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La notizia
Il Prozac non convince più - Le vendite calano dell'80%. New York - La "pillola della felicità", come era stata battezzata sui mercati di tutto il mondo, ha perso la sua magia. Le vendite del Prozac, il farmaco che negli anni '90 ha sconvolto il settore degli antidepressivi sono scese dallo scorso agosto dell'80%. Una flessione enorme, in parte collegata all'immissione sul mercato del prodotto generico, la fluoxetina, ma soprattutto al cambiamento delle necessità dei pazienti che chiedono ritrovati sempre più forti contro la depressione.
La Repubblica, 1 luglio 2002

Antonina Nobile Fidanza Il commento
Lunedì mattina prima di iniziare una lunga giornata di lavoro, apro il giornale. Saltando a piè pari, con un senso di colpevole fastidio e di impotenza, la prima pagina con le feroci scaramucce del governo che si giocano sulla nostra testa, sperando che non si giochino le nostre teste.

Scorro il vergognoso gioco sulla vita e sul dolore del 'caso' Biagi e arrivo a pagina 11 che minaccia le stragi e gli attentati di luglio.

Passo oltre, stanca di essere terrorizzata e a pagina 13 trovo l'Arizona in fiamme, per opera di un pompiere, altro triste ma solito leit-motiv dell'estate, stavolta però di dimensioni 'perfette'. Vale a dire che rendono l'uomo un semplice epifenomeno della natura. In fondo alla pagina la notizia che due bimbi sono morti arrostiti dal caldo, chiusi in una macchina, mentre la madre tranquilla era dalla parrucchiera, altro evento non raro in estate, prende solo un frammento di colonna.

A questo punto mi sento un po' abbattuta dalla ciclicità e prevedibilità dei comportamenti umani apparentemente contingenti.

Scappo letteralmente dalle pagine successive che sono notizie dai fronti e approdo alla cronaca, rassegnata ad altre brutture solo più vicine.

Scopro che la nostra Corte di Cassazione ha eliminato la caratteristica di ingiuria perseguibile, nei confronti del turpiloquio, dando via libera, come dice il commento, all'insulto. Un bel paginone sul prete figura di riferimento che si sta modernizzando: moto, casco, cellulare e monospalla del giovane in tonaca nella fotografia che accompagna il servizio. Accanto, dopo sei anni il processo per il naufragio che costò la vita a 283 immigrati scoperti da un giornalista in fondo al mare, e che ho commentato in un articolo sull'orrore proprio per Vertici. Non ho la forza di leggere le ultime sulla giungla dei prezzi dei farmaci.

Giro pagina e con un tuffo al cuore leggo del lago Effimero che se non svuotato con urgenza potrebbe distruggere i paesi alle pendici del Monte Rosa e chissà perchè penso al Vajont.

Proseguo incapace di fermarmi a leggere (solo il titolo mi angoscia), perchè a Firenze qualcuno sfregia le salme all'obitorio in barba ad ogni sorveglianza. Desiderosa di qualcosa di più leggero mi fermo su foto di gente che gioca: infatti è morto l'inventore dell'hula hop e del frisbee.

Oppressa dalla invadenza emotiva di tanti titoloni, cerco riposo in 'titolini'. Difatti a lato, in una colonna grigia, sono riportate tante piccole notizie e in una pausa di ossessività che mi prende ogni tanto e mi fa leggere con estrema attenzione necrologi di sconosciuti e concorsi dai caratteri invisibili, nonchè annunci di perdita e ritrovamento di cani e gatti, leggo soddisfatta finalmente una notizia per me confortante: Il Prozac non convince più …

La soddisfazione ovviamente dura poco. Sono intimamente contenta del calo delle vendite vista l'ottica commerciale che sta dietro ad ogni mito farmacologico. Il "non convince più" però mi porta a pensare a quegli eserciti di persone che hanno sperato, a quell'esercito di medici che si sono fatti ingannare ed hanno ingannato, al dolore sprecato di tante persone, alle vite perdute di tanti suicidi, visto che quest'evento era compreso tra i possibili effetti collaterali e che, mentre in altri farmaci "la sospensione del prodotto annulla gli effetti indesiderati" qui l'effetto poteva essere definitivo e irreversibile. Nel nuovo "bugiardino" (così, guarda caso, si chiama in gergo il foglietto esplicativo che accompagna ogni confezione di farmaci) c'è un distinguo raffinato "l'ideazione suicidaria" può essere un effetto collaterale del farmaco, il "suicidio" attiene alla malattia depressiva quindi non è più considerato effetto possibile del farmaco.

Tornando al calo delle vendite, il giornalista ha forse pensato di essere stato troppo drastico e quindi ci spiega per rassicurarci: "una flessione enorme in parte collegata all'immissione sul mercato del prodotto generico la fluoxetina (notoriamente più a buon mercato dico io), ma soprattutto al cambiamento delle necessità dei pazienti che chiedono ritrovati sempre più forti contro la depressione".

Quindi il mio sollievo all'idea che la visione da panacea universale che accompagnava l'immissione sul mercato del Prozac fosse scemata, non ha ragion d'essere. Infatti il proliferare di servizi ed interviste elogiative di personaggi pubblici che osannavano gli effetti miracolosi della terapia, e episodi come il licenziamento di un professore che aveva osato affermare che il Prozac fa male, restano a conferma della necessità, sentita ubiquitariamente, di farmaci sempre più potenti per contrastare una depressione sempre più vasta. Non è che la malattia del secolo possa avere le connotazioni di "malattia sociale"? E che quindi l'uso massiccio di farmaci senza una concomitante analisi ed eliminazione delle cause serva a poco?

