Questo sito utilizza cookie, anche di terze parti, per migliorarne l'esperienza di navigazione e consentire a chi naviga di usufruire dei nostri servizi online. Se prosegui nella navigazione acconsenti all'utilizzo dei cookie.
Per maggiori informazioni leggi la privacy policy e la cookie policy presenti nel sito.

Una morte dolcissima

La notizia
Eutanasia davanti a parenti e amici. Si uccide la paladina della dolce morte: ''Non voglio farlo da sola''.
La Repubblica, 24 maggio 2002

Gisella Troglia Il commento
Una notizia come questa riaccende nell'opinione pubblica il dibattito su eutanasia e diritto alla morte, argomento a dir poco scottante in questa società, poiché il tema della morte, oggi, è un vero e proprio tabù, l'equivalente, forse, di quel tabù che era nell'ottocento il tema del sesso.

Oggi non se ne vuol parlare, tutta la società, particolarmente quella parte che si definisce "laica", tende ad eludere il discorso in ogni modo; assistiamo tutti i giorni a celebrazioni funebri frettolose, con riti il più possibile abbreviati, è diventato disdicevole, a differenza che nel passato, esibire il lutto, tutti si affannano a dimostrare con le parole e con i fatti che "la vita continua"…

Non è sempre stato così, perché, all'opposto di oggi, fino a tutto l'ottocento la morte era in stretto contatto con il contesto sociale, era un evento che, pur appartenendo alla vita dell'individuo, come tanti altri episodi poteva essere condiviso ed esplicitato in atteggiamenti, manifestazioni, riti sociali.

Nella società contemporanea, invece, riceve grande enfasi soltanto tutto ciò che sposta in avanti il prolungamento indefinito della vita e la vittoria sul tempo, a ribadire l'estraneità e l'indisponibilità ad incontrare l'evento morte: la sofferenza, la malattia, il dolore e la morte vengono relegati in luoghi appositi, tecnicamente adatti a gestirli, e di contro assistiamo alla rincorsa di scoperte scientifiche ed innovazioni tecnologiche che promettono giovinezza, salute, prolungamento della vita, il consumismo si nutre di farmaci salva-vita, di tecniche chirurgiche, di manipolazioni, di accanimenti terapeutici.

Ritengo perciò ancora più "scandalosa" una notizia come questa che proviene dall'Australia, perché racconta di una scelta rivolta nella direzione opposta alla quale sembra tendere la società oggi: atti come questi appaiono provocatori, e lo sono, poiché costringono a prendere coscienza del dolore sopportato dalle persone malate, a riflettere sulla libertà dell'individuo, risvegliano le ideologie laiche e religiose, fanno discutere sui provvedimenti legali da adottare, insomma scagliano l'evento morte nella quotidianità della vita sociale.

In quasi tutto il mondo, infatti, l'eutanasia non è consentita e ci sono conseguenze legali per chi eventualmente la procura, l'obbligo imposto ai medici è sempre quello terapeutico, di cura ad ogni costo: la medicina, si dice, prolunga il più possibile la vita, non procura la morte.

Per questo Nancy Crick aveva chiesto il permesso al tribunale di mettere fine ai suoi giorni, e soprattutto voleva impedire che venissero perseguiti coloro che eventualmente l'avessero aiutata: "Non sono depressa, sono arrivata al termine della mia vita e voglio morire in pace".

Un atto coraggioso, che ci può aiutare a riflettere su un'ulteriore, più vera e più autentica, dimensione della vita e della libertà dell'individuo.

Non è un caso se i mass media danno grande risalto a tali avvenimenti, dato che la provocazione scandalosa insita in essi consiste non tanto nella rivendicazione di alcune persone malate gravi del diritto a morire, e ad una morte dignitosa, senza ulteriori inutili sofferenze, ma soprattutto nel ribadire il diritto a essere fino all'ultimo vivi, compiendo in piena coscienza un atto di scelta libero e personale: quello di morire "da vivi", appunto.

Sappiamo da Freud che nella profondità della sua vita psichica l'uomo si sente immortale, nell'inconscio la morte non esiste, vi è una spinta istintiva a viversi come immortali, a non voler credere di essere finiti: "La propria morte è irrapresentabile, e ogni volta che cerchiamo di farlo possiamo constatare che in realtà siamo sempre presenti come spettatori. Perciò … ciò equivale a dire che nel suo inconscio ognuno di noi è convinto della propria immortalità." (S. Freud, "Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte").

Appare perciò quasi ovvio che in ogni tempo gli individui abbiano rifiutato il concetto di morte, soprattutto della propria, ma in nessuna epoca storica si è avuto un rifiuto sociale così profondo e manifesto su tutti i temi legati a sofferenza, malattia, morte: questo spiega l'allontanamento dei malati e dei morenti, la solitudine affettiva nella quale vengono lasciati, la delega costante della loro sofferenza alla medicina, tutti esempi di una profonda negazione.

