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Sulla strada del tempo

La notizia
Alla conferenza dell'Onu: Una società per tutte l'età organizzata in questi giorni a Madrid, hanno partecipato delegazioni di 160 Paesi con l'obiettivo di approvare un piano d'azione internazionale per far fronte alle conseguenze dell'invecchiamento globale e siglare una Dichiarazione di impegno politico. L'invecchiamento della popolazione è uno dei problemi principali che l'umanità deve affrontare nel XXI secolo. Un problema praticamente irreversibile a cui tutte le società dovranno adattarsi partendo per esempio con l'eliminare ciò che esclude o discrimina gli anziani.
Il Corriere della Sera, martedì 9 aprile 2002

Il commento
Secondo l'articolo riportato dal Corriere della Sera, la nostra società incomincia timidamente a fare alcune riflessioni su un aspetto della vita spesso rimosso e negato e cioè l' invecchiamento.
Durante gli ultimi decenni la cultura occidentale sembra essersi impegnata nella ricerca delirante ed onnipotente dell'eterna giovinezza: i valori dell'efficienza fisica, della produttività, della bellezza sembrano avere raggiunto una incontestabilità ed una assolutezza mai prima possedute.

Tutto ciò che può portare l'uomo a riflettere sui suoi limiti, sull'invecchiamento, la malattia, la morte, viene considerato inutilmente deprimente, non aderente allo spirito del tempo e quindi impopolare. La figura dell'anziano, con tutto il suo bagaglio d'esperienza, che strutturava fortemente le grandi famiglie patriarcali e il gruppo, è stata via via delegittimata e accantonata a favore di una trasmissione tra le generazioni asettica, in pillole, deprivata completamente di quella tridimensionalità che costituisce l'essenza di un sapere che non esclude le emozioni.

Infatti "noi discendiamo da una lunga serie di antenati umani e animali, per un'innumerevole successione di eventi casuali, incontri fortuiti, brutali catture, fughe riuscite, tentativi ostinati, migrazioni, sopravvivenze da guerre e da malattie. Per produrre ognuno di noi fu necessaria un'improbabile e complessa catena di eventi, una storia immensa che dà ad ogni individuo la sacralità della sequoia, a ogni bambino il capriccio del segreto." (Robert Nozick, La vita pensata in Le dimensioni della bioetica di Luisella Battaglia)

Se istintivamente, come accade, ci allontaniamo da chi è vecchio, neghiamo le nostre radici e questa operazione di apparente alleggerimento ci inaridisce vieppiù. Del resto, come dice Julien Green, "si rimane a volte terrorizzati nello scoprire se stessi in un altro", a maggior motivo se questo altro ci precede sulla strada del tempo.

All' anziano, smarrito il suo ruolo, non resta che difendersi dalla sofferenza ripiegandosi su se stesso e rinunciando a vivere pienamente, pur con le difficoltà legate ad un deterioramento fisico e mentale, quello spazio affettivo che ancora gli resta.

Gerard Le Gouès, nel suo libro "La psicoanalisi e la vecchiaia", in un certo senso ci rassicura circa il destino dell'anziano. L'autore analizza puntualmente i cambiamenti che la vecchiaia determina e le difese che un apparato psichico è in grado di organizzare per continuare a vivere al meglio.
Nei trattamenti psicoanalitici in condizioni estreme, che l'autore annovera nella sua esperienza, viene per esempio gettata una luce diversa sulla regressione, difesa a cui di solito gli anziani ricorrono. Il concetto di regressione viene capovolto, diventa un moto un moto dell'apparato psichico per ritrovare un piacere nel funzionare, come controbilanciamento della sofferenza. Ciò che prima appariva come un moto d'allontanamento dalla realtà è ora valutato come una reazione salutare, l'espressione del desiderio di vivere. L'autore propone inoltre un approccio terapeutico che possa offrire all'anziano indementito un invecchiamento più sopportabile, rivolgendo l'attenzione ai suoi aspetti vitali e allo stato della relazione d'oggetto. Il disorientamento dell'anziano a cui spesso si assiste come impotenti spettatori, non viene più considerato uno sconvolgimento, bensì uno sforzo enorme che il soggetto fa per riprendere contatto con il suo oggetto interno perduto. Il clinico offrendosi come oggetto ausiliario permetterebbe di dare sollievo all'anziano demente in questa sua faticosa ed estenuante ricerca. A questo proposito Le Gouès ritiene che durante il trattamento terapeutico abbia molta importanza un clima transferale di grande accoglimento e pazienza. Cautele necessarie poiché il paziente in alcuni casi vive uno stato di grande debolezza e spesso la vita attuale come un incubo carico di "agonie primitive" (Winnicott). In queste situazioni egli avrebbe bisogno di una funzione ausiliaria per far fronte alle angosce d'annientamento, un appoggio (l'analista) che lo rimandi al suo bagaglio affettivo consentendogli di verificare che i sentimenti dentro di sé non sono svaniti. Attraverso un cauto utilizzo dello strumento psicoterapeutico psicoanalitico si riuscirebbe -secondo l'autore- a ricompattare, magari anche solo per brevi periodi, alcune funzioni affettive e cognitive e quindi a trasformare ridimensionandole tutte le incomprensioni che possono esserci tra l'anziano demente e il suo ambiente. Questo lavoro di Le Gouès ci permette, cioè, di concepire un'ipotesi di cura anche per quell'età dell'essere umano più ricca d'esperienza da un parte e dall'altra più difficile da elaborare ed accettare, dal momento che dobbiamo vivere il lutto per aver perso stati di benessere precedenti e allo stesso tempo dobbiamo tollerare la consapevolezza che la nostra esperienza si scontra con il limite della vita.