Infatti è sempre lunedì mattina e anche se ho conosciuto molti anni fa la 'depressione' del lunedì, oggi alla ripresa del lavoro settimanale mi sono 'depressa' alla lettura e alla riflessione di come appare la realtà attraverso lo spaccato di un quotidiano diffuso. Mi chiedo che impatto avrà questa piccola notizia, sicuramente ben costruita dal punto di vista giornalistico, sui fiumi di persone che si riversano depressi sui luoghi di lavoro, lasciati soli di fronte alla gestione degli stati d'animo personali, stati d'animo amplificati dalla pressione verso la produttività rispetto alla quale risultano solo spiacevoli ed antieconomiche interferenze fonte di scarsa efficienza e/o di assenteismo.

Spacciare per "necessità dei pazienti" le loro richieste di "ritrovati sempre più forti" è una notevole ambiguità in medicina, che se da un lato manleva il medico dalla sua funzione, dall'altro responsabilizza il paziente non nei confronti di una corretta gestione della propria salute, bensì nei confronti di un'ansia di efficienza a tutti i costi. Questi due piccioni presi con una sola fava, rendono tutti noi, come diceva Winnicott, inconsapevoli giocattoli dell'economia e della politica.

Chi avesse letto il tomo di Oliver Sachs sull'emicrania e fosse stato così perseverante da leggerlo fino alla fine, sarebbe incappato in un concetto di depressione come ritiro, anche biologico, dalla realtà -attraverso l'isolamento dagli stimoli come suoni, luci, persone- che fa dire all'autore che l'emicrania potrebbe essere un estremo tentativo di costringere l'essere umano, incapace di farlo autonomamente, a fermarsi.

La perdita quasi totale di una visione psicodinamica della depressione mi rattrista perchè di depressioni ce ne sono di tante specie (vedi il bel libro di Silvano Arieti "La depressione grave e lieve") e spesso dire: "mi sento depresso", anziché triste o addolorato svaluta la multiforme varietà e ricchezza degli stati d'animo, disprezza la sensibilità rispetto al proprio mondo interno e riduce tutto a sintomo di malattia.

All'inizio del terzo millennio in cui la possibilità delle manipolazioni genetiche a vasto raggio rende quasi risibile la mia preoccupazione sulla manipolazione chimica degli stati d'animo, mi chiedo quale sarà la patologia preponderante del nostro tempo. Infatti la depressione come il raffreddore adesso è 'curabile' dal medico della mutua proprio con l'immissione sul mercato del farmaco generico alla portata di tutti. Anche se tutti sanno che neanche il raffreddore è 'curabile' ("bisogna solo aspettare che passi", "i farmaci servono solo ad alleviare i sintomi", "sarebbe meglio non ammalarsi", "mettersi a letto al calduccio è l'unica vera cura").

Forse la semplificazione e l'impoverimento confusivo degli stati d'animo espressa dal nostro linguaggio quotidiano ci costringerà ad accettare una visione sempre più concreta del mondo interiore fatto non più di sottili percezioni e sentimenti soggettivi, ma di magmatiche e confuse sensazioni 'oggettive' di malessere di cui vogliamo al più presto disfarci, determinate dai nostri neuroni inceppati o dai nostri neuromodulatori pigri e assenti.

La paranoia mi sembra di aver sentito dire è un'altra delle patologie invocate ad ogni piè sospinto, usata come diagnosi o insulto e potrebbe bene definire sia la percezione della realtà esterna densa oggi più che mai di esplosioni di violenza privata e pubblica, sia il senso di persecuzione interna rispetto alla quale invochiamo farmaci sempre più potenti per liberarci di stati spiacevoli e dolori incomprensibili.

Psicoanalisi. Una terapia attraverso... il potere?

La notizia
Il Presidente della SPI Domenico Chianese ha aperto i lavori del Convegno Nazionale della Società Psicoanalitica Italiana con la relazione ''La cura psicoanalitica: forme di un sapere antico'': ''L'interlocutore giusto per spiegarci che cosa significa 'fare analisi' in tempi in cui è possibile consultare il medico dell'anima via Internet'' .
Venerdì di Repubblica, 21 giugno 2002

Laura Grignola Il commento
La ''notizia'' che vorrei commentare oggi è l'intervista rilasciata dall'attuale presidente della SPI a Brunella Schisa del Venerdì di Repubblica, in occasione del XII Congresso della Società Psicoanalitica Italiana sul tema della terapia e dei mutamenti del lavoro dello psicoanalista.

In realtà sono andata a leggermi questo articolo dopo che una paziente che seguo a quattro sedute alla settimana e che ama ''mettermi alla prova'' con continuità, determinazione e intelligenza, alle 7,45 (ahimè) del mattino è giunta in seduta sventolando provocatoriamente un ritaglio di giornale e pronunciando con tono assolutamente ieratico queste parole: ''Vede, se lei fosse più brava io non dovrei venire qui quattro volte alla settimana e lei sa quanto mi pesa! E non lo dice mica un cretino! Lo dice il presidente della Società Psicoanalitica!''. Sarà un agito, ma -come dicevo- non ho poi resistito alla tentazione di leggerlo, l'articolo! Così come adesso -secondo agito?- non reggo alla tentazione di commentarlo!

Apparentemente è un articolo fra tanti, abbastanza normale, con il solito atteggiamento provocatorio da parte della giornalista che, come sempre capita, usa parole e argomentazioni semplificanti, dal peso specifico greve… L'interlocutore psicoanalista in questi casi può opporre all'innocenza violenta di tale semplificazione una disarmante chiarezza. Sto pensando ad esempio a Simona Argentieri o a Mauro Mancia che hanno così spesso saputo coniugare una notevolissima capacità di approfondimento teorico e didattico con il ruolo di interfaccia tra psicoanalisi e mondo dell'informazione. Altre volte tale interlocutore psicoanalista può invece accusare il disagio di dover ridurre e trasmettere il senso di un'esperienza che essendo appunto un'esperienza, cioè noumeno, non sempre è traducibile in parole, tanto meno in linguaggio giornalistico.

