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Se gli alberi sono alberi e gli uomini sono uomini

La notizia
Lo smog uccide ogni anno 17.000 persone. I costi dell'inquinamento: 17.400 i morti in Italia nel 2000 a causa delle emissioni stradali di polveri sottili (PM10); 7.861 i morti per incidenti stradali nel 1999; 27.727 milioni di Euro ogni anno i costi "esterni" degli incidenti stradali; 200 miliardi di Euro il prezzo della mobilità (salute sparita, ore di lavoro perse, ambiente distrutto; inquinamento per ogni Km percorso da un passeggero con un'auto si emettono 28 milligrammi di polveri sottili; 19 con un bus, 16 con un treno, 8 con un aereo; 15.535 tonnellate/anno di polveri sottili (PM10) vengono emesse in ambito urbano, di cui 5.256 dalle autovetture; 276 da motocicli e ciclomotori; 832 da mezzi di uso collettivo; 7.171 dal trasporto merci.
La Repubblica, venerdì 1 marzo 2002

Il commento
Un ennesimo articolo (con molti allarmanti dati) che con sempre maggiore frequenza documenta, anzi certifica "lo stato di salute" dell'ambiente; un ennesimo articolo che, ancora una volta, non mette in collegamento che questo mondo esterno in cui viviamo è l'espressione di ciò che "agisce" nel nostro mondo interno e che soltanto un cambiamento delle menti, anzitutto, e non solo delle strutture di potere e organizzative potrà portare al recupero di una dimensione più umana della vita e dell'ambiente.

Per entrare direttamente nel merito, quello su cui desidero attirare l'attenzione, con questo commento, è che ogni aspetto della nostra vita può essere colpito dall'inquinamento, ma che anche le forze che operano all'interno dei singoli individui facilitano rapporti ambientali che possono "favorire la crescita e lo sviluppo", o "agire in modo distruttivo, attraverso la crescita e lo sviluppo", per dirla in termini meltzeriani.

Ogni funzione organica, infatti, a partire dalle più importanti, può essere danneggiata tramite l'ambiente. Attraverso l'inquinamento dell'atmosfera: l'apparato respiratorio; attraverso l'inquinamento dell'acqua, della terra, delle coltivazioni, degli allevamenti: l'apparato gastrointestinale, il metabolismo, le funzioni endocrine; attraverso l'inquinamento acustico e visivo: le principali vie sensoriali. Per non parlare delle conseguenze dell'accumularsi nell'organismo umano (ultimo anello della catena alimentare) di sostanze chimiche direttamente nocive o indirettamente capaci di indebolire o di annullare i naturali sistemi di difesa dell'organismo: il sistema immunitario, per primo. Per cui oggi ci sentiamo in una situazione di impossibilità ad evitare tutta una serie di influenze esterne che ci possono nuocere, tanto da interiorizzare il timore per tutto ciò che proviene dall'ambiente. Per trovarci, infine, a diffidare della natura stessa nella sua totalità, vivendola globalmente come nemica e come avversaria da cui difendersi per poter sopravvivere. Possiamo ben dire, dunque, che l'uomo di oggi ha perso quel legame quasi viscerale con la terra, con la natura, che una lunga esperienza culturale aveva sentito e pensato come "cosmos", come ordine ed equilibrio vivente che tutto comprende e tutto avvolge. Lo sviluppo disarmonico del rapporto con l'ambiente, al di là della minaccia di ogni concreta catastrofe, ha così progressivamente condotto a quella condizione interiore in cui ora ci percepiamo "senza casa" o per lo meno con "il tetto che ci crolla in testa". Si ripresenta, insomma, sul piano naturale quello che avviene sul piano individuale nel momento in cui non riusciamo a rinunciare alla nostra onnipotenza, non riusciamo a riconoscere e ad accettare la presenza del limite. Quel limite allo sviluppo tecnologico, alla salute, alla vita stessa che sfocia inevitabilmente nella morte. Quel limite che dovrebbe farci definitivamente perdere la fiducia acritica in un progredire lineare senza fine, per portarci a capire la circolarità degli eventi, l'avvicinarsi pericoloso del progresso al caos, della salute alla malattia ... Tutto ciò non certo per giungere ad una passiva ed inerte rassegnazione delle cose, ma per permetterci una fruizione più equilibrata di noi stessi e del mondo naturale. Sono proprio gli effetti perversi di questa onnipotenza del sapere tecnico, di questa non accettazione del limite a sollecitarci un impegno in un difficile riesame e in una faticosa rivisitazione di alcuni dei modelli più appariscenti e più rassicuranti della nostra civiltà, che non è più possibile ulteriormente procrastinare. Sollecitati pressantemente dall'inattesa angoscia di fronte ad un ambiente in rivolta e da altre fonti di stress, sempre più insidiose per ogni essere umano, ci troviamo a dover accogliere una ineludibile richiesta di cambiamento. Ci troviamo a dover "inforcare delle lenti più potenti", per così dire, per ampliare, anzi per approfondire l'ottica di lettura dei fatti, con tutto il carico di dolore, di incertezza, di fatica e di lacerazione che questo comporta.