"Ogni volta che un vecchio muore,
nel cielo si accende una nuova stella"

(Leggenda africana)

L'inverno nel cuore

La notizia
Il pianto sulla tomba di Sammy. Cogne, Anna Maria torna a sorpresa a trovare il figlio morto. Un viaggio segreto da Monteacuto al cimitero dove è sepolto il bambino.
La Repubblica, martedì 2 aprile 2002

Il commento
Leggiamo sul giornale che il giorno di Pasquetta Anna Maria Franzoni si è recata sulla tomba del figlio per poterlo finalmente piangere dopo le vicissitudini che tutti conosciamo.
La mamma di Samuele è stata arrestata per l'uccisione del figlio ma, mentre era detenuta, il marito prodotto prove che la scagionavano e ha rivelato i nomi di alcuni abitanti di Cogne che potrebbero essere stati gli assassini.

Nel leggere l'articolo di martedì 2 aprile e nel vedere le immagini di Anna Maria sulla tomba del figlio non si può non notare una certa esibizione del dolore, sembra un gesto suggerito,oppure non spontaneo per dare di sé un'immagine di buona madre. Sembra essere quasi una risposta a quanti hanno detto di lei, che era una cattiva madre.

In fondo gli abitanti di Cogne, con gesti più o meno rappresentativi, hanno cercato di dare di se stessi un'immagine irreprensibile, hanno cercato in tutti i modi di prendere le distanze dalla famiglia Lorenzi.

Dalle interviste sembra che anche la distanza della propria casa da quella dei Lorenzi diventi emblematica della possibilità per ciascuno di sentirsi completamente estraneo ai fatti.
Sul giornale di oggi vediamo anche una piantina che segna le distanze: 30 metri dividevano la casa di Stefano e Anna Maria Lorenzi dalla casa di Carlo e Daniela Guichardoz.

"Volevamo la casa sul prato di Montroz per starcene in pace fuori dal paese" dicono i Guichardoz.

Nell' articolo leggiamo che Daniela Guichardoz ha fama di donna burbera, sempre chiusa in casa con rare amicizie e prodiga di ceffoni se i due figlioletti fanno i discoli. Se qualcuno cerca di avvicinarsi alla villa, Daniela chiama immediatamente i carabinieri, se la si incontra per caso in paese fugge a "rotta di collo", trascinando i ragazzini.

Di Anna Maria, invece, si è detto un po' di tutto; non è una buona madre perché non ha stretto al petto Samuele quando l'ha trovato morto, non è una buona madre perché il giorno del funerale aveva i capelli freschi di parrucchiere…

Evidentemente si cercano indizi di colpevolezza e si fa ricorso, quindi, a tutti gli stereotipi sulla maternità.

Spirito di sacrificio, abnegazione, incuranza di sé sono gli attributi che designano una buona madre, e allora si dice che Anna Maria non li possiede e neanche Daniela forse li possiede e solo per questo potrebbero essere loro ad aver ucciso Samuele.

Accantonando per ora la ricerca dell' assassino di Samuele, chiediamoci qualcosa di più sull'amore materno e cerchiamo forse un'altra scomoda verità.
L'amore materno è un istinto che scaturisce dalla "natura femminile"?

No. l'amore materno è un sentimento contingente; può esistere e non esistere, non va dato per scontato.

Ma perché questo amore possa esserci e crescere e maturare la donna deve essere aiutata dall' ambiente che la circonda. Il padre, i nonni, la comunità possono offrire alla madre il sostegno che le permetterà di dare amore incondizionato e di non sentirsi chiusa in un rapporto dove vita tua equivale a mors mea.

Scrive Mauro Mancia in Dall'Edipo al sogno "…ad una madre confusiva e simbiotica corrisponde un padre assente e morto, non solo fisicamente, ma soprattutto psicologicamente morto, atono, lontano, incapace di comprendere i reali bisogni del bambino, pronto ad adeguarsi a regole sociali o ad ipocrisie di gruppo senza preoccuparsi delle reali esigenze emotive del figlio, incapace, in ultima analisi (e spesso anche per un difetto materno) di porsi come un vero e autentico modello di identificazione".