Nel caso invece dell'articolo che stiamo considerando, non ci troviamo di fronte né ad una disarmante chiarezza né a disagio alcuno. Ci troviamo di fronte ad una analoga semplificazione della complessità rispetto all'approccio giornalistico e ad una baldanza davvero inusuale per persone il cui compito dovrebbe per definizione essere quello di orientare gli altri sul tema del limite e in particolare dei limiti esistenziali di pertinenza dell'essere umano.

Alla domanda ''Negli ultimi decenni e con una cadenza ciclica la psicoanalisi è stata data per morta, anche a causa dell'atteggiamento chiuso e conservativo che avete sempre avuto. Come pensate di sopravvivere ai tempi moderni?'' si risponde testualmente: ''Direi piuttosto bene visto che siamo la seconda Società psicoanalitica europea e l'Italia è il paese che meno patisce la crisi.'' E si continua: ''… ormai da anni ci siamo aperti all'esterno… Siamo stati riconosciuti come scuola di formazione dal Ministero dell'Istruzione e della Ricerca e l'attività privata è più limitata; direi che il 70, forse l'80 per cento di noi lavora anche in istituzioni di cura e dedica alla libera professione solo parte della sua attività.''

Interrogativi possibili:

E' davvero significativo e sufficiente per testimoniare la buona salute della psicoanalisi sottolineare che la SPI è la seconda Società psicoanalitica europea o che ha ottenuto il Riconoscimento Ministeriale?

Se l'Italia è il paese che ''meno patisce la crisi'' è per le peculiarità encomiabili dei suoi abitanti o perché gli italiani, nel bene e nel male, arrivano sempre un po' dopo, risentono un po' più tardi dei fenomeni della globalizzazione, e ciò in perfetta sincronia con il loro reale potere economico?

E, infine, che cosa significa l'attività professionale più limitata? Significa che non ci sono abbastanza pazienti, che non si guadagna abbastanza, che l'attività privata richiede troppa fatica, che i compromessi con le dimensioni del potere rendono lo strumento psicoanalitico meno efficace? Ci garantisce cioè uno psicoanalista più capace di attenzione fluttuante in quanto meno sovraccaricato emotivamente o soltanto uno psicoanalista più fluttuante?

Questi sono solo degli interrogativi non delle affermazioni. Ma degli interrogativi suscitati dall'idea che il discorso del presidente della SPI, almeno com'è riportato nell'articolo, possa avere essenzialmente una valenza politica e contenere una semplificazione della complessità allo scopo di sostenere tesi precostituite…

Ma veniamo alla frase incriminata, quella che mi ha indotto a ricercare l'articolo…

Alla domanda ''Siete sempre arroccati sul numero delle quattro sedute a settimana, non vi sembrano un'enormità'' si risponde: ''Fare una buona psicoterapia a due sedute a settimana è più difficile che fare un'analisi a quattro. Per riuscirci bisogna che l'analista abbia fatto un buon training, perché i tempi ridotti rendono tutto più complicato. Per dirne una: il paziente ha meno tempo per elaborare le cose dette. Insomma ci vogliono mani esperte''.

Dal 1993 si sono avvicendati nella nostra piccola scuola genovese di psicoterapia grossi nomi della psicoanalisi nazionale ed internazionale, alcuni da noi molto apprezzati e amati. Ma una delle difficoltà che abbiamo sempre avuto nelle supervisioni condotte da loro è che mentre non sempre i nostri allievi in formazione riuscivano ad avere dei pazienti a tre o a quattro sedute alla settimana, mai sarebbe stato possibile sottoporre loro un caso seguito ad un minor numero di sedute. Due sedute alla settimana? E' psicoterapia. Un didatta dell'IPA non si sarebbe mai occupato di psicoterapia! Dall'alto o dal basso dei miei quasi trent'anni d'attività clinica e poi di supervisione ho sempre pensato si trattasse di un eccesso di rigidità. Avevo visto ottenere buoni risultati anche da giovani psicoterapeuti lavorando a due sedute settimanali. Anzi, pensavo che spesso un giovane, per i casi in cui non era seguito in supervisione, potesse avere delle difficoltà eccessive a lavorare a quattro sedute settimanali. Pensavo che potesse sentirsi troppo responsabilizzato, poco creativo, poco attrezzato a reggere le bordate di un transfert fortemente e direttamente coinvolgente . Non ho mai pensato che fare psicoterapia fosse facile, squalificabile. Pensavo anzi che fosse poco trasmissibile didatticamente perché la portata di alcuni passaggi rimaneva criptica, acquattata all'interno dell'esperienza e della capacità intuitiva del terapeuta. Pensavo che in fondo tale atteggiamento integralista rendeva possibile un discorso didattico molto più preciso e puntuale, così come più preciso e puntuale risulta lo stesso rapporto terapeutico che si avvale di una frequenza elevata di incontri. Pensavo che non avrei mai preso in carico alcune persone ad una frequenza inferiore alle tre o quattro sedute e che comunque preferivo lavorare a tre o quattro sedute settimanali. Pensavo e lo penso tutt'ora. Per me non sono acquisizioni dogmatiche, ma che derivano dalla mia esperienza.

Del resto nella sostanza questa mia posizione è possibile che non sia poi così lontana da quella dell'establishment psicoanalitico. Ma perché tutte queste articolazioni e sfumature che ho espresso devono essere irrigidite in posizioni antitetiche e inconciliabili? Perché ciò che ieri era proibito oggi deve essere addirittura auspicato? Eppure si sa che tutto ciò che è rigido si spezza più facilmente!

Dice Leo Rangell, allora presidente dell'IPA, nel suo discorso di apertura del 28° Congresso dell'Associazione Psicoanalitica Internazionale, tenutosi a Parigi nel lontano 1973: ''La flessibilità, la capacità di cambiare idea, di saper ammettere che si aveva torto, il saper imparare dall'esperienza, sono cose che costituirebbero un positivo gruppo di attributi dell'Io. Questa sequenza invece -che si è sempre avuto ragione, che non noi ma i tempi sono cambiati- è un meccanismo combinato di distorsione, di diniego, razionalizzazione, inganno di sé e degli altri, e attraversa come un ponte l'inconscio, il preconscio - e il conscio.