Al contrario, rivendicare la possibilità di scelta di porre fine ai propri giorni se malattia e dolore diventano insopportabili, se per queste sofferenze si sente di non poter più essere esseri vivi e vitali, diventa, paradossalmente, un atto di rivendicazione di vita, di esistenza, sempre, nel qui ed ora.

In senso psicologico l'individuo non sarebbe tale se rifiutasse l'idea della morte, poiché essa, come atto della vita, come confine che permette di costituirla e di definirla, è elemento fondante della vita stessa. Vita e morte costituiscono un unico processo di crescita, dove l'una è indispensabile all'altra per avere dignità di esistenza: anche se sembra che oggettivamente siano in opposizione radicale, perché dove c'è vita non c'è morte e viceversa, in realtà, per essere, la vita ha bisogno della morte.

Una pietra infatti non muore, ma perché non è viva: il paradosso dell'uomo è aver bisogno di morire per vivere in autentica pienezza la propria esistenza.

Un valido esempio di questa vitalità intrinseca nel concetto di morte è dato dall'innamoramento e dalla relazione d'amore, le persone innamorate dichiarano e sentono di poter amare fino al punto di morirne, la letteratura e l'arte di tutti i tempi sono permeate dal binomio amore - morte.

Allora se la vita può essere vista solo sullo sfondo della morte, essa diviene non qualcosa di definitivamente dato da far trascorrere, ma sempre la possibilità di un percorso da compiere, costellato di scelte, di progettualità, di cambiamenti; inoltre, guardare le cose da questo punto di vista, può significare anche spogliare gli avvenimenti che ci capitano e le relazioni che viviamo di tutti gli orpelli inutili che vi mettiamo sopra, per ricondurli invece all'essenziale, senza false certezze ma costretti, a quel punto, a cercare la verità, esaltando l'importanza degli individui in quanto assolutamente legati alla loro precarietà, e perciò tanto più preziosi nell'esistenza e nei gesti.

L'etimologia della parola eutanasia indica "buona morte"; credo si possa accettare questo significato, se con esso intendiamo la possibilità di porre fine a sofferenze e ad accanimenti terapeutici inutili, con la consapevolezza e la libera scelta di aver terminato il proprio percorso, come la signora australiana ci ha indicato.

Nella nostra società l'eutanasia non è ancora un diritto acquisito, nonostante numerosi movimenti di opinione tentino di diffondere questo orientamento, così in controtendenza rispetto alla negazione dell'idea stessa della precarietà e determinatezza dell'esistenza umana.

Assistiamo a battaglie durissime per affermare il diritto di una persona di terminare la sua esistenza in modo umano, dignitoso e senza inutili sofferenze, un'affermazione di autonoma scelta che rientra nelle libertà personali di ogni individuo, ma non è ancora un diritto riconosciuto legalmente in quasi nessun stato del mondo.

Questa volta la notizia proviene dall'Australia, ma non è la prima e non sarà l'ultima, e credo che episodi come questo meritino tutto il nostro rispetto, perché deve essere davvero estremamente difficile, oggi, in questa società, diventare vecchi, essere malati, sentire avvicinarsi la morte; arrivare poi addirittura a decidere di sceglierla volontariamente e non di farla capitare soltanto, è sicuramente un momento e un atto che tutti vorremmo evitare, al quale aderiamo con fatica, con dolore e con rabbia, così come ci ha descritto Simone de Beauvoir in "Una morte dolcissima": "Non esiste una morte naturale; di ciò che avviene all'uomo, nulla è mai naturale, poiché la sua presenza mette in questione il mondo. Tutti gli uomini sono mortali: ma per ogni uomo la propria morte è un caso fortuito, ed anche se la conosce e vi acconsente, una indebita violenza" .

Ricostruzione, riparare

La notizia
Chiude Ground Zero, New York torna alla vita. Con tre mesi di anticipo, il cantiere sorto sulle macerie del Word Trade Center ha completato i lavori.
Il Corriere della Sera, sabato 12 maggio 2002

Il commento
Tanti drammi e tante questioni aperte hanno occupato in questi giorni la nostra mente, ma voglio prendere lo spunto dalla fine di un incubo, da un cantiere che si chiude per cominciare a costruire.
Tra meno di due settimane, Giovedì 30 Maggio, dal cratere profondo 7 piani, dov'era il Word Trade Center, verrà portato via l'ultimo carico e il cantiere chiuderà.
Adesso il tempo deve ripartire, e deve ripartire proprio da lì, da questo spazio vuoto che sembra paradossalmente più piccolo, come capita nelle case senza mobili.
Dal 30 maggio comincia il domani, sul domani le famiglie dei 2823 morti innocenti, hanno le idee chiare.
Considerando Ground Zero un'area sacra, vorrebbero che rimanesse il vuoto, e che se costruire si deve, si costruisse solo un grande Memoriale.

