci sentire diversi dagli altri.

Nelle calde serate estive le finestre aperte ci rimandano il rombo dei motori, le grida gioiose di persone che sembrano stare bene insieme; esseri umani che si abbracciano, si toccano, si baciano, scherzano e ridono. Gli odori, i rumori e le luci si mescolano in un turbinio di sensazioni che paiono attirarci e stordirci: vorremmo unirci a quelle persone, godere anche noi, sentirci a nostro agio, ma…dentro noi cresce il timore di non riuscire ad accettare tutto questo; accorgerci del nostro bisogno può condurci a disprezzare tutto quello che sentiamo, le luci, i rumori, le grida, niente ci appartiene e finiamo per sentirci sempre di più schiacciati contro le pareti della nostra stanza.

Certo tutto questo dolore non nasce con la stagione estiva: durante l'intero corso dell'anno qualcosa di sgradevole pareva a volte insinuarsi in noi ma cercavamo di allontanarlo. In fondo c'era il lavoro che ci teneva impegnati, anche troppo! In fondo c'erano gli amici con cui si poteva uscire e fare quattro chiacchiere alla buona…adesso anche da loro ci sentiamo traditi ed abbandonati, sono in vacanza chissà in quali posti lontani, dimentichi di noi.

Durante i mesi trascorsi prima che arrivasse l'estate non permettevamo al dolore di insinuarsi nelle nostre coscienze, bisognava darsi da fare per produrre, consumare, e il senso di solitudine poteva facilmente essere stemperato in mezzo alla folla di colleghi, conoscenti, amici.

Ora il bisogno comincia a farsi pressante, in particolare per chi vede diminuite le possibilità d'incontro con gli altri a causa dell'età.

E' quello che può capitare a tanti anziani nelle nostre città: accettare l'approccio di persone che si presentano con modi gentili e seduttivi, apparentemente disponibili a dare al vecchio solo un'attenzione negata: e' successo ad un anziano maestro di violino poco tempo fa. Un giorno è stato avvicinato da una bella signora per strada: .L'ha frequentato per parecchi giorni, continuando ad adularlo…e il maestro era felicissimo di riempire le sue giornate. Una domenica è stato invitato a mangiare. Quando è rientrato i suoi tre Stradivari da concerto erano spariti: valore, almeno 20 miliardi. Anche lei era sparita.

Ma l'estate può essere anche ricerca di stimoli forti che facciano sentire, esistere, essere, nel tentativo di superare il senso d'impotenza e di frustrazione: sulla sua Bravo nera, alettoni e minigonne, una bestemmia,[…].Corse in macchina come matti[…]all'uscita del sottopasso tengono i soldi delle scommesse.

La città vuota pare risuonare come una grande cassa armonica delle angosce non riconosciute e affrontate di ogni essere umano: poi quando fa caldo e le metropoli si svuotano, aumentano i suicidi, i furti e il resto. Anche i delitti passionali. Le grandi storie di cronaca nera, sangue e sesso, si raccontano sotto l'ombrellone. L'estate sembra fatta apposta per certi reati. Il furto è, forse, un tentativo di riappropriarsi di qualcosa che sembra sia mancato in un certo momento dell'infanzia, una dimensione affettiva dai contorni sfumati, che ha portato il soggetto ad allontanarsi sempre più dalla possibilità di essere amato e di amare veramente. Solo la nostalgia è rimasta, di qualcosa intravisto, di un paradiso perduto, si teme per sempre, che struggente si ripropone ad ogni attimo e situazione. Per alcune persone l'unica possibilità rimane, allora, quella di illudersi attraverso un atto concreto -il furto- di poter recuperare quella dimensione affettiva mai pienamente raggiunta. Nell'anno che facciamo sono aumentati: i furti in appartamento, gli scippi e i borseggi…

La città vuota facilita, ovviamente, gli atti ritenuti socialmente inaccettabili, ma a livello personale il vuoto che più spaventa è quello che possiamo ritrovarci dentro, quello che, spesso, ha preso il posto della capacità di apprezzare le cose buone e di tollerare quelle che lo sono meno; in altre parole la mancata o l'insufficiente introiezione di una figura affettiva "sufficientemente buona" che ci sostenga e ci permetta di poter anche sopravvivere in una città quasi vuota.