Due, quattro sedute… In realtà un problema potrebbe essere che questo modello di ''libero professionista part-time dell'anima'' che si facilita la vita rischiando di condividere con troppa leggerezza poteri istituzionali e temporali che seducono con patti faustiani, non ha più la forza di ''imporre'' al proprio paziente -là dove lo reputi necessario per imbattersi nell'epifenomeno cura- un sacrificio che lui stesso non è disposto a fare. Non ha più la determinazione ad ''insegnare'' al proprio paziente -naturalmente in termini non pedagogici e impositivi, quindi con l'esempio- a nuotare contro corrente per l'unica via percorribile dalla mente, la via dei simboli, contro quella dei diaboli…

L'altro problema, quello sùbito colto dalla mia paziente (e anche da Leo Rangell), è quello che Bollas chiama il pensiero fascista, il bisogno di avallare la giustezza della propria posizione attraverso la denigrazione dell'altro ottenuta semplificandone il pensiero. Noi siamo i migliori, noi abbiamo ragione comunque, che siamo seduti, in piedi, a gambe all'aria o a testa in giù… Il vero problema introdotto tra le righe da questo articolo, da qualsiasi scritto che compaia sui giornali in questo periodo, e non solo sui giornali, è quello dell'analisi selvaggia.

Freud intendeva per psicoanalisi selvaggia -e l' ho già scritto su questo portale da qualche parte- sia quella del medico ignorante e pressappochista, che si improvvisa psicoanalista; sia quella di chi, pur colto in materia, ritiene di doversi opporre alle resistenze interiori del paziente attraverso rivelazioni interpretative premature, che prescindono cioè dall'instaurarsi di un'adeguata relazione di transfert in grado di contestualizzare l'interpretazione e di proteggere quindi dal rischio di disvelamenti destabilizzanti. Ma l'accezione più comune di analisi selvaggia rimanda alla presunta ed automatica incompetenza di chi non proviene dall'establishment psicoanalitico ma dal complesso e imperscrutabile panorama delle psicoterapie sviluppatesi all'interno dei vari centri ''artigianali''(non importa se di impostazione psicoanalitica; anzi sono proprio quelli da combattere!) nei quali molti psicoterapeuti attuali sono andati a bottega. Viene invece totalmente obliterata l'altra accezione di psicoanalisi selvaggia, quella dell'onnipotenza difensiva con cui uno psicoanalista può tenere a distanza il proprio paziente, per evitare un contatto emotivamente intollerabile, annientandone il discorso e sovrapponendovi la propria interpretazione. E questa purtroppo è la fine di molte analisi condotte da terapeuti formati all'obbedienza nei confronti del potere istituzionale piuttosto che al rigore di una ricerca appassionata della propria fedeltà al ''metodo''.

Tra le affermazioni più frequenti: …Siamo gli unici veri depositari del sapere psicoanalitico… abbiamo i candidati più scelti e controllati… Ma qual è l'effetto sui figli di genitori che proprio perché controllano troppo finiscono per amare molto poco?

La denigrazione medica sostenuta dalle multinazionali farmaceutiche, la convivenza con qualsiasi tipo di altra terapia inducono l'istituzione psicoanalitica, invece che all'umiltà del confronto paziente e costante, alle affermazioni apoditticamente autocelebrative, all'irrigidimento delle istanze superegoiche che si fanno quindi minacciose per l'Io e inducono a quello che Leo Rangell chiama il compromesso con l'integrità.

Il narcisismo è necessario per la salute -dice Rangell- e ha una parte di rilievo nel collasso psichico.

''La psiche, attraverso le sue difese, distorce, per ingannare il Sé. L'analisi, scavando sempre verso la verità, mira ad annullare queste deformazioni, a produrre tanta ''onestà'' quanta è possibile. Ogni paziente in analisi è in un processo di apprendimento, rivolto verso l'integrità psichica…. L'analisi mira a produrre un uomo onesto. … Per quanto sia importante per la gente comune, il raggiungimento di un'integrità intrapsichica, la capacità di essere onesti, diventano perentorie per i futuri analisti e quindi nelle analisi dei candidati. … L'atteggiamento analitico è nella sua stessa essenza il modello di un'incorruttibilità inflessibile. …Sfortunatamente si porta spesso dietro una corruttibilità tutta umana. L'atteggiamento scientifico della psicoanalisi è trasmesso al paziente da un essere umano che se lo prende a cuore''. Non so se questa sia l'immagine che il lettore, l'uomo della strada, l'allievo, il collega, possono desumere dall'articolo comparso sul Venerdì. Che cos'è dunque la psicoanalisi? Una terapia attraverso l'amore, come diceva Freud, o una terapia attraverso il potere?

La fame degli affamati e la sazietà dei sazi

La notizia
I Ministri dell'Agricoltura di varie parti del mondo si riuniranno a Roma in occasione del World Food Summit, il vertice mondiale dell'alimentazione. […] Il fatto è che centinaia di milioni di persone nel mondo lottano ogni giorno contro la fame perché gran parte del terreno arabile viene oggi utilizzato per cereali ad uso zootecnico piuttosto che per cereali destinati all'alimentazione umana. I ricchi del pianeta consumano carne bovina e suina, pollame e altri tipi di bestiame, tutti nutriti di foraggio, mentre i poveri muoiono di fame.
L'Espresso, 13 giugno 2002

Stefania Magnoni Il commento
La fame… ma noi abitanti di paesi industrializzati, che per sorte anagrafica la guerra l'abbiamo solo sentita raccontare, sappiamo pensarla? E', in realtà, un'esperienza di cui abbiamo conoscenza solo teorica, ma che non ci ha mai realmente messo a rischio di vita, qualcosa che, in senso fisico non è mai passata dentro di noi, lasciando segni devastanti.