Ma a progettare il futuro dell'area sono al lavoro quindici gruppi di ingegneri e architetti che presto sottoporranno i loro piani alla Lmdc (Lower Manhattan Development Corporation) la società voluta dal governatore Pataki per ricostruire. Pataki, che qui si gioca la rielezione, deve superare veti incrociati e scontentare meno gente possibile. La vita va avanti e insieme alla vita la corsa dei soldi e dei voti.
I sedici acri di Manhattan, in questa ricostruzione sembrano non poter contenere più né il dolore né i ricordi.
Lo spazio dove abitiamo, la città in cui viviamo non sono altro che una proiezione della nostra anima. Le Twin Towers che svettavano potenti, sembravano toccare il cielo, sembravano soddisfare l'anelito dell'uomo ad elevarsi verso l'alto.
Dalla costruzione della prima piramide, Azteca o Egiziana che fosse, l'uomo ha sempre cercato di costruire verso l'alto, sperando così di superare se stesso e la sua finitezza.
L'11 Settembre 2001 due jet dirottati da terroristi di Al Quaeda si schiantavano contro le Twin Towers, che con la loro imponenza erano il simbolo del potere economico occidentale.
Ora il 30 maggio si tratta di portar via da quell'area l'ultimo carico, ma mi chiedo se insieme a quell'ultimo carico se ne andrà anche il ricordo della rabbia e della violenza che ha reso possibile tale gesto? Sarà, mai possibile cercare di capire come mai tutto questo è accaduto?

Il grande Memoriale che si vorrebbe costruire sopra a quel vuoto lascerà l'anima libera dall'odio? Un memoriale ricorderà ad ogni parente dei caduti la dolorosa perdita subita, è una richiesta più che legittima, ma forse può far ricordare solo un aspetto di questa tragedia, può ricordare la perdita di vite innocenti, ma non il conflitto soggiacente che ha fatto sì che questo accadesse. Ognuno chiuso nel suo dolore potrebbe continuare ad odiare chi gli ha provocato tanta pena. Certamente, cancellando il dolore si potrebbe tornare a ricostruire verso l'alto, forse si potrebbe far meglio, forse due torri più alte potrebbero alzarsi verso l'infinito, ma ripristinare la situazione precedente non assomiglia ad una coazione a ripetere lo stesso errore nel tentativo di riparare? Tornare a ricostruire è un atto creativo…

"L'attività artistica è dunque intesa come un'attività riparativa che ri-crea i propri oggetti, li esteriorizza e li separa da sé, dando loro una nuova realtà, ma costruire significa scoprire nuove relazioni tra gli oggetti, e questo rappresenta un aspetto particolare della conoscenza"(Mancia 1990)

E quindi forse mi chiedo se non si debba continuare a scavare, ma non per recuperare corpi o resti di corpi, ma provare a scavare nella profondità dell'animo umano nell'odio tra gli uomini. Forse scavando si potrà capire come l'esibizione della propria potenza ad un certo punto crolli se non supportata da solide radici, e forse si potrà capire come l'odio per chi ha più potere di noi, ci rende simili a lui e capaci delle stesse crudeltà.
Il 30 maggio, quindi, l'ultimo carico si allontanerà e rimarrà il vuoto, un vuoto senza parole che se si riuscirà a tollerare cercando di controllare l'ansia di riempirlo con parole gesti e costruzioni potrebbe aiutarci a capire.

Scrive Henry David Thoreau in Walden o la vita nei boschi "Sul tavolo tenevo 3 pezzi di calcare, ma rimasi atterrito al pensiero che avevano bisogno di essere spolverati ogni giorno, mentre il mobilio della mia mente era ancora pieno di polvere. E disgustato li buttai fuori dalla finestra."

Il bambino che non c'è

La notizia
Culle vuote, piano del governo meno tasse per chi fa figli... un allarme quello che il Presidente della Repubblica lancia sulla denatalità... è urgente una politica mirata alla famiglia, che favorisca la costituzione di nuove famiglie che consenta alla donna di lavorare con impegno senza rinunciare alla maternità [...]
La Repubblica, venerdì 3 maggio 2002

Il commento
Quale futuro per L'Italia senza figli?
L'accorato allarme espresso dal Presidente Ciampi riguardo alle "culle vuote", esprime una mancanza a cui bisogna certamente porre rimedio con nuove leggi che agevolino le famiglie e nuovi sussidi….tutti interventi rispettabilissimi e di buon auspicio.
Ma è possibile che nessuno si domandi se, al di là delle sacrosante difficoltà sociali, materiali e fisiche ad avere figli, non ci sia anche un capovolgimento epocale su come la donna si viva, quale crisi profonda possa attraversare l'immagianrio femminile rispetto alla maternità?