Ritengo che il saggio di D.Melzer e M.Harris "Il ruolo educativo della famiglia. Un modello psicoanalitico dei processi di apprendimento" (To, 1986) possa essere illuminante anche per un suo uso nell'ambito della riflessione sull'individuo e sul suo rapporto con l'ambiente, come già rileva G. Blandino in "Relazioni e Sviluppo" (To, 1990). In particolare, la distinzione che viene fatta fra "stati della mente adulto" e "stati della mente infantile". Il presupposto di questa concettualizzazione sottolinea "il primato della realtà psichica nella produzione dei significati" e "l'intenzionalità nella produzione dei valori". In altre parole, sottolinea la totale dipendenza della percezione che abbiamo del mondo esterno dall'organizzazione del nostro mondo interno. Nello stato mentale adulto, l'individuo si caratterizza per la maturità emotiva, cioè per la capacità non solo di amare, ma anche di odiare, di riconoscere il ruolo delle proprie parti distruttive, di stare dunque attento alla possibile intrusione della propria parte "imbrogliona e bugiarda". Questo comporta una faticosa integrazione di parti del Sé, con l'abbandono della scissione, l'accettazione della sofferenza e la rinuncia all'onnipotenza. Nello stato mentale infantile, l'individuo, che si caratterizza per una scarsa differenziazione tra mondo esterno e mondo interno e tra sè e gli altri, presenta avidità, competitività, desiderio di trionfo, sensualità e onnipotenza. Aspetti questi che non possono che avere anche delle conseguenze per quanto riguarda il rapporto con il mondo e specificamente il rapporto con la natura. Mi spiego meglio: dato che è tipico di una mentalità infantile voler possedere gli oggetti con la tendenza a sfruttarli fino in fondo per poi buttarli via e sostituirli, non è difficile riconoscere come lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali, fonte di gravi danni all'ambiente, sia la riprova della permanenza diffusa di un simile atteggiamento, che si manifesta poi anche a tutti gli altri livelli, da quello tecnologico, a quello scientifico, a quello delle strategie politico-economiche. Il drammatico problema ecologico, quotidianamente sotto i nostri occhi, si può dunque anche leggere ed interpretare come una forma di incapacità di rinunciare allo sfruttamento degli oggetti e al possesso avido delle cose, o viceversa, come una forma di incapacità di acquisire quell'atteggiamento mentale più adulto che comporta invece rispetto e comprensione nei confronti del mondo e di tutte le creature animali o vegetali che siano, cioè della natura nella sua totalità. Solo in tal caso è possibile salvaguardarne le risorse e la mancata salvaguardia è indice di modalità di pensiero e di relazione di tipo infantile. Un atteggiamento mentale di tipo adulto è orientato a conoscere e a servirsi del mondo più che a volerlo controllare e sottomettere, è quindi profondamente ecologico, è quindi orientato, come ci ricorda Fornari in "Genitalità e cultura" al riconoscimento del "principio di realtà", anziché al predominio di quel "principio di piacere" che equivale poi alla presenza della pulsione di morte, cioè alla tendenza alla distruzione e all'autodistruzione, piuttosto che all'amore per la vita e la natura.

E' questo il cambiamento che ciascuno di noi può realizzare anzitutto dentro di sè e il contributo individuale che può dare, riconoscendo con onesta riflessione, la propria adesione a modelli di vita "infantili" che ci richiedono certi costumi e certi consumi.

Uno scritto Zen così dice:
"Per coloro che non sanno nulla dello Zen
le montagne sono soltanto montagne
gli alberi sono soltanto alberi
gli uomini sono soltanto uomini.
Dopo aver studiato lo Zen per qualche tempo,
uno giunge a percepire la vanità
e la fugacità di tutte le forme,
e le montagne non sono più montagne,
gli alberi non sono più alberi,
gli uomini non sono più uomini.
Per colui che ha compreso pienamente lo Zen
le montagne sono di nuovo montagne,
gli alberi sono alberi
e gli uomini sono uomini".

(da A.Watts "Lo Zen", Mi,1964).

Di professione soldato

La notizia
Li chiamavano i 'mastini della guerra'. E come nel romanzo di Frederick Forsyth, erano dei Rambo senza scrupoli che, per alcune migliaia di dollari al mese, erano pronti a rischiare la vita tra golpe, insurrezioni e misteri dell'Africa post-coloniale.
La Repubblica, domenica 24 febbraio 2002

Il commento
L'articolo a tutta pagina con cartina delle aree del mondo in cui operano attualmente le 'armate a pagamento', nonché i nomi e il curriculum dei principali personaggi interessati, l'intervista a Tim Spider, capo di un'importante società militare privata, il giornale Soldier of Fortune, i siti web specializzati, la rivelazione che le Ong pensano di utilizzare soldati privati come scorta ai convogli di aiuti, ci apre una finestra su una realtà presente nel mondo ad amplissimo raggio, per cui la proposta riveste semplicemente il senso di una razionalizzazione e regolamentazione del già esistente.