La fame di cui, invece, ciascuno di noi può, indipendentemente dall'anagrafe e dal censo, sentire e aver acutamente sentito i morsi, è la fame di affetti, di relazioni significative e credibili che ci abbiano aiutato e ci aiutino a tracciare la nostra mappa interiore, permettendoci così di riconoscerci capaci di pensiero e di emozioni e quindi anche di senso di responsabilità e di preoccupazione per le conseguenze delle nostre azioni, delle nostre scelte e spesso delle nostre non-scelte.

Forse di questa fame primigenia portiamo più o meno pesantemente i segni dentro di noi e li riveliamo nella fatica ad avere uno sguardo che decodifichi quanto accade un poco più distante dal nostro piccolo orticello.

Dopo i fatti di Genova del luglio scorso abbiamo forzatamente preso contatto con complesse realtà di politica economica e di strategie su base planetaria che in altro modo potevano rimanere ancora per un po' distanti dalla nostra coscienza di non-addetti-ai-lavori.

Quasi improvvisamente ci siamo accorti di abitare su un piccolo pianeta e abbiamo, forse, sentito il bisogno di capire meglio cosa c'era dietro parole sufficientemente nuove e oscure: globalizzazione, ogm, e commerce…

L'appuntamento del World Food Summit che si svolge in questi giorni a Roma sotto il patrocinio della FAO ci stimola ad alcune riflessioni.

L'articolo di Jeremy Rifkin- docente alla Wharton School dell'Università di Pennsylvania, presidente dell'Institute on Economic Trend di Washington, considerato guru del popolo di Seattle- spiega con imbarazzante lucidità cosa stiamo facendo del nostro pianeta e dei suoi 'inquilini'.

"Negli ultimi 50 anni la nostra società globale ha costruito a livello mondiale una scala di proteine artificiali sul cui gradino più alto ha collocato la carne bovina e quella di altri animali nutriti a foraggio. Oggi i popoli ricchi, specie in Europa, Nord America e Giappone, se ne stanno appollaiati in cima a questa catena alimentare divorando il patrimonio dell' intero pianeta. Il passaggio avvenuto nel mondo agricolo dalla coltivazione di cereali per l'alimentazione umana a quella per il foraggio per l'allevamento degli animali rappresenta una nuova forma di umana malvagità, la cui conseguenze potrebbero essere di gran lunga maggiori e ben più durature di qualunque sbaglio commesso in passato dall'uomo contro i suoi simili…. Mentre le questioni della proprietà e del controllo della terra sono sempre stati temi di grande rilevanza, il problema di come la terra venisse utilizzata ha sempre suscitato meno interesse nell'ambito del dialogo politico. Eppure, è stata la decisione più iniqua della storia quella di usare la terra per creare una catena alimentare artificiale che ha portato alla miseria centinaia di milioni di esseri umani nel mondo… Il passaggio dal cibo al mangime continua velocemente in molti paesi in modo irreversibile, nonostante il crescente numero di persone che muoiono di fame…Nel 1984, quando in Etiopia migliaia di persone sono morte di fame, l'opinione pubblica non era al corrente che in quel momento l'Etiopia stesse utilizzando parte dei suoi terreni agricoli per la produzione di pannelli di lino, semi di cotone e semi di ravizzone da esportare nel Regno Unito e in altri paesi europei come cereali foraggieri destinati alla zootecnia."

E' evidente che l'analisi di Rifkin scuote pesantemente le nostre coscienze, se per caso si trovavano appollaiate in una zona di confort dalla cui prospettiva questi panorami erano stati opportunamente tagliati via. E allora proviamo a percorrere la scomoda strada della consapevolezza, sempre meno di moda, ma forse anche grazie a questo, foriera di una possibilità di riparazione autentica nel promuovere, a partire dal singolo, una cultura degli affetti e della responsabilità, una logica individuale e sociale che privilegi processi di integrazione piuttosto che tollerare massicce scissioni. Mi spiego meglio: è sempre con un certo stupore che si riscopre ciò che già si sapeva, e cioè che possiamo verificare una corrispondenza piuttosto precisa tra le dinamiche del funzionamento a livello macrosociale e quelle intrapsichiche.

Lasciando quindi agli economisti il compito di monitorare il panorama mondiale e di indicarci quali e quanti rischi l'umanità sta correndo, ma anche su quali linnee si sta muovendo a livello creativo e quali sono i cambiamenti sociali a cui ogni singolo è chiamato a partecipare, siamo in grado, in realtà, di ridurre le distanze tra prospettive (quella economica e quella psicodinamica) che possono sembrare molto lontane. E non credo che questo accorciamento sia un effimero effetto della globalizzazione!

Nell'occuparci, come psicoterapeuti, della complessità, delle fatiche, del dolore e delle potenzialità creative ed affettive del mondo interiore nostro e altrui abbiamo la possibilità di cogliere attraverso quali sofisticati meccanismi l'essere umano cerchi di proteggere la sua quotidianità dall'angoscia esistenziale e con quale dispendio di energie si impegni a riparare quei "vuoti di senso" che le prime esperienze relazionali hanno prodotto.

Sebbene ogni persona abbia un suo stile unico di distorsione percettiva della realtà interna ed esterna, uno dei modi più frequenti di padroneggiare l'angoscia è scindere, isolare e distanziare da noi tutto quanto si ha il timore possa scuotere un equilibrio che, per quanto precario e illusorio, è l'unico faticosamente raggiunto. Ogni elemento nuovo determina un disturbo, una turbativa. Accoglierlo, quindi, richiederebbe un cambiamento nel nostro assetto interiore nella direzione dei processi di integrazione. Ma, emotivamente parlando, il cambiamento è al contempo ciò che più è necessario per costituire un'interiorità duttile in grado di apprendere dall'esperienza, e ciò che più ci terrorizza e ci spinge ad attivare tutte le istanze difensive di cui siamo capaci.