Anna Maria è stata lasciata sola, come sole sembrano essere quelle donne di Cogne che non riescono a pensarsi buone madri semplicemente riferendosi all'affettività fuori e dentro di loro.
Far ricorso a degli stereotipi risulta essere l'unica via per potersi riconoscere "non colpevoli".
In psicoanalisi si sa che la prima e più fondamentale tra le nostre rassicurazioni o misure di sicurezza contro i sentimenti di dolore, contro l'essere attaccati, contro l'impotenza è l'espediente da noi chiamato proiezione.

Tutte le sensazioni o i sentimenti dolorosi e spiacevoli nella mente sono, automaticamente, relegati fuori di sé; si suppone cioè che questi si trovino altrove, non dentro di sé.
Noi li sconfessiamo e ripudiamo come nostre emanazioni; per esprimerci con una frase sgrammaticata ma psicologicamente esatta: noi li rimproveriamo su qualcun altro. Se arriviamo a riconoscere tali forze distruttive in noi stessi, affermiamo che vi sono giunte arbitrariamente, o per qualche causa esterna e che dovrebbero ritornare nel luogo a cui appartengono.

Daniela picchia violentemente i suoi bambini, grazie a questo diventa sospettabile, chi l'accusa dice a sé e agli altri: "io non picchio i miei bambini". Anna Maria ha i capelli sempre in ordine, chi l'accusa pensa che solo gli altri si occupano più dell'aspetto fisico che dei figli e così via, in un gioco di proiezioni infinite, dove pare che l'unico risultato ottenuto sia il poter mettere più chilometri possibili tra una casa e l'altra, tra una persona e l'altra.
In realtà soltanto l'ascolto, la comunicazione, la vicinanza possono rompere il gelo che più che sul paese di Cogne pare scendere sul cuore dei suoi abitanti.

Il sorriso di mia madre

La notizia
Uscirà tra un mese e poi rappresenterà l'Italia a Cannes L'ora di religione, l'ultima fatica cinematografica di Marco Bellocchio che, in un primo tempo, il regista pensava di intitolare Il sorriso di mia madre.
La Repubblica, sabato 16 marzo 2002

Il commento
La trama del film ci racconterà la singolare storia del processo di beatificazione di una donna. Il protagonista, Ernesto, appena separato dalla moglie, viene inaspettatamente convocato da un cardinale che sta istruendo la causa di beatificazione di sua madre.

Il processo religioso è stato richiesto dagli altri tre fratelli, con i quali Ernesto ha rotto i rapporti da molti anni. Il primo, Erminio, vive e lavora in Africa; il secondo, Ettore, ex estremista, cerca di recuperare e di rimettere insieme la sua vita. L'ultimo, Egidio, quello che, in un'esplosione di violenza, ha ucciso la madre, condannato, per questo e contenuto in un carcere psichiatrico, si è chiuso, da allora, in un definitivo mutismo. L'intera famiglia, coalizzata per ragioni opportunistiche, tenta di trarre vantaggio dalla tragedia.

Un film, apparentemente, dalle tinte intense e saturanti.

Così risponde Bellocchio all'intervistatore che gli chiede ragione dell'indecisione sul titolo: ''L'ora di religione'' è solo un pretesto, ma è diretto. ''Il sorriso di mia madre'' va più in profondità, evocando la capacità di una madre di distruggere un bambino indifeso con il suo sorriso apparentemente benevolo che può nascondere indifferenza e, peggio, anaffettività.

Ci immaginiamo la famiglia, una lenta ed inesorabile freddezza fatta di sguardi mancati, di attenzioni negate, di assenze, attese deluse. Al posto di un'intesa, una corrente pietrificante di odio, al posto di un fiducioso abbandono, il dolore della disperazione.
Sappiamo quanto tutto questo possa essere intollerabile, quasi mancanza fondamentale, origine di ogni vuoto e dolore.

Se, attraverso le sue cure, la madre non placa solo la fame, ma trasforma, quasi per divino potere, sentimenti di rabbia e terrore in sazietà e benessere, il bambino mutua da lei, oltre l'alimento per conservare la sua vita biologica, anche l'esperienza di una riunificazione della mente, minacciata da emozioni troppo intense, dolorose, distruttive. Deriva la sicurezza della sua continuità d'essere e del suo significato.

E' quasi un'opera creatrice profonda e silenziosa: il modo in cui è cullato, nutrito, cambiato, carezzato, diventa la prima grammatica che plasma il suo mondo, lo ordina e lo dota di senso.
E' un'esperienza così importante che condiziona tutto il resto della nostra vita come tensione alla ricerca di avvenimenti e di incontri che ancora sappiano ricomporre le nostre frammentazioni in una fragile e luminosa unità

Di questi momenti fatti di un tempo sospeso, rapito in una antica e non ancora detta meraviglia, spesso ci parlano i poeti.