Quello che mi colpisce è il tentativo di nobilitare questi operatori di morte facendoli passare per operatori di pace o meglio per conduttori di operazioni di peace-keeping. In particolare nell'intervista succitata c'è l'assicurazione di accettare lavoro solo da governi legittimi, di occuparsi più dell'addestramento che del combattimento, di condurre operazioni preventive, ecc

Le società private in quanto tali non sono controllabili perché di solito operano nell'ombra; tranne una quarantina, che a questo punto ovviamente pagheranno le tasse.

Non ci vedo niente di diverso dalla re-istituzione delle case chiuse, per proteggere le donne, per regolamentare in modo 'sano' la prostituzione ecc., per far pagare anche a loro le tasse.

Sarò antiquata ma Freud nel suo saggio Sulla più comune degradazione della vita amorosa e nelle Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, ci dice con semplicità come la gestione del mondo pulsionale, sia sul piano dalla sessualità sia sul piano dell'aggressività, venga sottoposta a restrizioni superegoiche che richiedono operazioni complesse nel primo caso per concedere al piacere sessuale di avere spazio nella propria vita, nel secondo per superare, attraverso l'istituzione bellica, il divieto di uccidere senza incorrere in sensi di colpa.

Mi sembra che per preservare la nostra sensibilità, il desiderio di uccidere sia scisso e proiettato in professionisti o, come propone un giornalista di fama, in gruppi o popoli più adatti per etnia ad uccidere, come le antiche bande di soldati di ventura, appunto.

Così come ridurre la sessualità umana al rango di bisogno da soddisfare, richiesta che ai tempi di Freud riguardava quasi unicamente gli uomini, oggi sempre più anche le donne, porta a considerare normale fruire semplicemente di 'professionisti' che vivano a lato della nostra più politically correct ed efficiente esistenza.

Saremo sempre più in grado di vivere senza sensi di colpa, né dubbi in zone diverse e separate della nostra psiche, lo sfruttamento e la perversione accanto agli affetti sinceri e alla coscienza pulita, perché la coerenza dolorosa implica il sacrificio della immediatezza razionalizzata e l'assunzione di responsabilità delle proprie scelte non solo l'acquiescenza a presunti bisogni o necessità politiche ed economiche.

Orrore per chi, orrore per cosa

La notizia
Nel mare di un paese che è la porta dell'Occidente, del futuro e della libertà per i disperati di mezzo mondo, scompare una nave carica di clandestini, nella notte del 25 dicembre 1996. C'è il racconto di qualche superstite, la supplica delle famiglie dei naufraghi che li hanno visti partire e poi scomparire senza una traccia, gli appelli delle comunità cingalesi, le richieste di aiuto dei governi indiano e pakistano perché la tragedia venga chiarita. Per quasi cinque anni la risposta è stata la stessa: si tratta di un ''naufragio fantasma'', forse una leggenda senza veri nomi e cognomi, una storia senza esito, un dramma senza colpe e senza testimoni, senza neppure un luogo certo. Un cronista di Repubblica, Giovanni Maria Bellu, svolge una sua inchiesta, trova le testimonianze dei pescatori di Portopalo che un mese dopo il naufragio hanno scoperto cadaveri e documenti cingalesi nelle reti, scova verbali di carabinieri, accerta le coordinate. Il nostro giornale invia un robot a filmare il fondo marino, a 108 metri di profondità, e trova la nave, con i fagotti dei corpi, i sari dei tamil, le scarpe e le valigie, gli scheletri dei naufraghi. Il caso è chiarito cinque anni dopo.
La Repubblica, 16 giugno 2001

Il commento
Questa notizia riportata su tutti i giornali e, con le immagini filmate, sulle reti televisive e su internet, ha destato "orrore, sdegno, dolore, vergogna". Si sono mossi Nobel e ministri ed ora che in qualche modo si è dimostrata la verità, non si può più adottare la politica dello struzzo. Forse ci saranno altri modi per attenuare quello che è accaduto e, dalla prima pagina, relegare il seguito in qualche trafiletto che leggerà solo chi avrà mantenuto il ricordo, perché più vicino o più coinvolto.

Quello che si perde è che le testimonianze, le denunce dei superstiti, sono state prese per fantasie, altrimenti sarebbe emersa la speranza tradita di chi ha risparmiato anni per trovare posto in quella nave. Si perde l'azione criminale di chi, fucili spianati, ha costretto i clandestini a trasbordare, in una notte di tempesta, su una nave più piccola e malandata, che subito imbarca acqua, e che, nel tentativo di tornare indietro, viene speronata dalla nave grande e in pochi minuti affonda. Che i superstiti, evidentemente non appoggiati dall'equipaggio della nave, unico testimone certo della tragedia, sono stati continuamente smentiti: dopotutto chi parla è un clandestino, di un altro continente e nessuno sembra aver visto nulla.