Droghe nuove, dipendenze antiche

La notizia
Ci si droga di più, ma si muore di meno. Merito del mercato, più esigente. Ma anche dei nuovi tipi di ''sballo''. Sondare la borsa delle droghe non è un'operazione semplice. I parametri di riferimento sono limitati. I sequestri, i decessi, gli indici di consumo, gli arresti, i mezzi di trasporto, i paesi di provenienza, le produzioni. Ma il lavoro svolto ogni anno dal Servizio Centrale antidroga del ministero dell'Interno offre uno spettacolo unico di un mondo illegale, quindi clandestino, che sfugge a qualsiasi rilevazione di tipo empirico.
La Repubblica, 26 luglio 2002

Eraldo Walter Machet Il commento
"Mai come quando amiamo prestiamo il fianco alla sofferenza, mai come quando abbiamo perduto l'oggetto amato o il suo amore siamo così disperatamente infelici"
S. Freud, Il disagio della civiltà, OSF, Boringhieri, Torino, pg. 574

Questo rapporto droga, pubblicato da Repubblica, si rifà al nuovo annuario del Viminale che "contiene tutti i dati relativi al 2001", disponibili "da oggi anche sul sito Internet del ministero dell'Interno". Mi sembra, però, che questo lungo ed articolato dossier solo nel sottotitolo faccia un accenno al problema psicologico della dipendenza. E' su questo aspetto che vorrei soffermare l'attenzione, nel tentativo di trasporre la ricchezza quantitativa di questi dati in una maggiore comprensione qualitativa degli stessi.

Quello della dipendenza è un problema psicologico caratterizzato da una lunga storia che implica un difficoltoso cammino di maturazione, un percorso che, com'è ormai noto, ha il suo momento più importante nella prima infanzia, quando il piccolo essere umano, fragile e incompleto, è davvero totalmente dipendente da chi si prende cura di lui. Anzi: questa dipendenza ha la sua origine ancor prima del momento della nascita, affonda le sue radici nella storia di un uomo e di una donna che, ad un certo punto della loro vita, hanno scelto di stringere un legame affettivo, quindi di dipendere reciprocamente, per realizzare un loro desiderio d'amore. Ora, la quotidiana esperienza psicoterapeutica e gli strumenti analitici che la psicoanalisi offre, continuamente attirano l'attenzione proprio intorno a questo problema. Nella società contemporanea, infatti, esso presenta connotati particolarmente significativi, a volte anche drammatici, che ben si possono identificare nei termini di "malattie della dipendenza". Le manifestazioni di tale "malattia", in genere, implicano l'uso di sostanze che possono essere anche molto diverse tra loro: alcool, fumo, cibo, farmaci… sino alle droghe tradizionali o alle "nuove" droghe che in "un weekend si possono provare assumendo tre-quattro tipi diversi di stupefacenti a seconda dei tempi e dei luoghi che si frequentano". Probabilmente sono proprio queste "esperienze" che si rivelano portatrici dei significati maggiormente distruttivi e tragici, non solo per il singolo individuo, ma per l'intera società. Ciò colpisce in modo particolare perché i fenomeni cui ci si riferisce si verificano proprio nel contesto dell'attuale enfatizzazione degli ideali di autosufficienza dell'individuo, pensato come indipendente e responsabile unico di fronte ai valori morali e sociali. I due dati sembrano nettamente in contrasto tra loro. Non solo: le modalità della dipendenza, quella che abbiamo chiamato malata o distorta, sembrano essersi, per certi versi, approfondite e aggravate. Nei decenni passati, ad esempio, l'uso delle sostanze stupefacenti era vissuto quale strumento di contestazione nei confronti di un mondo adulto sentito come limitante, rigido ed ingiusto; la relazione giovani-adulti era, dunque, connotata da forte aggressività e da contrapposizione che, a volte, poteva farsi anche violenta, ma era pur sempre una relazione. Oggi, invece, non ci si buca più, perché è "troppo pericoloso bucarsi come un tempo, in gruppo, con lo scambio di siringhe. L'Aids e le malattie correlate fanno paura". Oggi il ricorso alle droghe sembra totalmente svincolato dal rapporto con l'altro. Osserva acutamente Giuliana Grando in un interessante saggio che voglio richiamare:

La dipendenza dall'oggetto risulta allora in maniera evidente, una strategia di eliminazione della dipendenza strutturale dall'Altro, vale a dire la dipendenza dall'Atro del linguaggio, della cultura che pre-esiste al soggetto […] a cui il soggetto deve la propria nascita in quanto soggetto [ …].
G.Grando, "Nuove schiavitù" ed. F.Angeli Mi, 1999, pag.21