Vedi, in questi silenzi in cui le cose si abbandonano e sembrano vicine a tradire il loro ultimo segreto […] più chiaro si ascolta il sussurro dei rami amici nell'aria che quasi non si muove e piove in petto una dolcezza inquieta […] Lo sguardo fruga d'intorno e la mente indaga accorda disunisce nel profumo che dilaga. (E. Montale, I limoni)

Spazi di un fortuito incontro con qualcosa che ci è noto, ma che pare trasfigurare una sua più profonda essenza che tocca la nostra anima sino alla commozione. Una nuova ed antica pienezza, di cui sembrava smarrita la memoria, è ancora vicina, quasi la si può accarezzare.

Se procedi ti imbatti, forse, nel fantasma che ti salva: si compongono qui le storie, gli atti scancellati per il gioco del futuro […] Va, per te l'ho pregato, - ora la sete mi sarà lieve, meno acre la ruggine … (E. Montale, Godi se il vento ch'entra nel pomario)

L'esistere sembra, di colpo, ridiventato possibile, quasi lieve e consolata presenza; l'affanno e la paura, un'altra volta ancora, forse, vengono pacificate da un ''singolare, seducente e misterioso sorriso'' che è nel vento, nel cielo sfigurato dalla sera, sul volto di una persona amata.

Ma spesso tutto questo non è possibile, il mondo e gli uomini sembrano restare muti in una terribile chiusura di contatto, nel rifiuto di ogni comunicazione. La bellezza diventa incubo e dolore: non c'è spazio per quello che siamo, non c'è tempo per le nostre richieste, non c'è speranza per noi.
Se la cifra della nostra prima comunicazione con gli altri è stata quella prevalente del silenzio e della lontananza, sarà difficilmente attingibile l'esperienza di un significato riunificatore e di un amore che si può dare e ricevere.

La relazione con gli altri poco sarà vissuta come un ''accrescersi e un darsi forma a vicenda'', ma quasi temuta e sfuggita perché possibile luogo di una bruciante delusione e di una fondamentale assenza.

Voi, gli uomini, mi avete respinto con il vostro tacito disprezzo. Ai miei impulsi appassionati avete risposto con un'offesa mortale. Ora io, dunque, ho il diritto di chiudermi in una torre d'avorio. (F. Dostoevsky, La mite)

Una clausura apparentemente obbligata, del tutto quotidiana, costante, come unica ed estrema difesa dal dolore. A volte una scienza perfetta, organizzata, di matematica precisione, impegnata nella costruzione di un silenzio emotivo assoluto e preordinato, solo a volte turbato da qualcosa di imprevisto ed inaspettato. Come la sicurezza di chi ancora chiede quasi certo di una risposta, di chi ancora attende con fiducia il calore di una parola, la comunicazione tenera sino alle lacrime di una carezza.

Questa richiesta e questa fiducia, in alcuni casi, possono essere per noi addirittura intollerabili, odiata memoria della nostra mai rimarginata ferita. La furia del dolore per la solitudine di ogni contatto può chiedere giustizia verso chi ancora non sa e osa ricordarci la disperazione e il vuoto senza centro della nostra mente.

La freddezza ricevuta un tempo può mutarsi in freddezza restituita ad altri, anche se questi altri non erano presenti al compiersi della nostra tragedia.
Solo un mondo alternativo al vero, in tutto costruito da noi stessi, scelto pietra su pietra, pensiero su pensiero, un mondo di ''esotica compostezza'' sembra il luogo dove potere ancora sopravvivere.

Nessuna idea può rimuovere la dura scorza del mio spirito. Non mi ferisci, la tua mano non può indurmi a ricordare e ad essere triste. Io ti prendo con me, dolce pena, e ti rendo più aspra con il mio gelo. (D. Thomas, Nessuna idea)

La nostra unica casa diventa un mondo capovolto, stretto dall'urgenza della costruzione e dell'autocelebrazione per non lasciare spazi al dubbio, per allontanare lo spettro di venire smascherati nella fondamentale ed originaria, mai rimarginata, mancanza d'amore. E questo rischio ci può riguardare non solo all'interno delle nostre singole e private esistenze, ma ci può coinvolgere anche al livello più allargato del contesto sociale in cui viviamo.

E' forse in questo senso che il film di Bellocchio ci ricorda la nostra possibile partecipazione ad una mistificazione collettiva che tenta di allontanare la sofferenza con operazioni di risignificazione al contrario, dove un processo di beatificazione cerca di cambiare definitivamente il male in bene.
Si parla molto oggi di crisi della famiglia e certo è dei nostri tempi il cambiamento profondo del luogo dove, per ognuno di noi, è cominciata la vita biologica e quella del pensiero. E non sono certo solo i numeri sempre crescenti delle separazioni a dare la misura della fragilità del momento. Più precisamente, questa dimensione è comunicata, forse, da una domanda: dove ancora chi nasce potrà imparare la speranza e la gratitudine e chi avrà la responsabilità di essere presente, di accogliere, di accettare e di fare crescere i bambini sino ad una sufficiente autonomia emotiva?