Negare, nascondere, occultare, fare come se nulla fosse successo, tutti meccanismi difensivi adottati in massa; possiamo chiederci per quale scopo, anche se lo sappiamo. Per mantenere quella quiete che ci fa dire: "E' terribile", "Non deve più succedere", "Non avrei mai immaginato", "Era una famiglia così tranquilla" ogni volta che accade qualcosa di cruento vicino a noi.

Mi domando perché proviamo orrore per incidenti con vittime così numerose, per i massacri in massa delle guerre, tutte ormai a noi vicine; perché ci sentiamo coinvolti e restiamo tuttavia spettatori impotenti e colpevoli.

Le grandi migrazioni, in alcuni loro effetti, sono paragonabili un po' alle guerre, perché sconvolgono l'assetto del paese in cui giungono gli stranieri, aumentano l'intolleranza e rinforzano le modalità difensive, la presenza dei clandestini ci ricorda la povertà da cui ci siamo sollevati, ci fa sentire colpevoli del nostro benessere.

Quante volte abbiamo sentito, senza volerlo sentire, "Affondassero tutti con i loro barconi!!", negando una tolleranza che poi nei fatti c'è.

"Il nostro inconscio si accontenta di pensare alla morte senza realizzarla. Ma sarebbe un errore sottovalutare questa realtà psichica rispetto alla realtà di fatto. Nei nostri desideri inconsci noi sopprimiamo ogni giorno, e ad ogni ora del giorno, tutti quelli che si trovano sul nostro cammino, e che ci hanno offesi o danneggiati. "Che il diavolo ti porti!", diciamo correntemente e con un tono scherzoso che dovrebbe dissimulare il nostro cattivo umore. Ma ciò che vogliamo veramente dire, senza avere il coraggio di farlo, è: "Che la morte ti porti!"; ed il nostro inconscio prende questo augurio di morte molto più sul serio di quanto noi stessi pensiamo, e gli dà un tono che la nostra coscienza è subito pronta a sconfessare. Il nostro inconscio uccide anche per dei particolari; come l'antica legislazione ateniese di Dracone, esso non conosce per i crimini altra punizione che la morte, giacché ogni torto inflitto al nostro Io autocratico e onnipotente è, in fondo, un crimen laesae majestatis.". (S.Freud, Opere, pag.145)

Nel tentativo di non riconoscere questa nostra realtà interna, siamo presi da civile orrore di fronte ai filmati di povere vite anonime spezzate una notte di Natale. E se non ci fossero, altamente apprezzati anche se come genere un po' a parte, i film dell'orrore, quest'ultimo potrebbe sembrare semplicemente un sentimento che l'uomo prova di fronte a qualcosa che sente contrario ad ogni umanità. Ma se così fosse perché tanti ricercano attraverso film in cui si sprecano cadaveri, scheletri, membra a pezzi e in dissoluzione (per fortuna finti) quel brivido perturbante legato a qualcosa di temuto che torna dal mondo in cui era sotterrato, dimenticato, rimosso si direbbe in psicoanalisi?

In realtà niente di ciò che nei film ci sembra così distante da noi lo è veramente: lo è solo da quella minuscola porzione di noi che è consapevole. Infatti non conosciamo che molto poco il funzionamento della nostra (molto vasta) realtà inconscia. Infatti nominare l'inconscio non è più di moda da un po' di tempo. Forse perché disturba molto l'idea di essere determinati, spesso, da impulsi da noi non coscientemente controllati. Impulsi che seguono una logica tutta loro. Per cui sappiamo che persistono in noi tutte le fasi di sviluppo (compresa la naturale e inconsapevole ferocia del bambino piccolo) a cui, in qualsiasi momento difficile, possiamo regredire. Inconscio in cui il tempo non passa mai ed è circolare, non consentendoci un passato e togliendoci la speranza di un futuro, in un'inerzia dura da contrastare. Inconscio che in una logica binaria conosce solo l'amico o il nemico, l'amore o l'odio, la vita o la morte.