Quale è la spinta profonda verso il desiderio riproduttivo? Perché una donna desidera avere un figlio già da piccola ancora prima del' incontro con il futuro partner?
Sarebbe troppo semplicistico pensare ad un adeguamento della donna ad un ruolo sociale predeterminato o ad un desiderio imitativo della propria madre, maturato già dalla prima infanzia e volto verso la propensione ad essere adulta.

Il domandarsi intorno alla maternità e alle sue dinamiche consce e inconsce resta ad oggi qualcosa di profondamente negato e poco dicibile.

La causa profonda della caduta della fertilità nell'uomo e nella donna forse è più ascrivibile ai disagi ed ai problemi psico-affettivi all'interno della coppia.
Con la commercializzazione della pillola negli anni Sessanta, la donna si è liberata del concetto di corpo come strumento riproduttivo ed ha cominciato ad assaporare l'idea inusuale di libertà e di responsabilità di scelta.

Diverso è sentirsi portatrici di un disegno divino ed accogliere con umiltà tutti i figli che il buon Dio voglia mandare, oppure farsi carico di una scelta consapevole di maternità.
Scelta ancora più enfatizzata quando, alla fine degli anni Settanta, compare la fecondazione artificiale.
Ora le donne possono volere o non volere un figlio: sembra tutto semplice e meraviglioso, siamo nell'era della tecnologia, il referendum per l'aborto ottiene una strepitosa maggioranza...

Ma le donne sono rimaste sole ad affrontare la misconosciuta trasformazione epocale del loro ruolo. A livello sociale molto si è fatto: la donna è uscita dal suo guscio di silenzio rassegnato, ha occupato ruoli sociali importanti, spesso si è accostata all'uomo in un proficuo rapporto collaborativo a più livelli. Poi, però, quando la sera ha terminato di ricoprire questi ruoli di successo, si ritrova a percorrere in discreta solitudine le ombre dei suoi perché e non sa più se quella spinta vitale che sente in sé è ancora un desiderio a procreare.
Ecco che le si apre il baratro delle contraddizioni e delle scelte faticose.
Il fenomeno della denatalità lamentato dal Presidente Ciampi, è complesso e comporta importanti ripercussioni sociali ed economiche.
Anche sulle pagine di "Le Monde" il demografo francese Henri Mendras sostiene che il nostro paese è minacciato dal suicidio: per gli amici dell'Italia e per il mondo intero sarà una perdita irreparabile e catastrofica e gli italiani sottovalutano il pericolo che li minaccia.

Poichè le donne fanno pochi figli e ne faranno sempre meno, il numero di donne in età feconda comincerà a calare rapidamente.
La data di passaggio è il 2007: da quell'anno, in Italia i morti cominceranno a superare in modo sempre più cospicuo la somma dei nati.
Vi è l'idea che, grazie all'immigrazione, potremo contrastare la prospettiva di un invecchiamento generalizzato. Questa visione è semplicistica.

La vecchiaia è uscita dalla dimensione intimistica per diventare materia di pubblica riflessione. Questo perché l'aumento della speranza di vita, minaccia una catastrofe sociale dai devastanti effetti previdenziali, sanitari e assistenziali.
Il paradosso: da un lato infatti i progressi della medicina e delle condizioni sociali di vita hanno allungato la vecchiaia e accresciuto il numero dei vecchi, dall'altro il progresso tecnico che caratterizza la nostra cultura ha ridotto l'anziano a considerarsi un incompetente, non più all'altezza dei tempi e quindi inutile.

"Sono condannato a essere libero" diceva Jean Paul Sartre nei giorni della sua vecchiaia, e non alludeva alla libertà, prerogativa essenziale dell'uomo, ma alla disponibilità infinita di tempo che la nostra società "regala" ai vecchi.

La maternità è divenuta un luogo di conflitti indicibili, paragonabile a quello che è stata la sessualità nella seconda metà dell'Ottocento.
La sterilità crescente, le difficoltà ad accogliere il desiderio di procreazione, il ricorso disperato alle biotecnologie, gli aborti volontari ripetuti, i parti indotti sono spesso effetti di un malessere profondo dell'identità femminile.
Per secoli mettere al mondo i figli era un atto regolato inderogabilmente dalle leggi della natura. Oggi, di fronte alla contraccezione, alle biotecnologie a alle scoperte della medicina, la nostra cultura contemporanea non ha ancora elaborato un'etica condivisa.
Anche perché in questo delirio di controllo onnipotente - ora si clonano anche gli esseri umani- si è perso il contatto con la profonda natura della gestazione e se ne ha solo un surrogato che non tiene conto dei molteplici piani implicati, della sua complessità, insomma.
La fertilità naturale si contrappone a quella artificiale in cui la donna è vista più come oggetto che come forza creativa.

Troppo spesso il desiderio di maternità è in contrapposizione al desiderio di affermazione sociale, in una società in cui il ruolo di madre si è impoverito delle istanze più profonde.
Non esiste un ordine armonico prestabilito della maternità.
Una sana assunzione del ruolo femminile inizia già dall'infanzia, ed, in questo senso, molteplici fattori sociali e personali sono oggi responsabili della svalutazione della maternità.