Nelle separazioni e nei divorzi, a volte anche troppo precisi per quello che riguarda la definizione del tempo che i figli devono passare con il papà e con la mamma, spesso sembra nascondersi la difficilmente confessabile angoscia per la rottura di una continuità di cui nessuno sembra più potersi fare carico, quella continuità d'essere così indispensabile al bambino per crescere.
E, di fronte all'angoscia, può essere forte la tentazione di una rapida ed impaziente composizione. Può essere quasi ipnotico, sull'onda della paura, il desiderio di mettere tutto a tacere prima che il dolore possa di nuovo farsi riconoscere e disegnare trame di disperazione.

Ma i processi collettivi di beatificazione, dei quali a volte ci scopriamo artefici attivi, possono condannare alla miseria ben più severa della menzogna dalla quale non si riesce a trarre sufficiente alimento per vivere. Possono condannare alla messa al bando della speranza e della bellezza, percepite, al fondo, come le minacce più temibili al mondo di compostezza artificialmente creato.
Se ci pensiamo, proprio l'inverso di quello che dovrebbe accadere. Osserva D. Meltzer ne ''La comprensione della bellezza'':

Il processo evolutivo nell'intero arco della vita lotta per reintegrare ciò che il fragile Io del bambino non può sopportare e da cui è lacerato, così che la bellezza dell'oggetto possa essere contemplata direttamente senza recare danno all'anima come temeva Socrate.

Curare, prendersi cura, accanirsi: un intervento del Papa

La notizia
''Il Papa contro l'accanimento terapeutico'', di R. Monteforte.
L'Unità domenica 24 marzo 2002

Il commento
A commento intorno alle polemiche suscitate in Gran Bretagna dalla decisione assunta a Birmingham a favore dell'eutanasia, il Papa ha espresso un'importante puntualizzazione intorno alla assoluta non opportunità di ogni atteggiamento medico improntato all'accanimento terapeutico. Si è riferito in particolare, alla necessità di ricordare che ogni essere umano "è limitato e mortale". Essendo io medico, cresciuta nella scuola di chi insegna al medico l'obbligo non dei risultati, ma dei mezzi, frase che riassume , con la stessa parola " mezzi", la reificata e deificata ideologia di un'onnipotenza dell'efficienza, sono stata molto colpita che il Papa riportasse questa parola: limitato e mortale.

I sostenitori dell'eutanasia si pongono in un'ottica dell'umiltà: quella dell'accettazione di poter, da parte dell'uomo, chiedere di essere aiutato, non solo a vivere, a imparare, a lavorare, tutti capitoli dell'esistere per i quali è non solo lecito ma anche naturale, ormai, poter pensare ad essere aiutati, ma anche a morire. E chiedono di non dover ricorrere a confondere un'altra logica dell'onnipotenza, quella del suicidio, col diritto di poter scegliere di non vivere più. Col poter scegliere di non essere artificiosamente mantenuti in un vivere che, talvolta, non ha più le caratteristiche stesse della vivibilità.

Ma a questo punto, la mistica del curare, che sappiamo rasenti il furore terapeutico sempre più spesso, dato che i mezzi tecnici sempre più raffinati lo consentono, si sostituisce all'esercizio del buon senso.

Il Papa si è riferito ad un discorso che non tiene conto del solo corpo, ma anche e soprattutto dello spirito. Pur non essendo cristiana, e parendomi spesso la religione una sacra bottega che, a prezzi di fabbrica, ti compra e ti lega, devo riconoscere, in questo caso che il riferirsi ad una vita spirituale possa farci riflettere, come persone e come medici, al significato complessivo del termine "cura". Che, derivato dalla lingua latina, avrebbe il significato ambiguo, sia di operare delle pratiche volte a far star meglio, sia di sollecitudine e preoccupazione per l'Altro.

Una delle primarie cure materne al bambino, che passa necessariamente attraverso le cure corporee, l'attenzione al soddisfacimento dei suoi bisogni primari ecc, e non attraverso la parola, ovviamente, è volta a non farlo morire. La morte, quindi, implicitamente, è presente nell'esperienza di vita fin dai primi momenti. Il fatto, poi, che questo cammino difficile e faticoso, affascinante e tormentoso che è la vita, dovrà, a un certo punto, finire, è una realtà così significativa da farci organizzare attorno le nostre difese psichiche, sia in senso depressivo, che costruttivo. Le fantasie di onnipotenza, che non riguardano solo i pazienti deliranti!, contengono implicitamente dentro di sé anche quelle dell'immortalità.

Non a caso H. Searles ha dedicato parte dei suoi studi sulla schizofrenia a quel fenomeno di diniego, fisiologico per tutti, della consapevolezza della propria morte e dell'ineluttabilità di essa. Un diniego emotivo, parziale, per la maggior parte di noi, per gli schizofrenici in particolare, un diniego totale.