Nelle attuali malattie della dipendenza non c'è più un soggetto di fronte ad un altro soggetto, sia esso padrone, padre, famiglia, stato, società o altro ancora. La persona è tragicamente sola insieme ad una sostanza, si lascia spadroneggiare da questa sostanza fino ad una ferrea e non risolvibile schiavitù. E tale sostanza - farmaco, cibo, alcool o droga - è il "nuovo padrone" che allontana inesorabilmente chi se ne serve dagli altri esseri umani, lo pone a distanza, lo confina in un godimento autarchico, autogestito, solitario, dove ogni condivisione è abolita. Anche i momenti in cui si sta insieme ad altre persone, infatti, non sono e non possono essere spazi di autentica comunicazione, ma si riducono ad una sorta di vicinanza esterna che non esce dal cerchio di uno stretto isolamento. Da questa libertà apparentemente assoluta, dall'illusione di un farsi da sé senza l'altro, illusione che traspare nelle parole del tossicomane "mi faccio", emerge sempre più prepotentemente la strategia di fondo inconsciamente adottata. Una strategia che tende a far essere incessantemente presente proprio quell'altro di cui, apparentemente, si dice di non aver alcun bisogno ed alcun desiderio. Sotto le spoglie di un "oggetto-sostanza" (oggetto-cibo nella bulimia-anoressia; oggetto-alcool nell'alcoolismo; oggetto-droga nella tossicodipendenza; oggetto-cosa nell'esasperato consumismo) l'altro soggetto può finalmente essere posseduto direttamente quando si vuole, quanto si vuole e come si vuole. Ma, in realtà, all'interno di tale autonoma solitudine, né la sostanza di volta in volta usata, né l'espediente psichico affannosamente perseguito, riescono ad arginare quell'angoscia e quel vuoto nel quale il soggetto stesso si sente imprigionato. L'altro, infatti, con la sua esistenza separata, con il suo essere per natura distinto e diverso, testimonia e ricorda come le cose e le persone non possono essere mai possedute definitivamente, in ogni momento e per sempre. La sostanza che sembra magicamente cambiare l'assenza dell'altro in un vuoto che si può facilmente riempire, di fatto continua a riprodurre una mancanza nella misura in cui viene costantemente consumata. Diventa così sempre più necessario chiudersi in se stessi ed imprigionarsi da sé in un mondo incantato, troppo fragile per reggere l'impatto con la realtà quotidiana.

Così evidenziava Freud ne IL DISAGIO DELLA CIVILTA':
La sofferenza ci minaccia da tre parti: dal nostro corpo che, destinato a deperire e a disfarsi, non può eludere quei segnali di allarme che sono il dolore e l'angoscia, dal mondo esterno che contro noi può infierire con forze distruttive inesorabili e di potenza immane, e infine dalle nostre relazioni con altri uomini. La sofferenza che trae origine nell'ultima fonte viene da noi avvertita come più dolorosa di ogni altra.
Freud, Il disagio della civiltà, OSF, Boringhieri, Torino, pag.568-569

E' nel rapporto con l'altro, come sottolinea Freud, che si può determinare la maggiore possibilità di sofferenza perché l'altro può essere perduto, sia sul piano fisico, sia - soprattutto - sul piano psicologico ed emotivo. Penso che lo spaventoso vuoto interiore da colmare possa aprire alla scelta della droga, immaginata come mezzo immediato apparentemente adatto a superare la drammaticità della perdita. Di fronte ad esperienze particolarmente dolorose come queste, si può temere, infatti, che la mente non sia in grado di conservarsi integra e funzionante. Il fuggire in un solitario mondo di illusioni, pensato come privo di sofferenza, può davvero essere avvertito come una prospettiva salvifica. In questo caso, però, diventa difficile anche solo immaginare la storia di un uomo e di una donna nella loro inevitabile interazione reciproca per conseguire un progetto d'amore. Il contatto diretto e profondo con l'altro, infatti, riaprirebbe al rischio della separazione, al terrore della mancanza, al dolore di una antica dipendenza.

Giovani vecchi o vecchi giovani?