La maternità è un lungo processo che precede l'avvenimento specifico del parto.
Basta osservare il gioco dei bambini quando, ad esempio, fingono di fare la mamma o il papà, quando picchiano, rompono o riparano le bambole, oppure quando le curano, o le coccolano, per capire la ricca elaborazione interna che ognuno di loro fa del proprio rapporto con i genitori.
La paura del parto non è solo legata al dolore fisico o alla morte, ma può anche essere collegata al terrore di separarsi dalla propria creatura, con la quale solo la gravidanza consente un'unione intima, e perfetta

Ogni gravidanza è, per la donna, fonte di fantasie e desideri differenti, così come la madre ha un vissuto interno differente per ciascun figlio. Ciò che conta, nell'unicità di ogni maternità, sono le vicende che si svolgono a livello inconsapevole.

Tutte le fantasie di una donna su se stessa come madre o sul bambino che nascerà, hanno un'enorme importanza sia per lo svolgersi della gravidanza, sia per lo sviluppo futuro della relazione madre - bambino.

La donna incinta, identificandosi con il feto, riattiva il proprio rapporto arcaico con la madre, il dramma della fusione, della separazione, della vita, della morte e della sopravvivenza che continua a svolgersi dentro di lei.

Ormai, purtroppo, dovrebbe essere chiaro - e si evince anche dagli ultimi fatti di cronaca nera - che il rapporto mamma - bambino non è una ovvietà paradisiaca ma un intricato complesso di forti emozioni spesso contrastanti che va accolto e riconosciuto.
Complesse interazioni ed identificazioni che avvengono nel rapporto fusionale gestante-feto sono molto diverse a seconda della situazione infantile che ha avuto la bambina, ora futura madre. Se il rapporto avuto con la madre è turbato, questo certamente giocherà un ruolo nel modo in cui viene vissuta l'attuale maternità.
Se il rapporto e il confronto con la madre è stato molto conflittuale e ambivalente, se è stato caratterizzato da un'accentuata competitività, può accadere che tutto ciò si ritorca contro la futura madre.

Si può bloccare ad esempio la sua capacità di identificarsi con una donna adulta, costringendola a restare nell'eterno ruolo di bambina bisognosa alla ricerca di un risarcimento psicologico.

Un desiderio di maternità maturo è quello di pensare a una nuova vita come separata da sé e come sede di una nuova creatività affettiva.

La profondità naturale del corpo femminile è andata perduta in superficiali illusioni di scoperte scientifiche, e così facendo in qualche modo è stata violata la sacralità naturale del fine riproduttivo.
.Solo all'interno di un ritrovato contatto con la natura e con la sua disarmante semplicità, può dischiudersi il potenziale femminile, un campo di energie che si esprime nella fecondità.
È pericoloso perdere il contatto con l'aspetto più arcaico e istintuale della ricettività femminile.
L'energia naturale della donna entra in relazione col mondo moderno, dominato da status simbol e da false aspettative, e perde fra i meandri della tecnica la sua forza riproduttiva.

L'incontro con le energie profonde è un processo personale e intimamente soggettivo che passa attraverso lo stupore delle cose semplici. In questo senso la maternità si presenta come un buco nero non pensato che lascia invece spazio alla tecnologia moderna portatrice di illusioni di controllo riproduttivo. Infatti ormai le tecnologie giungono quasi a riprodurre l'intero ciclo riproduttivo, ma questo progresso, paradossalmente lascia "le culle vuote".

Difficile essere madri in un mondo in perenne accelerazione!
Per riempire " la culla vuota", ci vuole tempo, nel senso più significativo del termine: avere, cioè, la consapevolezza di possedere un tempo interiore che ci permetta di scoprire quanto sia commovente sapere attendere. Capaci di affiancare i nostri figli nel loro crescere senza pressarli con la fretta della massima efficienza.

Questo è un tempo che la donna, vittima inconsapevole della sua stessa affermazione sociale, non trova più dentro di sé e va aiutata a riscoprire, perché il desiderio potenziale di maternità, possa esprimersi nella pienezza della sua forza creativa.

La pensione per gli anoressici

La notizia
La Corte Costituzionale ha posto fine ad una controversia legale fra una cittadina residente in Calabria e lo Stato, dichiarando la signora in questione invalida civile e meritevole, quindi, di una pensione di invalidità. La signora è stata dichiarata invalida al 100% perché non in grado di svolgere alcuna attività lavorativa in quanto anoressica.
Il Secolo XIX, venerdì 10 maggio 2002

Il commento
Questa notizia mi ha colpito perché attribuisce lo status di invalido civile a una categoria di persone molto particolare: coloro che soffrono di anoressia. L'anoressia è un disturbo sempre più diffuso, colpisce in prevalenza i giovanissimi e quasi esclusivamente il sesso femminile.