La possibilità di avere una vita bene integrata, un sé intero in grado di partecipare alla vita e di sentirsene parte è un modo di poter elaborare il fatto tragico di essere, comunque, destinati a morire.
La possibilità anche non definitiva, di sentire realizzate delle relazioni di contatto, di vivere pienamente delle esperienze, sentimento che ci avvicina e agli altri e ad un senso di continuità con la vita, ci permette di non provare più l' idea della morte come idea di angoscia pura, ma di sostenere al nostro interno una sensazione di naturalità.

Ma vivere in condizioni oggettive che non permettano, che si oppongano, per la loro dolorosità, o per l'avvilimento totale della propria capacità di autonomia, ci depriva della possibilità di vivere pienamente e di accettare la morte. Ci ripiomba in una situazione di totale rottura del contatto con l'Altro, rottura che è alla base del sentimento insopportabile della perdita.

Voler, da parte dei medici, come strumenti ultimi, dei legislatori o di altre figure, far prevalere la sopravvivenza corporea al vivere, in certe condizioni, mi pare un condannare l'essere umano ad una situazione che non ha più niente di fisiologico, che si apparenta a quella serie di sollecitazioni folli di cui è impregnata l'esistenza psicotica: illusioni e concretizzazioni, intensa intimità - con la macchina che ti tiene in vita, ad esempio, - e totale separazione psicologica dall'altro, che , se solo si mettesse empaticamente nei panni di chi sta " curando ", non potrebbe che comportarsi altrimenti .La classe medica negli ultimi anni, è sempre più allettata dalla classe dei tecnici, ad illudersi di poter non riconoscere l'ineluttabilità della morte. Questa illusione, che fa parte più genericamente di questa nostra cultura che ci permette tante cose impensabili solo trenta anni fa, permea non solo l'atteggiamento verso i malati detti terminali, ma anche quello assolutamente generico ad esempio, verso la prevenzione. Mi fa sempre riflettere il leggere quelle statistiche dove si dice che, ad esempio, su 100 persone, 21 moriranno di tumore, altre di malattie cardiovascolari ecc. Quasi sembra rimosso che tutte moriranno di qualcosa, e che, senza niente togliere ad un corretto cercare di migliorare la situazione di vivibilità, non bisognerebbe nemmeno escludere dalla nostra consapevolezza che il morire fa parte di un processo naturale, ineliminabile.

La cultura medica, che, come motivazione iniziale, basilare, alla scelta professionale, dovrebbe avere quella di confrontarsi con la sofferenza, la malattia e la morte, sembra sempre più, invece, avere come modello quello di attribuire a questa o quella causa la colpa della morte. Questo fattore, se portato, come sottolinea il Papa, ad un livello che faccia dimenticare il rispetto per le dimensioni spirituali del vivere, rischia di diventare un allontanarsi dal prendersi cura di.

Del resto, lo stesso spazio che la nostra cultura dà al linguaggio verbale allontana in un modo talvolta rarefatto ed astratto di vivere quello che dovrebbe essere un fluire continuo del ritmo emotivo e psicofisico della nostra esistenza. L'efficienza tecnica, le macchine, i farmaci, le protesi artificiali ci allontanano in modo ancora più astratto e frammentato da una visione di insieme dell'esistenza,come esperienza che ci dovrebbe tenere in contatto continuamente con la relazione di ogni vivente con la morte.

Così come, infatti, riconosciamo che nessuna esperienza piacevole o sufficientemente gratificante, potrebbe restare tale se fosse infinita, anche per la vita nella sua globalità dobbiamo riconoscere la stessa cosa. Heidegger, ad esempio, parla spesso di " esistenza per la morte", la morte essendo un modo di essere in cui l'esistenza si pone non appena ha inizio.

Freud, in " Considerazioni attuali sulla guerra e la morte" (1915) dice "Effettivamente la propria morte è irrappresentabile, e ogni volta che cerchiamo di farlo, possiamo constatare che in realtà continuiamo ad essere presenti ancora come spettatori…..D'altra parte noi accettiamo la morte per gli estranei e i nemici e la decretiamo nei loro confronti con la stessa prontezza e mancanza di scrupoli dell'uomo primigenio."

Non per paragonare i medici che si accaniscono a curare i loro pazienti con coloro che torturano e decretano condanne a morte, ma.. un po' di somiglianza con chi condanna, a vivere male, per la stessa logica del rifiuto del limite umano fondamentale, quella si può intravederla!

Mi pare che il Papa, per vie diverse da quelle della psicoanalisi, ci riporti al rispetto e al dovere di rispettare quelle che sono le caratteristiche intrinseche, non culturali della natura biologica dell'uomo: il limite.

Questo dovrebbe farci riflettere sulla minaccia continua che le tendenze psicotiche all'onnipotenza, onniscienza, controllo e manipolazione esercitano sulla vita quotidiana, anche quando siano travestite dalle migliori intenzioni, delle quali, peraltro, come sottolinea il proverbio, è lastricata la strada dell'Inferno.