La notizia
Massimo Gramellini commenta le sempre più numerose scelte giovanilistiche degli ultrasessantenni (indicati in America come "new young sixty seventy"). In presenza di mezzi economici adeguati, i Giovani Vecchi inseguono le loro voglie di avventura destreggiandosi tra il desiderio di fuga dalla realtà quotidiana, le incalzanti offerte pubblicitarie e una forse nascente sensibilità per i messaggi spirituali.
La Stampa, 12 luglio 2002

Mariella Torasso Il commento
In un momento dell'anno in cui, in procinto di partire per le vacanze, ci si preoccupa molto per l'abbandono degli animali domestici e solo un poco per la solitudine di alcuni anziani, mi colpisce l'attenzione del commento di un giornalista che leggo sempre volentieri, per un particolare tipo di anziano.

La nostra società, con una popolazione anziana sempre più numerosa, paradossalmente riserva sempre meno spazio alla rappresentazione della vecchiaia come età della vita con specifiche proprie caratteristiche. Si coltiva il mito dell'eterna giovinezza e si richiede all'anziano di approssimarsi il più possibile agli schemi collettivi del riadattamento, che prevedono forzatamente partecipazione ed interesse per il mondo circostante. Anche i recenti provvedimenti governativi, con uno spostamento in avanti dell'età pensionabile (peraltro determinato da un innalzamento dell'età media), sembrano confermare una visione di vita in cui difficilmente trova posto la rappresentazione della fine di un ciclo dell'esistenza, di una fase di crisi che spesso coincide con la scoperta di potenzialità creative latenti.

Il "giovane vecchio" della nostra epoca si affaccia all'età successiva avendo perso il contatto con la dimensione del passaggio e del vissuto di trasformazione, che viene colto per lo più nel suo aspetto superficiale di dissoluzione fisica, corporea, e come tale negato. Ecco che si può partire (finanze e salute permettendo) per un giro del mondo in camper, portandosi appresso "l'ultimo libro di Castaneda, mica il calendario delle veline. Al limite tutti e due" (Massimo Gramellini, cit.), dimostrando così di essere - almeno come consumatore - ancora un anello della catena di produzione . Con una piccola concessione al carattere di introversione, rappresentato da una lettura "spirituale" come quella di Castaneda, il nostro "giovane vecchio", finalmente libero da uno stato di potere e di responsabilità, si nega l'irripetibile possibilità di raccogliere, attraverso gli aspetti positivi dei ricordi e delle esperienze passate, il senso più autentico di sé.

"Non esistono 'lifting' per la psiche, ricostruzioni di facciata e di verginità. Il valore della psiche sta sempre nella sua storia, nelle crepe che si fanno strada a partire da radici forti, che non ricorrono a maschere e patetici travestitismi. La personalità di un uomo sta sempre al punto di incrocio tra la dimensione sincronica - il presente - e quella diacronica - il passato" (da A. Carotenuto, Attraversare la vita, Bompiani, 1999, p.82).

La ricerca di senso continua per tutta la vita e ogni età può comprendere la crescita della consapevolezza di sé, come testimonia l'attività onirica delle persone anziane, ricca di contenuti di rinascita, piuttosto che di decadenza.

"Quello che a uno sguardo superficiale può apparire uno stanco ripiegamento su se stessi, un inaridirsi progressivo delle proprie capacità, è invece indice di qualcosa di importantissimo: è l'inizio di un lento processo di concentrazione dell'energia libidica verso una meta differente da quella 'estroversa' del semplice adattamento al mondo esterno…. Adesso si comincia a riflettere su come si è vissuto, su quali sono state le proprie scelte. Questo determina una fase di introversione, con tutti i pericoli ma anche le potenzialità che ogni viaggio nelle proprie profondità comporta e offre" (da A. Carotenuto, Vivere la distanza, Bompiani. 1998, p.128).

La nostra società richiede invece l'omologazione a modelli estrovertiti a forte connotazione maniacale, dove il momento depressivo è sistematicamente evitato. Non c'è posto per riflessione, vecchiaia e tanto meno morte. Morte fisica o anche morte di alcuni nostri aspetti che non sono più significativi e a cui dobbiamo rinunciare per non precluderci il futuro.

Forse quelli del "giro del mondo in camper", piuttosto che "giovani vecchi", sono "vecchi giovani", che devono ancora imparare ad accettare l'inesorabilità della trasformazione (che non avviene senza morte e rinascita), la modificazione profonda dell'atteggiamento psicologico, per fare posto ad una posizione di maggiore autonomia e unicità.