Generalmente si tratta del precipitare di una dieta che inizia, molto spesso, proprio in questo periodo: sta per arrivare l'estate e sembra essere necessario ''mettersi un po' in forma''.

Capita però qualche volta che la dieta, il peso, la linea, diventino improvvisamente l'unica ragione di vita e il cibo il principale nemico. Un nemico da dominare più che da eliminare.

I sintomi sono abbastanza precisi e individuabili: insorgenza prevalentemente nella fase adolescente o preadolescente della vita, scomparsa o non raggiungimento delle mestruazioni (questo capita sempre), raggiungimento di un peso assolutamente basso - meno di quaranta chili in una persona di media statura -, anemia, alternanza di ''abbuffate'' e di vomito indotto (bulimia), abuso di lassativi e di diuretici e vari altri disturbi organici e psicologici che possono evidenziarsi come ad esempio uno stato fortemente depressivo.

In corrispondenza a questo quadro clinico oggettivo si può abbinare un quadro psicologico: asserzione perentoria di non soffrire la fame, tentativo di tenere sotto controllo l'enorme interesse che ruota attorno al cibo, occuparsi ossessivamente di tutto quanto riguarda il cibo: ricette, diete, occuparsi degli acquisti, vivere secondo l'ideale della supremazia assoluta della mente sul corpo, secondo una visione irrealistica di sé facendo, ad esempio, un esercizio fisico smisurato per tenere sotto controllo il peso e il corpo in generale.

Credo che la visione di una persona che soffre di questa sindrome sia una esperienza molto dolorosa e toccante. Il primo impulso è quello di fare immediatamente qualcosa per porre rimedio istantaneamente a questo problema.

In realtà credo che l'anoressia sia, come qualunque altro disturbo, un segno, il segno che c'è qualcosa che non va a livello emotivo e, se non si prova ad affrontare quello, non è possibile fare molto.

Non si può combattere l'anoressia, sono troppo forti le ragazze che ne soffrono, bisogna provare ad ascoltarle mentre soffrono terribilmente e non si tratta di un compito semplice.

Capita che, ad un certo punto, non si possa fare altro che ricoverare la persona in ospedale e alimentare ''a forza'' la malata. Funziona quasi sempre: per qualche giorno si salva la vita della ragazza, ma non si va più avanti di così.

L'anoressia è, però, un disturbo particolare ed aiutare queste persone è più difficile. Si tratta di persone che diventano degli ''studiosi'' delle problematiche alimentari e nutrizionistiche. Si tratta di persone normalmente dotate che da un certo momento in poi diventano delle ANORESSICHE, cioè non si considerano più come soggetti, ma come la somma di tutte le qualità (la magrezza, per altro mai sufficiente) e i problemi di una anoressica. Una ragazza che soffre di anoressia smette una identità di genere difficile e problematica e assume l'identità di ANORESSICA, quasi fosse un terzo genere ancora non tanto conosciuto.

Per queste ragioni mi ha colpito questa notizia, sono certo sia stata letteralmente ''divorata'' da tutte le persone che soffrono di anoressia che probabilmente otterranno da ciò un rinforzo perverso alla identità che sembra essere l'ultima cosa che è loro rimasta.

Non intendo con ciò svalutare il problema o sostenere che una persona che soffre di anoressia possa o debba lavorare come tutti gli altri, sicuramente farà molta più fatica, voglio soltanto dire che in casi come questo è più che mai evidente l'inutilità di un supporto di questo genere che, quasi, spinge a mantenersi malate. Non tanto per l'assegno, quanto per il riconoscimento ottenuto, in questo caso anche a livello statale e istituzionale.

Per spiegare in breve come possa essere impegnativo il lavoro di psicoterapia con una paziente anoressica voglio portare un esempio tratto da un libro: Lo psichiatra, 'il suo pazzo' e la psicoanalisi, di Maud Mannoni, una psicoanalista francese.

Fra l'altro nel libro si parla di Sidonie, una ragazza di 17 anni che, dopo cinque ricoveri ospedalieri viene portata dalla psicoanalista. I medici dicono: Persa per persa può andare a trovare uno psicoanalista!

È probabilmente proprio il fatto che si sa che si sta facendo un tentativo ben sapendo che esiste la prospettiva di morire che consente alla psicoanalista di stare vicino alla ''bambina'' e alla bambina di vedere la psicoanalista.

Dice ad un certo punto Sidonie: Voglio provare al mondo che posso resistere fino all'estremo limite di resistenza alla morte. Bisogna lasciarmi andare fino là, lasciarmi fare ciò che voglio.

Probabilmente per la prima volta Sidonie trova qualcuno che ascolta ciò che lei dice e di conseguenza la rispetta, rispetta il suo desiderio dolorosissimo di morire. L'analista prova ad accettare e a soffrire insieme a Sidonie e acconsente al suo desiderio di rifiutare il cibo.