Le condizioni talvolta insopportabili di un vivere artificialmente protratto ci dovrebbero far riflettere sul significato stesso del cosiddetto progresso scientifico. Nelle culture primitive, l'anziano ormai incapace di sopravvivere, si allontanava - non si suicidava - semplicemente dal gruppo sociale di appartenenza e si lasciava, in questo modo, morire, mancandogli le forze per difendersi e per procacciarsi il cibo da solo. Era il suo modo di staccare la macchina.

Il medico deve curare, certamente, questo fa parte del dovere del suo lavoro. Ma non può e non deve sostituirsi a Dio o al Destino. Specialmente in presenza di una richiesta assolutamente contraria. Dovrebbe far parte del dovere di curare anche il saper tollerare col proprio paziente l'ineluttabilità della condizione umana e la morte che ne è corollario fondamentale.

Il giullare, la luna perduta e l'incontenibile leggerezza della satira...

La notizia
Roberto Benigni sul palco dell'Ariston, dopo le minacce di linciaggio di Giuliano Ferrara. Il commento di Curzio Maltese: ''Ci voleva un tocco di civiltà nell'abisso di volgarità di questi giorni e mesi, ed è venuto da un comico (…) Rimane un mistero che la scienza politica non riesce a spiegare: perché il nuovo potere ha così tanta paura della satira?''
La Repubblica, domenica 10 marzo 2002

Il commento
Eppure io credo che se ci fosse un po' più di silenzio,
se tutti facessimo un po' di silenzio,
forse qualcosa potremmo capire…
La voce della luna

Con queste parole, lasciate cadere dentro la gola del pozzo dallo stralunato Benigni, si conclude il film di Fellini. La luna , compagna di viaggio del mite protagonista, è stata catturata dai suoi compaesani che, trionfanti, hanno organizzato una roboante e ridicola tavola rotonda televisiva: a lui non resta che rovesciare nel pozzo la sua preghiera.

Un accorato appello ad un po' di silenzio: suona forse come pretesa eccessiva, in piena bagarre sanremese, mentre il consueto rito dei piccoli scandali si consuma, e lo strepito che ne deriva è appena sufficiente a coprire il brusio delle canzoni festivaliere. Cediamo, allora, anche noi alla tentazione di commentare la notizia che ha rumoreggiato, in questi giorni, su tutti i quotidiani italiani, mentre stragi nei territori occupati, storie di clandestini annegati, indagini su omicidi di bambini, articoli 18 e conflitti d'interesse hanno temporaneamente ceduto l'onore della prima pagina.

Il Direttore di un quotidiano lancia una pesante sfida al piccolo Comico: per la sera della sua esibizione sul palcoscenico del festival, promette un pubblico linciaggio a base di uova e verdure, se il Piccolino parlerà di politica.

Ci sono svariati modi per incassare pubblicità, con il duplice risultato di migliorare le sorti di un giornale e di garantire ad una trasmissione televisiva l'agognato aumento degli ascolti: una minaccia che esalta il recupero degli eroici furori di marinettiana memoria, è solo un modo fra gli altri. E tanto urgente è il bisogno di fare notizia, di risuonare, di intensificare il rumore, di distrarre l'attenzione di tutti noi da quanto di tragico e davvero minaccioso ci accade intorno, da indurre a dimenticare che, fra le regole della democrazia, c'è teoricamente la libertà di satira, la consuetudine secolare per cui - si sa - prerogativa del Giullare è quella di irridere il potere.

Ma - e anche questo si sa - ci sono storiche contingenze e particolari condizioni politiche e sociali che paiono giustificare tale dimenticanza. Ci si accorge, in momenti come questi, quanto corrosiva possa essere la parola del Giullare e come la leggerezza ironica, mentre graffia la coscienza di alcuni, rischi di allargare troppo i confini della consapevolezza di molti.

Corrono tempi di ideologie violente mascherate da sorrisi benevoli, di false propagande, imposizioni, artificiosi compromessi: quando corrono questi tempi, la sola voce che può uscire dal pozzo a contrastare la pesantezza - non solo metaforica - del potere costituito, è quella leggera del comico.

Riguardo alla forza della leggerezza, scriveva Italo Calvino nelle sue "Lezioni americane" che la mitologia ha parecchio da insegnarci : " l'unico eroe capace di tagliare la testa alla Medusa è Perseo, che vola con i sandali alati (…) ma per tagliare la testa di Medusa senza lasciarsi pietrificare, Perseo si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i venti e le nuvole."

E' stato Mauro Mancia (in "Percorsi", Bollati Boringhieri, 1995), ad offrirci una riflessione particolarmente suggestiva sul tema trattato da Calvino, e a consentirci quindi di comprendere meglio il bisogno - o in alternativa la paura - che il mondo ha dei giullari, capaci, come Perseo, di azioni leggere e, insieme, così drasticamente "taglienti".

"Perseo" scrive Mancia "può rappresentare la parte del Sé leggera, forte e coraggiosa, potremmo dire la parte del Sé libidica, mentre la Medusa è la parte pesante, distruttiva e mortifera del Sé, capace di trasformare gli oggetti in pietre attraverso l'identificazione proiettiva delle sue parti pietrificanti."