Credo che già a questo primo livello sia possibile dire che ci comportiamo con il mondo planetario un po' come con il nostro microcosmo interiore: noi 'fortunati' appartenenti a quel 20% che detiene il potere economico e tecnologico, vogliamo continuare ad averne sempre di più, ma vogliamo anche starcene in pace, non essere disturbati dai problemi di chi è escluso da questo circuito. La fame diventa una cosa lontana su cui, di tanto in tanto, per una sorta di impacco lenitivo alla coscienza, possiamo buttare uno sguardo con qualche gesto di 'generosità', a patto che sia molto attento a non spostare le nostre certezze, anzi se mai fortifichi in noi la convinzione di essere buoni. I cattivi sono senz'altro gli altri, quelli, per esempio, che a questi gesti neanche ci pensano o i Governi che non fanno a sufficienza; e noi ovviamente con i Governi non abbiamo niente da spartire…

Il gioco è fatto. L'indifferenza è servita come piatto della nostra tavola quotidiana.

Una parvenza di stabilità è momentaneamente garantita, ma a quali costi? Abbiamo tenuto a debita distanza la disperazione e l'angoscia più devastante che l'uomo possa sperimentare, quella cioè legata alla sopravvivenza -la lotta per la sopravvivenza fisica ci rimanderebbe ineluttabilmente all'angoscia rispetto ad una catastrofe interiore-, ma abbiamo alimentato unicamente i nostri aspetti onnipotenti, non siamo stati in grado di contrastare l'avanzata di istanze aggressive e distruttive che sono andate a minare pesantemente le nostre potenzialità affettive.

Abbiamo perso cioè la capacità di provare 'preoccupazione' per l'Altro in qualunque parte del pianeta si trovi, e forse anche per noi stessi, per la nostre fragilità, per i nostri bisogni di autentica comunicazione.

Falsamente liberati dall'imbarazzante tema della sopravvivenza del nostro pianeta nella sua interezza e non solo in un piccolo privilegiato angolino, ci ritroviamo -a livello individuale e mondiale- afflitti da analoghe cecità.

Siamo anche in grado di stupirci che privilegiare la strada delle scissioni, del potere per il potere, del allontanare dalla coscienza gli aspetti sofferenti individuali e macrosociali, del disattendere il lento e faticoso processo di coscientizzazione, porti nel tempo i suoi tossici effetti.

Incapaci di prendere contatto con le emozioni, spaventati dalle relazioni affettive, sempre più distanti dai luoghi interiori dove insieme al dolore e all'angoscia potremmo trovare anche risorse e potenzialità, maltrattiamo il nostro pianeta nelle persone e nel "fisico". In tal modo rientra dalla finestra ciò che abbiamo creduto di cacciare fuori dalla porta!

Un'umanità così irrigidita da patologie difensive sempre più diffuse e più sofisticate, è anche in difficoltà a cogliere i movimenti trasformativi: o rischia di subirli trovandosi scaraventata dalla parte degli "esclusi" (anche se per caso appartenente alla casta degli industrializzati), o partecipa a questa moderna 'corsa all'oro' senza però chiedersi "se per abitare in un mondo più ricco si è disposti ad abitare un mondo selettivo, competitivo, duro, in cui vige sostanzialmente la legge del più forte, e dove i vincitori vincono e gli sconfitti perdono" (A. Baricco, Next). Cogliere la possibilità di porsi "davanti al panorama vero del nostro tempo, così diverso dalla cartolina truccata che vendono negli empori del potere" (idem) ci potrebbe permettere invece di partecipare ad un flusso, comunque vitale e trasformativo, attraverso la valorizzazione della cultura come base che informi di sé l'economia e la politica e riesca a contrastare movimenti anticonoscitivi ai vari livelli a cui possono manifestarsi.

Se è vero che le 'zone oscure ' ci appartengono e sarebbe ingenuo e illusorio pensare ad un mondo o ad una persona 'totalmente positivi ' è altrettanto vero che l'unico modo di negoziare con questa realtà in senso costruttivo è farsene carico, cioè non ritrarsi inorriditi, integrarla a ciò che di positivo sentiamo di possedere, in modo che l'insieme finale sia un tutt'uno sufficientemente integrato e quindi capace di funzionare occupandosi affettivamente, creativamente e responsabilmente anche degli aspetti sofferenti riconosciuti, finalmente senza vergogna, come propri.

Due nemici ho io a questo mondo,
due gemelli indissolubilmente fusi:
la fame degli affamati e la sazietà dei sazi

(Marina I. Cvetaeva)

Se il seno che turba è la madre che nutre

La notizia
Mamma che allatta cacciata dal locale. Milano - Il Codacons ha presentato un esposto alla Procura della Repubblica di Milano contro il titolare di un ristorante che avrebbe vietato a una mamma d'allattare la figlioletta di tre mesi nel giardino del suo locale. "Una manifestazione di intolleranza e insensibilità che si configura come una azione discriminatoria nei confronti della donna e della sua bambina" secondo l'associazione di tutela dei diritti dei consumatori; tanto più che la donna aveva chiesto al titolare di poter utilizzare un locale interno meno affollato, una sala riservata ai non fumatori.
La Repubblica, 13 giugno 2002

Eraldo Walter Machet Il commento
In questi ultimi mesi abbiamo spesso letto notizie di madri che uccidono il loro bambino (soffocandolo, accoltellandolo, mettendolo nella lavatrice, ecc.). Di fronte a queste tragedie tutti abbiamo avvertito nell'immediato orrore e la sensazione di incomprensibilità ha amplificato il vissuto di impotenza. Successivamente, ai sentimenti di compassione per i familiari si sono aggiunti anche quelli di pietà, più che di condanna, per la madre. Ma di fronte alla notizia di una donna alla quale viene vietato allattare in ristorante la sua figlioletta di tre mesi - potendo, in questo modo, svolgere la sua naturale funzione materna - penso che parlare di "intolleranza e insensibilità" non renda ragione dei fatti.