È come se la Mannoni dicesse: Va bene, ti accetto. Sia morta che viva. Il tuo desiderio è importante''. E in un rapporto umano, quale è quello analitico, se si accettano i desideri dell'altro è possibile che si crei, piano piano, lo spazio perché ne vengano formulati di nuovi e di diversi.

Nel caso di Sidonie è stato possibile, ad un certo punto, trasformare il pensiero ''voglio morire'' o ''Non voglio mangiare'' in ''Voglio vivere'', e non è, questa, un impresa più facile.

Concludo con le parole di Sidonie: Se perdo la mia malattia, non so che cosa guadagno alla fine. Io sono in un'impasse perchè non so quello che troverò... Tutti sono contenti se io guarisco, non si rendono conto che l'importante non è questo. Non comprendono che ciò che conta sono i miei desideri. Cosa serve che io viva, se sono condannata alla morte dei miei desideri?

La colpa dei sopavvissuti

La notizia
Marzabotto: dolore e vergogna, di Giorgio Battistini.
La Repubblica, giovedì 18 aprile 2002

Il commento
Mi ha colpita, nel titolo, l'abbinata ''dolore e vergogna'', ricordando , in automatica, le tante ''colpa e riparazione'' che passano nelle pagine della psicoanalisi. Sono passati 58 anni dalla strage di Marzabotto, 60 da quella di Baby Yar, Ucraina,-332.000 civili, vecchie ,donne e bambini, ammazzati col fucile mitragliatore , quindi a distanza di un metro e mezzo tra carnefice e vittima, distanza di una stretta di mano, perpetrata da 44 pompieri di Amburgo. Uno solo, uno, si era rifiutato -. Sottolineo questo dettaglio per significare meglio cosa richiamano a me, figlia di deportato dai nazisti, la parola dolore, la parola vergogna. Richiamano un magma emotivo che non è facile da elaborare. E che non trova nel gruppo sociale che ci contorna un apporto che lo renda maggiormente partecipabile. Dato che il gruppo sociale ha potuto vedersi sfilare sotto il naso un Kappler infilato per scappare in una valigia, un Rader agli arresti domiciliari, un Gross, psichiatra nazista ancora vivente e non perseguito dalla legge, pur essendo uno dei medici che ha fatto esperimenti sui bambini…

E ha fatto passare 58 anni prima di presentarsi a Marzabotto. Questa éntree non ha niente di psicoanalitico:se non l'emotività viscerale del dolore di me, in posizione di paziente. Come se mi sentissi un paziente che parla di un dolore inesprimibile, quello dell'esser stato torturato e beffato dalla non comprensione , dal non ascolto dell'Altro. Credo che molto spesso il nazismo - con quei suoi aspetti di sadismo altamente organizzato in struttura ossessiva che, isolando e spostando l'impotenza e l'odio su questo o quell'oggetto da perseguitare- si sia ben prestato a rappresentare, nel mondo interno, gli aspetti più primitivi della distruttività psicotica. Gli aspetti distruttivi di quella parte arcaica, non integrata e, pertanto, disintegrante, che si organizza nell'affetto dell'odio, e lo cavalca, rendendolo, tragicamente, l'unico linguaggio realistico disponibile.

Il nazismo sembra esemplificare magistralmente quello che tutti gli autori sottolineano come nocciolo della perversità psicotica: la trasformazione, attraverso vari meccanismi, dall'erotizzazione, all'idealizzazione, di qualcosa che ha a che fare con un'impotenza estrema, con un senso di morte inelaborato, e che viene, appunto, trasformato in qualcosa di opposto, di onnipotente, di persecutorio. E' la vergogna, di cui parla l'articolo, che , forse, nella migliore delle ipotesi, ha bloccato per 58 anni la capacità di elaborazione della colpa in un intero popolo e nei suoi rappresentanti. E' vero quello che il presidente tedesco Rau ha detto a Marzabotto, che la colpa personale resta quella di chi ha commesso gli eccidi, mentre le conseguenze di quella colpa le devono affrontare le generazioni successive. E' vero anche che, purtroppo, come ha scritto in tanti libri Primo Levi, le conseguenze psichiche della colpa le devono affrontare tanto le generazioni delle vittime, quanto quelle dei carnefici. Certe colpe, per la difficoltà, a mio parere, che innescano a livello del processo della separazione e, quindi, del perdono, della riparazione, hanno un effetto angosciosamente mortifero. In questi giorni i giornali parlano di altri eccidi, di altro odio, non si parla d'altro, infine, che di odio, a parte le '' distrazioni '' sulla mamma di Cogne, o sui prelati pedofili del mondo cattolico… Ma voglio sottolineare anche qui, che l'odio nazista contiene in sé un nocciolo del tutto speciale, a tutt'oggi differenziante il nazismo dal resto del capitolo della distruttività umana: quello dell'aver organizzato in struttura produttiva l'odio e la tortura.