Come suggerisce Migliorati, individuando una traccia di possibile percorso analitico, "la persona che ha già compiuto le scelte fondamentali, che l'avventura, nel bene e nel male l'ha corsa già da tempo, non ha tanto bisogno di ricostruire il passato per prenderne le distanze ma piuttosto di ascoltarlo con altre orecchie, per rievocare gli aspetti più profondi e sottili sfuggiti alla coscienza che si è affacciata, spesso senza avvedersene, ad un altro livello di esperienza, più sostanziale e radicale che non quello che aveva creduto ne fosse la sostanza; per sostituire al ricordo di fatti perduti e non rinnovabili l'ascolto di esperienze delle quali ha conservato solo vaghe intuizioni ma le cui tracce occhieggiano nella massa informe di fatti lontani dei quali ora piange la perdita" (da P.Migliorati, "L'analisi tra Mnemosyne e Lesmosyne", in Invecchiare tra sintomo e necessità - Rivista di psicologia analitica, VIVARIUM 62/2000, p.71).

Il Prof. spiega via Internet

La notizia
Entro il 2005 Internet entrerà nell'85 per cento delle scuole con progetti di E-learning e possibilità di collegamento degli studenti anche da casa attraverso la rete. Questo ed altro prevede il progetto Internet@scuola frutto della convenzione siglata oggi dai ministri dell'Istruzione Letizia Moratti e delle Comunicazioni Maurizio Gasparri… Il progetto pilota, presentato questa mattina dai ministri, coinvolgerà inizialmente 50 scuole di ogni ordine e grado in tutta Italia… Il progetto coinvolgerà anche gli ospedali dotati di sezioni scolastiche distaccate.
TG1, 17 luglio 2002

Il commento
Il giornalista del Telegiornale chiudeva il servizio commentando: "chissà se i bambini saranno poi così contenti di poter essere interrogati anche quando sono all'ospedale". La battuta del giornalista mi ha fatto riflettere sugli usi diversi che possono essere fatti di uno strumento importante come quello di Internet e sull'insegnamento attraverso di esso anche e soprattutto in relazione alla malattia.

Penso infatti che la "telescuola" possa consentire agli studenti un contatto continuo con i docenti, dare loro la possibilità di approfondire le proprie conoscenze attingendo dalle fonti in rete ed ampliando i loro punti di vista. Mi sembra però che la grande maggioranza dei bambini e dei ragazzi sia in grado di utilizzare il computer ed Internet, anche se non sempre a scopi didattici, mentre quello che manca loro è la presenza di un adulto, un insegnante, che possa non tanto istruire quanto prendersi cura della loro crescita emotiva.

Ciò che conta, infatti, dovrebbe essere stimolare il loro interesse, unico motore vero per arrivare ad un sapere "sudato", espressione di una passione autentica e non semplice adeguamento a parametri di nozionismo e di profitto che non possono far altro che isterilire e mortificare la creatività e l'entusiasmo dei ragazzi. Il rischio, in definitiva, mi sembra possa essere quello di lasciare i bambini ed i ragazzi ancora una volta soli.

Il computer portatile e l'insegnamento a distanza, nel caso di bambini ospedalizzati, possono essere uno strumento valido per far si che il bambino si possa sentire meno diverso rispetto ai suoi coetanei che frequentano regolarmente la scuola permettendogli di non restare troppo indietro rispetto al programma scolastico e di mantenere, contemporaneamente, un collegamento con la vita esterna.

Il titolo del servizio del telegiornale "Il prof. spiega via Internet" e la domanda che si faceva il giornalista, rispetto alla voglia del bambino di poter essere interrogato mentre si trova all'ospedale, mi sembra riflettano un'idea di apprendimento passivo in cui l'insegnante può solo spiegare la lezione ed interrogare mentre al ragazzo non resta altro che ascoltare e rispondere.

La sfida che l'utilizzo del computer portatile e la possibilità di collegarsi in rete lanciano mi sembra, sia proprio quella di riuscire a pensare all'insegnamento in un modo nuovo che consenta di incentivare le capacità e le potenzialità creative del bambino facendolo sentire protagonista di una ricerca volta all'acquisizione di nuove conoscenze.

La possibilità di programmi interattivi che permettano al bambino di cercare risposte, trovare soluzioni, costruire una storia, fornirgli dei metodi di autovalutazione, potrebbero essere un modo per non farlo sentire passivizzato, soprattutto nel caso di bambini ospedalizzati già fortemente passivizzati dalla malattia.