"Poi ella mostrò la cosa più bella del mondo, tale da accecarmi, probabilmente per non farmi vedere l'abisso. Molto gentile, a dire il vero. La mia bocca smise di urlare e iniziò a succhiare quella roba anestetica con la quale 'dovevo addormentarmi '. Molto umano. Potevo morire ridendo e piangendo e sognando di essere grande e amata da lei".

Partendo da questa commovente immagine di D. Meltzer tratta da "Amore e timore della Bellezza" (ed. .Borla, Roma 1989 pg.63), possiamo tentare di cogliere quel che sta dietro a quella "azione discriminatoria". La madre che allatta il bambino è presente nell'immaginario di ogni individuo e in campo artistico l'armonia più totale viene espressa proprio da quella rappresentazione. Penso, ad esempio, alla "Tempesta" di Giorgione, "una delle più meravigliose creazioni dell'arte", direbbe il Gombrich, in cui il dipinto raggiunge una sua unità grazie alla luce e all'atmosfera che permeano la storia di quella madre forse cacciata (anch'essa) con il suo bambino dalla città. Alla "Natività" del Correggio ove il bambinello appena nato, posto accanto al seno della Madonna, irraggia una luce tutt'intorno, illuminando il volto bellissimo della madre felice. Ma anche alla "Madonna dal collo lungo" del Parmigianino, dove le forme innaturalmente allungate rendono possibile rappresentare con semplicità la bellezza naturale di una madre che contempla il volto del suo bimbo beatamente addormentato dopo la poppata.

Penso, inoltre, alla "Madonna della Seggiola" di Raffaello: ogni linea del dipinto tende a realizzare una armonica circolarità in cui madre e bambino, abbracciati, rimandano ad una unione e ad una completezza assoluta. Ricordo, infine, la "Madonna del latte" di Bergognone, la "Vergine con il bambino" di Luis de Morales, tanto per richiamare quei dipinti che più facilmente tornano alla mente per la dolcezza della scena che raffigurano.

Ora, per la psicoanalisi la dimensione estetica ha la sua genesi proprio nei primi mesi di vita, tempo in cui il bambino viene allattato al seno. Pensiamo allo sguardo e alle mani del bimbo attratto dai capelli sciolti della madre che, anche sotto il suo tocco, si muovono un poco durante i momenti in cui la bocca è staccata dal capezzolo, al suo sorriso e ai suoi gorgheggi. Pensiamo, poi, allo stesso bambino, supino in carrozzina sotto un albero che ride e gorgheggia guardando i rami più bassi che oscillano lievemente e le cui foglie fremono sotto la brezza. Possiamo immaginare, probabilmente, un passaggio, "uno spostamento simbolico" dai capelli della madre ai rami dell'albero, per cui il vibrare delle foglie susciterebbero quella beata allegria che gli procurava poco prima la chioma della madre. E quei capelli così belli, proprio perché in quel momento il bimbo riceveva un nutrimento non solo fisico ma soprattutto affettivo, realizzavano quell'adattamento attivo della madre ai suoi bisogni più profondi.

Malgrado ciò nessun evento delle vita adulta incute un tale timore reverenziale per la bellezza e per lo stupore quanto questo, legato agli eventi dell'allattamento al seno. Eppure scrive Meltzer: "L'esperienza estetica della madre con il suo bambino è normale, regolare, abituale, in quanto ha millenni alle spalle, sin da quando l'uomo vide per la prima volta il mondo 'come' bello. Sappiamo che questo risale per lo meno all'ultima glaciazione". Sono i limiti delle nostre capacità di identificarci con il neonato che lo rendono, nei nostri pensieri, privo di forma mentale? Anzi: che suscitano, come nel caso di questa notizia, il bisogno di cacciare la madre dal locale, di rifiutarla? Una lettura che vada più in profondità, come quella psicoanalitica, ci ricorda l'importante funzione strutturante del seno contro il rischio della frammentazione. Il calore del latte che scende all'interno del corpo procura benessere, rassicurazione e permette al neonato di costruire progressivamente una percezione unitaria di se stesso che contrasta le angosce persecutorie generate dalla fame, mentre lo stesso capezzolo in bocca assicura un baluardo esterno che porta ad una primaria sicurezza di base. Ma quello stesso seno materno ben presto genera anche una serie di incertezze: che cosa c'è nella mente della madre? E' bella anche nel suo interno invisibile o nasconde oggetti ed intenzioni pericolose? Sì, perché il bambino non può comprendere il senso del comportamento della madre, del suo esserci e non esserci, dei suoi cambiamenti emotivi che scorge nel mutare del suo volto, della sua voce che cambia di tonalità e delle sue parole così indecifrabili. Altra fonte di insicurezza che assilla il neonato circa l'inadeguatezza delle figura materna coinvolge persino lo stesso allattamento al seno. Anch'esso offre un messaggio enigmatico e ambiguo. Da un lato, il latte di quel seno toglie i morsi della fame, provocando benessere, sazietà, quiete; dall'altro, quello stesso latte ad un certo punto terminerà, e non solo si tramuterà in un contenuto interno che genera fastidiose tensioni che il neonato deve espellere.

Allora chi è dunque la madre: Beatrice, colei che genera beatitudine, o la Gioconda che porta alla perdizione?

Questo interrogativo sulla reale natura di un "oggetto" così buono e così bello fa sorgere quel doloroso dubbio, che Meltzer chiama "conflitto estetico".