Freud nel ripercorrere l'evoluzione dell'uomo alla ricerca di un senso all'orrore per delitti così spesso perpetrati, ci dice come aspetti civili e morali siano acquisizioni recenti e precarie, a cui si abdica fin troppo facilmente, specie quando l'intelligenza e la logica siano spazzate via dai forti sentimenti che si generano nei grandi gruppi, da un lato dando il senso dell'appartenenza, dall'altro rendendo l'individuo ottuso ed incapace di pensiero libero rispetto all'odio che prova, anche in tempo di pace, per individui di altri nazioni, razze, ideologie, religioni, ecc. Ci dice dell'ipocrisia venata di paura per cui: "Il rispetto per i morti, di cui poi i morti non hanno più bisogno, ci appare più importante della verità, ed a molti di noi, persino superiore al rispetto per i vivi". (S.Freud, Opere. Pag.138)

Ci fa orrore anche sapere che alcuni pescatori hanno ributtato a mare i cadaveri per difendere il proprio lavoro e per non farsi coinvolgere, ma che avremmo fatto noi ce lo chiediamo? E non è più realistica la posizione del comandante del "Tuono" che dice: " ... mi hanno detto che è stato trovato quel relitto con gli scheletri ... ma io resto della mia idea: se a mare vedo un uomo vivo gliela do io la mia vita, ma se lo vedo morto ... pace all'anima sua."

Il dubbio che ci sia qualcosa di più dell'indignazione per l'assoluto non rispetto della vita umana, ormai mercificata senza speranza, specie nelle popolazioni povere asservite alla logica del profitto o del potere, mi porta a rileggere le "Considerazioni sulla guerra e sulla morte" di Freud che, con lo stupore del positivista fiducioso nella perfettibilità umana, assiste sgomento alla prima guerra mondiale, che dà inizio con i suoi orrori, alla fine dell'illusione dell'intellettuale che la pace possa diventare patrimonio comune e stabile del genere umano. Anzi ci perdiamo nel confronto con le popolazioni cosiddette primitive.

"Il selvaggio ... non è affatto un assassino impenitente; quando egli torna vincitore dalla guerra non ha il diritto di entrare nel villaggio e di toccare la propria donna, finchè non abbia espiato, con penitenze spesso fastidiose e dolorose, gli omicidi commessi in guerra. E' inutile dire che questa interdizione deriva da una superstizione, in quanto il selvaggio teme la vendetta degli spiriti di coloro che ha ucciso. M a questi spiriti non sono che l'espressione della sua cattiva coscienza, del suo rimorso per i crimini commessi. Nel fondo di questa superstizione c'è una certa finezza d'animo di natura morale che in noi uomini civili è andata perduta." (S.Freud, Opere, pag.143)

La patina di civiltà che ricopre i nostri impulsi primitivi ci aiuta ogni giorno a dimenticare, tranne quando, in realtà ormai troppo spesso, accade qualcosa che ci riporta un senso di orrore perché accade sempre, ciclicamente che l'uomo si riveli indegno della sua collocazione in cima all'evoluzione. Non stupiamoci più sentendoci estranei, questa patina è così recente, che basta poco perché lo si dimentichi. E non facciamo come se non riconoscessimo in quell'orrore la tentazione a cui tutti i giorni ci sottraiamo: quello che ci turba è che bastava poco e poteva capitare a noi sia di essere vittime ma soprattutto di essere carnefici, e soprattutto che la crudeltà è stata nostra compagna normale intorno ai due, tre anni, quando in realtà non si possono fare grandi danni e l'averla superata non significa che è a noi estranea..

"Non c'è bisogno di proibire ciò che nessuno desidera. Proprio nel modo in cui è formulata la proibizione non uccidere può darci la certezza che noi discendiamo da una serie infinitamente lunga di generazioni di assassini che, come forse anche noi oggi, avevano nel sangue la voglia di uccidere". (S.Freud, Opere, pag.144)

Parafrasando, dice Freud anziché si vis pacem para bellum, si vis vitam para mortem. Ovvero, se vuoi vivere la vita non negare né dimenticare anzi sii consapevole della facilità e dell'ubiquità della morte.

Questo matrimonio non s'ha da fare!

La notizia
Questo matrimonio non s'ha da fare!
Suoceri antipatici? Niente nozze! Il vicario giudiziale: meglio conoscerli prima di sposarli...
Il Secolo XIX, domenica 17 febbraio 2002

Il commento
Per un matrimonio felice e duraturo, una ricetta semplice e antica: scegliersi bene i suoceri.

Detta così sembra una regola, un comandamento cui bisognerebbe adeguarsi pena il fallimento del rapporto di coppia: ancora una volta si intravvede il tentativo di riconoscere in qualcosa di esterno la difficoltà o l'impossibilità di mettersi in relazione con un'altra persona, come se si focalizzasse un obiettivo lontano e più rassicurante.

Il rischio può essere quello di tralasciare di pensare che una buona parte del fallimento di un'unione dipende principalmente dai due membri della coppia: ogni rapporto non si presenta statico come una fotografia ma è frutto della presa in carico delle responsabilità che ogni relazione comporta.
Se può essere vero che dei suoceri poco inclini a lasciare alla coppia il proprio spazio possano incrinare il rapporto è però altrettanto vero che sta ai coniugi stessi cercare di salvaguardare la propria autonomia.