Vi sono, dunque, sistemi politici che fondano la loro forza su un'operazione di pietrificazione degli animi; ma l'origine della pesantezza è nella realtà intrapsichica dell'individuo: è la zavorra che imprigiona e pietrifica il pensiero. Solo la parte del Sé leggera può assumersi il compito di Perseo: la sua, prosegue Mancia, "è un'operazione dolorosa di castrazione e separazione, rappresentata dal taglio della testa della Gorgone, affinché possa nascere, dal sangue della Medusa, Pegaso, il cavallo alato, metafora della trasformazione della pietra pesante nel suo contrario. A Perseo serve scindere e rimuovere la parte pesante e mortifera del Sé (per padroneggiare quel volto tremendo, egli lo tiene nascosto) per poi affrontarla. E in seguito egli usa un gentile riguardo per questa parte dolorosa, deponendola sul terreno, reso soffice da uno strato di foglie."

Perché Medusa era un essere tremendo e pericoloso, ma, in qualche modo, anche una creatura deteriorabile, fragile. Scopriamo, così, quanto la pesantezza non sia solo condizione violenta e tirannica, ma anche dolorosa: ciò che è pesante, è rigido e fragile insieme.

La leggerezza giunge allora come speranza di trasformare quel che è pietrificato in qualcosa di nuovo, e di vivo: un cavallo capace di volare.

Secondo Calvino, proprio questa è la funzione della letteratura: dare leggerezza al peso del vivere. Secoli di opere letterarie ci hanno aiutato a sfidare la legge di gravità (di grevità) insita in ogni forma di potere istituzionale, ma presente - severa minaccia superegoica - anche nella vita mentale di ogni individuo: la nostra memoria è fitta di personaggi e immagini di leggerezza…Cyrano, che colpiva la realtà di spada e di poetiche finzioni; o il barone di Munchausen, con la sua surreale mongolfiera; o la silenziosa luna di Leopardi…o il canto più bello del Paradiso dantesco, proprio quello scelto dal Giullare per parlare d'amore sul palcoscenico di Sanremo. Che diviene così, nel silenzio che accoglie la recita della preghiera alla Vergine, la caricatura di se stesso: tempio in cui ogni anno si celebra il solito rito di canzoni che dell'amore parlano sempre nello stesso, pesantemente consolidato, modo.

E silenzio, finalmente, si fa anche da parte di chi - con granitica assenza di umorismo - minacciava il linciaggio: certo, è solo il silenzio di un istante, perché quando il Comico esce di scena, la pesantezza recupera terreno, e il rumore che produce può riprendere a impietrire i nostri pensieri.

Ma qualcosa - ci piace sperare - rimane impigliato nelle menti di chi ha guardato e ascoltato: la comprensione, magari nebulosa e appena accennata, che la pesantezza possa essere trasformata da qualcosa che assomiglia ad un "atto d'amore".

Infatti: "Sono qua per un atto d'amore" così ha inizio il torrenziale monologo del Giullare "perché i comici sono zuppi d'amore, e non gli si può chiedere di essere anche saggi, quello è compito del Signore; i comici sbagliano per amore, e allora bisogna proteggerli, sono bellissimi, infrangono le regole, sono viziati, sono maestri di passaggi proibiti, fanno piangere e ridere…fanno come gli pare, contrabbandieri senza licenza…"

E così si conclude: "…Se vi potessi far vedere il mio core, vi tirerei in faccia questo affetto centuplicato per mille, perché vi amo…"

L'amore come emozione contrabbandata, che non conosce saggezza; l'amore come affetto scagliato in faccia a quanti sono impietriti dallo sguardo di Medusa.

Il Comico sa che alla violenza di coloro che detengono il potere - politico, governativo, mediatico, economico - non si può che rispondere con la violenza "leggera" dell'ironia e dell'umorismo. Con la delicata leggerezza di Perseo, capace di usare particolare riguardo per la testa, ormai mozzata, di Medusa. Il vero miracolo, tornando al mito, sarà la trasformazione della testa della Gorgone, deposta sul morbido terriccio, in coralli: esili, ramificati, leggeri. Come i pensieri di una mente che ha ripreso a funzionare.

Così si compie la metafora di un percorso segnato dall'incontro pauroso tra gli aspetti più rigidi e superegoici del Sé e del mondo e quelli più leggeri e tolleranti; incontro in cui, attraverso la separazione e il lutto, le emozioni paralizzanti non vengono annientate, ma trasformate e rese infine pensabili.

Come accade nel film di Fellini, la speranza è che la luna si liberi della rete di zavorre che la inchioda al suolo, che i riflettori si spengano, che torni un po' di silenzio.

Il silenzio necessario per avvertire il passo leggero, il guizzo e il saltello del Giullare, capace - parafrasando Calvino - di penetrare come l'aria dentro le cose, senza romperle.