Una stimolazione che porti allo sviluppo della creatività può rappresentare inoltre un elemento che aiuta il bambino ad avere maggior fiducia nelle sue risorse che egli può mobilitare non solo per l'apprendimento ma anche per la guarigione.

Rapporto sullo stato della terra

La notizia
"Un pianeta prossimo al collasso, a cui restano a malapena 50 anni di vita, dopo i quali l'umanità sarà forse costretta ad imbarcarsi verso altri mondi per potere sopravvivere".
La Repubblica, 8 luglio 2002

Nicoletta Massone Il commento
Questo il modo, davvero poco rassicurante, in cui si apre l'articolo di Repubblica che fa riferimento all'ultimo studio sullo stato del nostro pianeta. Dal 1989, il WWF ha incaricato scienziati ed esperti di ogni parte del mondo per monitorare le modalità di sfruttamento delle risorse naturali e la velocità con la quale si stanno consumando.

Gli ultimi dati sono, a dir poco, allarmanti: negli ultimi tre decenni, vale a dire l'arco di una sola generazione - la nostra generazione - si è dato fondo a più di un terzo delle risorse che il pianeta metteva a disposizione. E' mancato, in altre parole, qualsiasi tipo di pianificazione, come se l'idea di fondo fosse quella di una inesauribilità o rigenerabilità all'infinito delle risorse stesse. Tra l'altro, questo modo di utilizzo comporta un depauperamento per altri popoli che vedono, in tal modo, aumentare ulteriormente la loro condizione di miseria.

Non sappiamo queste cose solo oggi e certamente non solo oggi proviamo una preoccupazione profonda ed inquietante. Attualmente, però, si aggiunge un dato nuovo in termini di tempo: solo 50 anni e poi dovremo abbandonare il nostro pianeta che non ce la fa più a sostenere le nostre esigenze di vita. Scenari preoccupanti di mondi alieni e spogli che si apprestano ad ospitare naufraghi dello spazio, navicelle che devono selezionare chi portare alla salvezza e chi abbandonare ad una terra avvelenata, fanno capolino nelle fantasie, ma vengono subito scartati come il frutto dell'impensabile e del delirio.

L'inquietudine, però, non è sopita: se il soggiorno su Marte non rientra ancora nel nostro immaginario, altri aspetti delle notizie sull'ambiente ci feriscono, soprattutto quelle che parlano di sofferenze, di ingiustizie subite, di prevaricazioni. Persone, animali, piante, persino oggetti, sembrano avere perso la loro identità e la possibilità di essere rispettati. Le multinazionali si appropriano di enormi appezzamenti di terra dei paesi in via di sviluppo, sottoponendoli ad uno sfruttamento che non tiene conto delle possibilità di rigenerazione delle risorse della terra e che non considera, come dicevamo, l'aumento del disagio delle popolazioni di quelle nazioni. Gli animali vengono allevati in massa, in condizioni igieniche estreme, esposti a continue malattie che rendono la loro breve vita ancora più penosa. Potremmo procedere nell'esame dei dati che, quasi in modo drammatico, ci raggiungono continuamente da tutti gli ambiti del nostro ecosistema.

A volte ci sentiamo quasi sommersi e un po' impauriti: tutto questo dolore temiamo che, alla fine, possa ritorcercisi contro. E, in effetti, forse questo già stia accadendo: i cibi di cui ci nutriamo, l'aria che respiriamo, il mare che ci circonda, sono "avvelenati" e producono malattie mortali.

E', parafrasando Camus, un "ambiente rivoltato", distruttivo, quello nel quale abbiamo l'impressione di vivere; dovremmo "guardarci le spalle" per ogni cosa con cui veniamo in contatto: toccare, mangiare, respirare, anche semplicemente attraversare la strada, potrebbe significare l'esposizione alla morte se, per caso, come è già accaduto, fosse esplosa, in luoghi non troppo lontani, una centrale nucleare. Ciò che sino ad ieri era elemento amico e familiare, qualcosa cui fare riferimento con fiducia irriflessa, ha rivelato un altro volto, negativo e pericoloso.