Frequentemente la persona che decide di sposarsi non lascia davvero la sua famiglia d'origine, almeno in senso simbolico: rimane all'interno dell'individuo un prolungamento di quella famiglia, una fusione con essa, un'appendice che fa sì che egli resti una parte del padre o della madre. Su di lui vengono investite grosse aspettative narcisistiche come, per es., che riesca a raggiungere traguardi che ai genitori possono essere stati preclusi o che rimanga per sempre il ''bambino'' di qualche anno fa.

Se vediamo sempre più spesso figli che restano in famiglia fino a 30, 40 anni e più forse una causa può derivare dal fatto che un distacco autentico, una crescita, un'autonomia vera sarebbe vissuta da ambo le parti - figli e genitori - come una cosa molto pericolosa, alla stessa stregua di una morte interiore.

L'alternativa può essere quella di rimanere ''bambini'' all'interno di un nucleo familiare che proteggendo, impedisce però di crescere. Anche nelle famiglie in cui vi sono figli che escono per sposarsi questa autonomia non sempre è stata raggiunta pienamente: i genitori possono vivere come un vero e proprio tradimento il fatto che il figlio li abbia lasciati per sposarsi.

La conseguenza di ciò non potrà che essere una sorta di competizione con la nuora o col genero il cui fine è dimostrare, anche a se stessi, che il proprio figlio o figlia non si è reso per niente autonomo, non ha formato una coppia adulta con un'altra persona ma continua ad essere quello che ha bisogno della mamma o del papà così come ne aveva bisogno da piccolo, tanti anni fa.

Da qui l'invadenza di certe suocere, il bisogno di entrare in tutto e per tutto all'interno della vita della coppia per controllare ciò che accade, per rinnovare il bisogno del figlio fedifrago, per continuare l'illusione che egli non sia cresciuto ma sia parte integrante della famiglia originaria.

D'altro lato lo stesso partner può rappresentare, a propria volta, un genitore o una famiglia sostitutiva nel tentativo di negare una separazione dal proprio padre o più spesso dalla madre; questo anche nel caso si fugga da una famiglia opprimente ed invadente: il rischio potrà essere quello di scegliersi una moglie o un marito molto simili a ciò che si era lasciato alle spalle.

La scelta fatta dall'altro coniuge potrà, di converso, essere dettata dal desiderio di fare da madre o da padre al partner impedendone così la crescita interiore ed impedendosela a propria volta al fine di continuare a portare avanti l'illusione che non è vero sia un rapporto tra adulti con delle responsabilità e dei limiti ma il cui scopo è di tenere legato l'altro in una rinnovata dipendenza.

Molto frequentemente si sceglie una persona, ci sì ''innamora'' sotto la spinta di bisogni che il partner è chiamato a soddisfare: nel momento dell'innamoramento si torna indietro, si ridiventa bambini, fragili ed esposti. L'altro può rappresentare il genitore o la famiglia ideale, quella mamma o quel papà che avremmo voluto sempre con noi, pronti a soddisfare tutti i nostri desideri, ad essere presenti ad ogni nostro richiamo.

Se questa idealizzazione risulta essere normale all'inizio di ogni rapporto, rischia, continuando, di porre la famiglia d'origine in competizione col partner e i motivi possono essere diversi: nel partner può cercarsi una conferma che nessuno è ''buono'' come la propria madre o padre o un desiderio mai realizzato che esista qualcuno che, invece, possa realmente essere migliore.

Ora come è stato detto, ogni relazione non rimane ferma al primo momento: la scelta di un marito o di una moglie può essere stata fatta inconsciamente su alcuni presupposti ma rimane la possibilità di un confronto con l'altro e di una crescita.

Ciò può portare ad accorgersi dei propri bisogni che prima ci si nascondeva per timore della sofferenza e a capire che, forse, non abbiamo più niente da dirci con l'altro.

In questo caso la separazione dal partner, pur se dolorosa, o proprio per questo, può rivelare nuovi aspetti di crescita e di sviluppo: una raggiunta autonomia che permetterà un'eventuale nuova scelta con maggiore serenità.

L'alternativa può davvero essere una fotografia, a questo punto sempre più sbiadita; la ripetizione con partner diversi dello stesso copione allo scopo di trovare, forse, quel genitore o quella famiglia ideale che possano colmare lo struggente senso di vuoto che ci attanaglia, salvo ritornare dai propri genitori avendo la conferma che nessuno è meglio di loro.

In questo senso possono essere lette le parole del cardinale: ''molte persone rischiano di giocarsi la salvezza dell'anima celebrando un secondo matrimonio ecclesiasticamente irregolare'', nel significato di una ripetizione fine a se stessa che può farci sentire più poveri dentro, non come dogma che impedisce un autentico rinnovamento che spesso solo una separazione può portare.

Delitto di Cogne: aspettando le risposte...