E' questo che, secondo me, rende il nazismo più simile alla struttura psicotica perversa, che non solo esprime odio, ma lo organizza e lo trasforma in una idealità che lo snatura. Come se, oltre la distruttività, contenesse quegli aspetti delinquenziali e perversi, che, come si vede anche nei pazienti, differenziano l'atteggiamento di richiesta di cura. Uno psicotico che chiede aiuto per la violenza estrema delle sue parti aggressive, chiede aiuto. Il delinquente, il perverso no. Agiscono sull'altro il problema del dolore mentale, facendolo diventare un non problema per loro stessi che, anzi, non lo sentono. La vergogna per la loro impotenza ad essere animati da sentimenti di sollecitudine e, di conseguenza, di pietà, di solidarietà, non viene sentita e viene capovolta in esibizionismo e senso di trionfo per l'onnipotenza che possono esercitare. Questa, credo, è la ragione per cui è così difficile elaborare questa angoscia di morte, sia da parte dei colpevoli e loro eredi, che negano, disconoscono, minimizzano l'accaduto, sia da parte delle vittime e loro eredi che, al contrario, non riescono in modo altrettanto patologico a staccarsi da questo senso di esser stati beffati e segnati dalla sofferenza.

I primi negano, i secondi non riescono a rimuovere, ad esercitare quella rimozione fisiologica e benefica che permetterebbe di essere meno preoccupati e angosciati, o meno viscerali e rimuginanti. Che consentirebbe di ricordare quel che basta per operare un monito etico e una sollecitazione ad impedire, politicamente, per quel che si può, il rinnovarsi di situazioni consimili. Ma che consentirebbe, altresì, di non perpetuare dentro di sé schieramenti oppositivi di stampo istero-paranoicale che, me ne rendo perfettamente conto, sfiorano, prima ancora che la patologia, il ridicolo. Dolore e vergogna , dicevo, mi hanno richiamato, come in opposizione, l'abbinata colpa e riparazione. Dolore e vergogna parlano ancora un linguaggio greve e distruttivo, un linguaggio di angoscia, di pena, di morte. Al contrario, colpa e riparazione contengono un riconoscimento della distruttività che apre alla speranza di una ricostruzione di qualcosa, almeno.

Una speranza che il dolore mentale e non, una volta attraversato ed elaborato, possa aprirsi alla prospettiva progettuale di un riparare attraverso l'assunzione della responsabilità.

Responsabilità intesa come momento di separatezza necessaria ad individuare ciò che si è sentito e si è fatto per mantenerne sufficiente memoria a consentire un utilizzo per progettare in modo diverso. Se i tedeschi hanno fatto passare 58 anni- un tempo davvero lunghissimo, in questa nostra era delle accelerazioni - per recarsi a Marzabotto, non possiamo solo imputarlo alla loro malafede. Credo che sia stato indispensabile un tempo lunghissimo per districarsi proprio dalla vergogna, non tanto dalla colpa. La vergogna è, a mio parere, il rovescio della medaglia di quel sentimento narcisistico primitivo della distruttività; sentimento che fa capo ad un'idealità perversa in entrambi i versanti. L'esperienza di spaventosa passività scatenata da un vissuto d' impotenza, che ha portato, negli anni trenta-quaranta, all'emotività nazista e che li ha portati a viversi claustrati in una Germania troppo angusta, è simile al vissuto di passività del perverso di fronte ad una madre arcaica sentita come pericolosa, distruttiva, irraggiungibile, nociva.

I nazisti, come i perversi, hanno cercato di disumanizzare il corpo, trattando civili, ebrei, handicappati come esseri sub-umani, e quindi sollevandosi dal senso di colpa ad infierire su di loro. Proteggendosi anche dal problema della loro stessa vulnerabilità e dal confronto con gli altri esseri umani. Come il perverso, hanno poi suscitato un'ostilità incontenibile a giustificazione e sostegno di questo progetto di disumanizzazione dell'altro. E, terzo meccanismo di difesa perverso, hanno tentato -si pensi ad Auschwitz - di abolire, omogeneizzando l'Uomo a numero e a produttore di lavoro, capelli e denti, di abolire l'individuazione e la differenza. Perché lasciare delle differenze e delle qualità individuali all'Altro può scatenare un vissuto di dolorosa curiosità, d'amore e di confronto. Ma la vergogna, che per più di cinquant'anni, ha impedito loro un gesto pubblico di riconoscimento e di riparazione , anche la vergogna omogeneizza tutto e rende disumani. Rende, cioè, incapaci di quell'ascolto che, pur sentendosi colpevoli, forse solo può dare all'Altro il senso di essere accolto e capito nelle sue difficoltà.

La vergogna, invece, pur essendo un sentimento penoso per chi la prova, non dà alcun sollievo, alcuno spazio, all'Altro che, anzi, non solo deve elaborarsi le sue ferite, ma deve anche sopportare l'orgoglio luciferino della vergogna altrui.