Nella storia relazionale di un individuo, tanto più il rapporto con la madre è stato disturbato, tanto più quel conflitto si accentua e tanto più egli diventa insofferente a quella bellezza originaria, alla precarietà e alla enigmaticità che essa suscita.

Mi chiedo, allora, se il rifiuto ad accettare la presenza di una madre che allatta in un ristorante non sia causato proprio da vissuti angoscianti che quell'immagine bellissima poteva richiamare. Vissuti ancor più accentuati dal fatto che il nutrimento della madre rimanda comunque ad un rapporto effettivo, ad un contatto emozionale mentre il nutrimento del ristoratore … a che cosa può rimandare?

Giochi pericolosi

La notizia
Un operaio chiede aiuto al 117: "Aiuto: mi sono giocato due stuipendi!"
Il Secolo XIX, 31 maggio 2002

Maurizio Lo Faro Il commento
Sempre più di frequente leggiamo, in mezzo ai trafiletti pubblicitari e alle foto che spingono al consumo di oggetti o persone, che qualcuno si è rovinato giocando ai videopoker truccati. E' il caso, tra i tanti, di un giocatore che ha chiesto aiuto alle Fiamme Gialle "[…] un operaio di Cornigliano che, dopo aver fatto il numero di soccorso pubblico ha detto ai finanzieri: Aiutatemi perché non ce la faccio più. In pochi giorni mi sono giocato in queste maledette macchinette, 2500 euro, che rappresentano due miei stipendi".

E' il problema della dipendenza che si ripresenta, forse, in una forma adatta ai tempi e prende l'abito di una macchinetta cromata e luccicante che produce suoni spesso confusi e assordanti. La dipendenza rimanda allo stato della schiavitù, dunque a una lotta impari del soggetto con una parte di se stesso. Colui che è soggetto ad una dipendenza (farmacologica, alcolica, oppiacea, bulimica, sessuale o, in questo caso, da gioco) non vive il suo oggetto come cattivo; al contrario, lo ricerca come depositario di tutto ciò che è "buono", di tutto ciò, che nei casi estremi, da senso alla vita. Se si aggiunge la dimensione di pericolosità o di negatività questa ha la funzione di un "vantaggio secondario" che con tutta probabilità ha come scopo la punizione del soggetto. La dipendenza è uno scenario piuttosto comune, rappresenta la tendenza a rifuggire, per mezzo di vari paradisi sostitutivi, il dolore psichico generato dalle delusioni e dai dispiaceri che costellano la vita di ogni essere umano.

Così il soggetto può aggrapparsi ad un oggetto, una droga o qualcosa utilizzata come tale.

Quest'oggetto, nello specifico il gioco, ovvero la macchina dei videopoker, sarà destinato a procurare al soggetto il sentimento di essere "reale", "vivo", destinato a colmare un vuoto di senso per quanto riguarda la sua identità e il modo di pensare il mondo. Esso sarà ritenuto completamente responsabile di tutto quello che capita all'individuo: cioè che possa dargli la felicità, e non si tratta solo di una speranza ma quasi di un dovere.

Quando, presto o tardi, l'oggetto si rivela inadeguato a questa aspettativa il soggetto si sente tradito e deluso accusandolo di essere la causa di tutte le sue disgrazie.

Nell'iniziale idealizzazione, l'oggetto della dipendenza viene riempito di ogni significato salvifico: esso è utile per soddisfare tutti i bisogni, in esso si ritrova la "madre buona" sempre presente che gratificherà ogni nostro desiderio. Il videopoker, nello specifico, assume quindi, su di sé, il simbolo di qualcosa che in maniera onnipotente ci farà vincere denaro senza dover fare la fatica per ottenerlo, e per questo è il corrispettivo di un guadagno fatto in maniera magica ed immediata. Nel contempo, giocare può soddisfare in maniera "eccezionale" il bisogno di provare emozioni, di sentire e sentirsi, quando per converso, nella vita di ogni giorno ci si può ritrovare nell'appiattimento emotivo, affettivo, relazionale.

Di fronte al vissuto di de-realizzazione e di de-personalizzazione e nella difficoltà a trovare in sé emozioni che diano un significato alla vita si richiede in maniera "perversa" al gioco, alla droga, al sesso o ad altro di riempire in noi questa sensazione di vuoto, questo buco in cui ci troviamo immersi.

"E se nei casinò c'è almeno la cultura del gioco e il rapporto con gli altri, nell'azzardo tecnologico il giocatore ha un rapporto morboso con i videopoker che effettuando giocate continue con la stessa macchinetta la "sente sua" e arriva a perderci tanto denaro": il rapporto non ha più senso in questa dinamica in quanto l'altro diventa un mero contenitore dei nostri bisogni che devono essere soddisfatti. Per fare questo, per poter idealizzare a tal punto qualcosa dobbiamo non riconoscere nessuna peculiarità propria all'oggetto idealizzato al fine di proiettare noi stessi le caratteristiche di cui abbiamo bisogno, e se nel casinò era almeno possibile una relazione con gli altri, portatori di loro vissuti e limiti, nei videopoker il "rapporto" si instaura con una macchina priva di vita propria, in altre parole in un altro noi stessi.

Attribuire ad un videopoker una ricerca di senso così ampia non può che essere infine fallimentare. Ciò accade sia in caso di vincita, peraltro rara, dove il soddisfacimento esterno del bisogno non riesce a coprire l'ampiezza incolmabile del bisogno stesso. La soddisfazione di questo rimanda alla presenza nella prima infanzia, di una madre "sufficientemente buona" interiorizzata in modo tale da poterne sopportare affettivamente la sua assenza. Ancor più in caso di perdita (nella maggior parte dei casi) si aggiunge una sensazione di impotenza di poter fruire di un tal bene desiderato e per sempre perso e un senso di colpa che ogni volta si rinnova spingendo il soggetto con sempre maggiore sofferenza a cercare una disconferma alla malvagità della sorte e al senso di vuoto.