La notizia
Samuele, verità più lontana. Il pm prende tempo, ho bisogno di tre settimane. Dopo l'ultimo sopralluogo dei Carabinieri nella villa dove è stato ucciso il bimbo di tre anni, il magistrato chiede una ventina di giorni per attendere i risultati delle analisi sui reperti e fare il punto della situazione.
La Repubblica, venerdì 8 febbraio 2002

Il commento
Questo è uno dei tanti titoli che da una decina di giorni si susseguono su tutti i quotidiani italiani, dopo l'omicidio di un bambino di tre anni avvenuto in un piccolo e tranquillo paese di montagna.

Tra i tanti forse ho scelto questo articolo perché, sommersa come credo tutti da emozioni e da sensazioni diverse ad ogni notizia aggiunta dai mass-media su questa tragica vicenda, la parola "verità" mi ha colpito, data la sua densità e pesantezza.

Quale verità, in questo caso? Certamente, tutti ci auguriamo e ci aspettiamo che significhi obiettività e aderenza alla realtà, cioè certezza assoluta su chi ha compiuto questo delitto e sul perché di un tale tragico gesto.

Penso, però, che verità a volte possa voler dire anche qualcosa di più personale e di più profondo, qualcosa che riusciamo a percepire come emotivamente significativo, per esempio un pensiero, un'idea, un'ipotesi che risuonino dentro di noi in modo totalmente autentico.

Allora può essere vero che, ancora una volta, siamo purtroppo di fronte a qualcosa che rifiutiamo inorriditi ed esterefatti, stentando a credere che sia realmente accaduto, può essere vero che alla nostra coscienza ripugnano delitti come questo perché in essi ritroviamo una tragica eco della lotta tra istinto di vita e certezza di morte, lotta che da sempre accompagna l'umanità a livello individuale e sociale e che è un'essenza stessa della vita.

L'aggressività è il modo più evidente per esprimere questa lotta, ma può venire coniugata in molti atteggiamenti e tempi diversi: per esempio a livello individuale, tra parti di noi che non sopportano la fatica del processo di integrare differenti aspetti emotivi di sé, o, a livello sociale, tra gruppi, nazioni, religioni, che non riescono a dialogare o si combattono…

L'istinto, o impulso o come dir si voglia, aggressivo spinge da sempre l'umanità a sopravvivere, a conquistare, ad attaccare o a difendere, diventando buona o cattiva a seconda della molla che la fa scattare, e così l'ambizione o il desiderio di onnipotenza possono, anche all'improvviso, trasformare in tragedia un'espressione di vivace interessamento, un impulso alla crescita, un desiderio di cambiamento, oppure interrompere un dialogo, una trattativa, un incontro politico.

Ancora una volta, bisogna fermarsi a riflettere sul sottile confine di tutto questo.

Costretti come siamo ad aspettare i risultati dell'indagine, è grande lo stupore agghiacciato che ci pervade ascoltando le varie ipotesi che si susseguono da giorni su questo delitto: di volta in volta un vicino, un familiare, un amico di famiglia, un balordo più o meno di passaggio, tutti sono stati indicati come potenziali assassini di una piccola creatura inerme, e, smarriti, di nuovo ci chiediamo perché tanta violenza, tanto accanimento, soprattutto insomma tanta cattiveria; così, ci dimentichiamo che per l'individuo e per la società intera l'aggressività sottende qualunque azione, che la cosiddetta "bontà" non è data né per nascita né per grazia divina, ma è invece una conquista, e molto faticosa.

Infatti, è già dalla primissima infanzia, nella relazione con la madre, che il bambino è aiutato a vivere e via via a tollerare le espressioni del suo mondo interiore, cioè le emozioni allo stato nascente; il bambino trasmette alla madre elementi emotivi grezzi, legati fondamentalmente all'angoscia di morte, e la madre, con la sua capacità di contenimento, gli restituisce queste forti emozioni, in un certo senso "narrate" e rielaborate.

Come scrive Bion: "Descritta in termini di funzione materna (o di funzione analitica della mente) la capacità di tollerare il mondo emotivo ha a che fare…anche con l'offerta, da parte della madre, di un "dono" di significato che permetta al bambino di tollerare le emozioni negative".

Da questa relazione nasce nel tempo la capacità di pensare del bambino, in origine un dono gratuito fornito dalla madre insieme alle cose che istintivamente gli offre per provvedere ai suoi bisogni: questa funzione materna permette al bambino di imparare a tollerare l'angoscia di morte senza esserne sopraffatto.

Ma anche in seguito, nella vita da adulto, sarà necessario ripetere questo percorso, cioè la rielaborazione delle emozioni attraverso "l'apprendere dall'esperienza", poiché pensare è una funzione della personalità in continuo sviluppo, non una facoltà innata conclusa in sé fin dall'inizio e bisognosa soltanto di essere usata per esprimere la propria maturità.

Man mano che si confronta con l'esperienza, la mente impara a conoscere, capire, integrare in sé i diversi aspetti della realtà e le diverse emozioni che essi provocano, in un processo che è tutt'altro che indolore, soprattutto se, per qualunque motivo, qualcosa non ha funzionato all'inizio del percorso, se, per esempio, il bambino non è stato aiutato e abituato ad integrare gli elementi nuovi.