L'incubo che sempre ci preoccupa, la possibilità che ciò che crediamo bene sia male, sembra effettivamente essersi avverato. La sospettosità che, spesso ci porta a ritenere essere la solitudine e l'autossuficienza assoluta l'unica garanzia credibile di sopravvivenza, trovano conferme e rafforzamenti.

Ma non è tutto: in realtà, siamo consapevoli di essere noi stessi gli artefici della trasformazione che si è operata. Anche in questo caso, pare risuonare una conferma, sul piano interiore, di dubbi e timori mai sopiti circa noi stessi. I dati dei giornali, della televisione, delle ricerche, sembrano dimostrare in modo incontrovertibile che davvero siamo incapaci di conservare ciò che di buono possediamo e che, in modo irresponsabile, finiamo per non riconoscere, rompere, abbandonare, perdere, persino attaccare intenzionalmente gli elementi che sorreggono la nostra esistenza. Ogni gesto, anche il più semplice, anche spruzzare l'insetticida per le zanzare, ci condanna e ci lega ad una verità negativa su noi stessi. Verità insopportabile, quasi specchio deformante, sul cui sfondo compaiono gli occhi di uomini depredati, di terre bombardate, di un buio doloroso che sembra posarsi, come un vaiolo che non si cancella, sui tratti del nostro volto.

Può capitarci di pensare che questo tipo di mondo ci assomiglia, forse anche noi sfruttiamo al massimo le nostre risorse interiori senza prendercene cura, senza pensare che non sono elemento anonimo sempre a disposizione, ma capacità di attivazione e di creatività che dipendono dal complesso intreccio delle nostre emozioni e delle nostre esperienze.

Sapere di avere dei limiti ci inquieta e ci destabilizza come se solo un'assoluta continuità di rendimento, una prestazione lineare e standard, potesse rassicurare il timore non di un momentaneo arresto, ma di un crollo irreversibile.

Come se da sempre fossimo in lotta contro lo spettro della regressione ad una condizione di assoluta impotenza ed incapacità. Come se ogni pausa, ogni arresto, fosse il segno insopportabile di una morte di pietra, senza nome e senza senso, che annienta tutti i nostri significati e tutto il nostro amore.

Forse trattiamo gli altri e il mondo nello stesso modo, elementi intercambiabili, pura materia inerte, di cui non vogliamo e non possiamo conoscere la profondità e la storia.

E forse questo timore blocca la possibilità del pensiero: lo spazio della riflessione è temuto ed esorcizzato perché da quello spazio rientrano le vittime del nostro terrore, l'illimitata fame della nostra fragilità, i fantasmi persecutori, i morti viventi della nostra distruttività.

Allora restano solo i presagi ineluttabili, i soli 50 anni di vita, il dolore di una perdita irreparabile.

Ed è proprio questa perdita, probabilmente, che si proietta come ombra e come non nuova, ma sempre dolorosa, incertezza sopra l'onnipotenza del sapere tecnico. La tensione dell'uomo a disporre del mondo si è concretizzata in un agire che non è stato in grado di custodire i ritmi delle relazioni, esterne ed interne, producendo un dominio prevaricatore. L'uomo che giunge a vedere nella oscurità delle acque, che sa spostare i limiti della notte, indaga l'estremità di ogni ente e la profondità del suo cuore, si trova ora a domandarsi quale è la misura di tale sapienza.

Nel Convito, Platone (205b) afferma che l'opera dell'artigiano, come quella del poeta, fa passare le cose dal non essere all'essere, è la creazione di ciò che da se stesso non si realizzerebbe. Prima ancora che produzione, il pensiero è allora spazio di conoscenza, azione di svelamento, un operare affinché appaia e si attivi tutta la potenza delle cose. In questo senso, produrre è anche custodire il significato più intimo e specifico di ogni cosa, noi stessi compresi.

Sono proprio gli effetti perversi di tale dimenticanza, forse non sviluppata memoria, a far si che oggi ci si trovi necessariamente impegnati nella faticosa rivisitazione di alcuni dei modelli più appariscenti e più rassicuranti della nostra civiltà. Sollecitati dall'inattesa inquietudine sorta di fronte ad un ambiente ostile, ci troviamo a dover accogliere la richiesta di cambiamento che viene dalla nostra sempre troppo dimenticata fragilità e dalla fragilità delle cose che ci circondano, la richiesta di "allargare i paletti della nostra tenda" con tutto il carico di dolore, di incertezza, di fatica e di lacerazioni connesse allo scavo delle nuove fondamenta.