In questa crescita la mente è sempre esposta a momenti di imprevedibilità, ad esempio, per contenere un'idea nuova corre il rischio che il "contenitore" di pensiero si rompa, frammentando così le sue funzioni e dando origine a parti scisse nella personalità dell'individuo.

Tutto questo può accadere soprattutto quando il processo del pensare si scontra con aspetti dolorosi, che vengono rifiutati poiché implicano sofferenza, e alla fine bloccano la possibilità stessa di pensare.

Nel caso di questo fatto di cronaca, osserviamo come ciò possa succedere anche a livello di gruppo: giornali e televisioni ci inondano di atteggiamenti diversi, indicatori tutti di alcune modalità di difesa. Gli articoli e i servizi oscillano tra l'interesse voyeuristico per i luoghi e le persone implicate, e l'appello moralistico al rispetto del dolore e della privacy, tra il porsi in atteggiamento riflessivo con domande agli "esperti", e l'arrivare a conclusioni affrettate, ma in quanto tali rassicuranti.

Sembra manifestarsi una caratteristica di questa società, una sorta di "duplicità etica": ritenendo acquisito o dando per scontato l'ideale della "bontà", della tolleranza, si dimentica che esso invece è punto di arrivo di un cammino che, come accennato prima, gli individui, ma contemporaneamente tutte le istituzioni che li rappresentano, devono compiere, tenendo cioè conto delle emozioni di fondo legate all'angoscia di morte, all'istinto di sopravvivenza, all'aggressività, quindi al desiderio di sopraffare, al rifiuto dell'altro, alla non tolleranza.

La necessaria integrazione di questi elementi per realizzare una crescita, individuale o sociale che sia, si realizza sempre con fatica e sofferenza, implica atteggiamenti di ascolto, possibilità di attesa, capacità di comprensione e di tolleranza dei nostri aspetti non chiari, o delle ragioni dell'altro che sembra contro di noi.

Con questo rifiuto di prendere in considerazione la tendenza aggressiva che sta sempre come sfondo in ogni avvenimento, la società la estromette da sé, la rende altro, scissa dal resto, per ritrovarsela poi agita in qualche azione che risulta allora incomprensibile o frutto di qualche solitaria pazzia, esattamente come per l'individuo che la compie, quando lascia agire parti non integrate di sé.

Credo che tutti gli atteggiamenti manifestati da giornali e mass-media intorno a questa vicenda siano mossi a livello profondo dal tentativo di coprire la paura e il dolore di doversi ancora una volta confrontare con un atto che vorremmo non ci appartenesse, con un gesto di pazzia del quale vorremmo almeno una spiegazione, per continuare a credere, per esempio, che questi fatti accadono agli altri, indotti alla follia per nascita o per vicende personali, che comunque senz'altro essi non ci riguardano, perché noi "proprio in buona fede" non siamo aggressivi, ma crediamo nella bontà, nel rispetto degli altri, abbiamo idee di pace e di tolleranza… e possiamo dunque invocare la verità, quella dei dati certi, dei risultati scientifici, dei riscontri obiettivi, per poter additare finalmente qualcuno, mostro o pazzo che sia, e, rassicurati, voltare pagina (nell'attesa della prossima cronaca…).

Sempre Bion cita Keats per sottolineare "Quella capacità che un uomo possiede se sa perseverare nelle incertezze, attraverso i misteri e i dubbi, senza lasciarsi andare a una agitata ricerca di fatti e ragioni."

Mi sembra che la richiesta di tempo espressa dal magistrato, per aspettare i risultati scientifici e mettere insieme tutti i dati raccolti, possa corrispondere non solo ad un atteggiamento scrupoloso e cauto nel condurre il proprio lavoro, ma anche alla capacità di porsi in un clima di attesa, al riparo dalla troppa fretta e dalle richieste della società intorno, provando a rimanere per un po' in silenzio.

E forse davvero il silenzio stampa più volte invocato dai protagonisti della vicenda, dagli abitanti del paese, da tutte le persone più sensibili, è la richiesta di quell'ulteriore silenzio che troppo spesso in questa società non è dato, e noi stessi non ci concediamo, indispensabile per trovare sì la verità, quella però che non solo corrisponde ai fatti, ma risuona in noi, e tante volte si associa al dolore.


"Sii paziente verso tutto ciò che è irrisolto nel tuo cuore e…
cerca di dominare le domande che sono simili
a stanze chiuse a chiave e a libri scritti in una lingua straniera.
Non cercare ora le risposte che non possono esserti date,
poiché non saresti capace di convivere con esse.
E il punto è vivere ogni cosa.
Vivi le domande ora.
Forse ti sarà dato, senza che tu te ne accorga,
di vivere fino al lontano giorno in cui avrai la risposta."


[R.M.Rilke]