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L'Euro e l'età infantile della pietra

La notizia
Rudolf Hickel professore di scienze economiche all'Università di Brema intervistato a proposito dell'ansia che attanaglia i tedeschi per il passaggio all'euro risponde dicendo che la scadenza del primo gennaio 2002 in realtà ha un valore relativo sul piano economico, perché l'euro è già stato di fatto introdotto nel 1999. La novità sta solo nel fatto che cambiano le monete e le banconote nel portafoglio. Il problema è che il denaro ha molti significati.
Il Manifesto, 27 dicembre 2001

Il commento
In questi giorni che precedono l'introduzione della circolazione materiale dell'euro si sono formate agli sportelli postali e nelle banche lunghe code di cittadini che hanno atteso, in alcuni casi per ore, di poter acquistare il minikit contenente le nuove monete euro. Alcuni istituti di credito hanno dato ai propri operatori di sportello l'indicazione di consegnare un solo minikit ad ogni intestatario di conto corrente e questo ha provocato in alcune occasioni accese discussioni tra i cassieri e quei clienti che pretendevano di venire in possesso di più pacchetti.

Tutta questa fretta e bisogno di accaparrarsi le agognate monetine possono risultare poco comprensibile dato che dal primo gennaio i nostri portafogli saranno invasi da un'enorme quantità di spiccioli e che per almeno altri due mesi potremo ancora utilizzare, parallelamente alla nuova moneta, le lire. Il problema è che il denaro ha molti significati, come correttamente è rilevato dal professore intervistato, a tale proposito è interessante quanto è proposto da Sandor Ferenczi nel suo articolo del 1914 intitolato "Sull'ontogenesi dell'interesse per il denaro". In questo scritto l'autore esamina in quale misura l'esperienza individuale favorisce la trasformazione dell'interesse erotico-anale in interesse per il denaro. Partendo dalla scoperta di Freud dell'esistenza di uno strettissimo rapporto tra il denaro e lo sterco, l'osservazione del comportamento infantile ci mostra come il bambino originariamente rivolga il proprio interesse verso il processo di defecazione provando diletto nel trattenere le feci. I materiali fecali trattenuti, veri e propri "primi risparmi" rimangono in correlazione inconscia con tutte quelle attività che abbiano alla loro base il raccogliere, il collezionare. Successivamente l'interesse del bambino, allorché l'odore delle feci gli diviene repellente, si sposta su altro materiale non maleodorante come per esempio il fango, nel momento che il senso di pulizia aumenta qualsiasi materiale umido e viscoso viene sostituito dalla sabbia che pur mantenendo lo stesso colore è asciutta e pulita. Durante la crescita anche la sabbia diventa inaccettabile e inizia così quella che Ferenczi definisce "l'età infantile della pietra", durante la quale il bambino raccoglie pietrine d'ogni colore e forma. Dopo le pietre i manufatti diventano oggetto della mania collezionistica infantile e a questo punto il passo per l'interesse a maneggiare monete e monetine è ormai avvenuto. Originariamente ciò che colpisce il bambino non è il valore puramente economico, ma il piacere di guardare, manipolare i dischetti metallici. In questo modo lo sviluppo del simbolo del denaro è compiuto. Il piacere che prima dava il contenuto intestinale, ora diviene piacere per il denaro che non è altro che "sterco inodore, disidratato e luccicante".

A conferma di quanto rilevato da Ferenczi è interessante a mio avviso costatare come altre forme di pagamento come i nuovi carnet d'assegni in euro e le carte bancomat, mezzo quest'ultimo che evita eventuali errori di conversione, non sono stati oggetto in questi giorni d'altrettanta attenzione e ansiosa richiesta come le nuove monetine. Un altro fenomeno che sta avvenendo in questi ultimissimi giorni prima del fatidico passaggio è l'aumento esponenziale, alcuni dati degli istituti di credito indicano più del doppio rispetto allo stesso periodo negli anni precedenti, di prelievi di contante (lire) presso gli sportelli bancari e bancomat, proprio nel momento in cui sarebbe consigliabile, apparentemente, ridurli data la necessità prossima di restituire le lire per convertirle in euro. Questo paradossale comportamento potrebbe essere messo in relazione al timore che molte persone provano nel gestire un cambiamento, una novità, paura che può portare a negare in senso difensivo quegli aspetti della realtà che vengono vissuti inaccettabili e pericolosi.

L'euro, moneta con radici culturali e storiche ancora poco evidenti, diventa così una sorta di oggetto alieno che arriva a sostituire ciò che invece viene vissuto, da alcuni discorsi colti per la strada in modo nostalgico e romantico, come qualcosa di familiare e rassicurante. Tutto questo avviene in un momento storico dove la possibilità individuale di gestire il proprio pensiero, compresi gli aspetti pratici della vita, viene costantemente delegato alla tecnologia, come per esempio l'utilizzo del computer anche per risolvere le piccole incombenze domestiche, o all'altro allo specialista, cioè a colui che ci può evitare di sforzarci ad affrontare i piccoli e grandi ostacoli della vita.

Purtroppo ciò non permette all'individuo di allenarsi, di abituarsi ad avvicinare con fiducia e quindi di gestire i cambiamenti e le novità, rischiando così di perdere quell'opportunità, che l'uomo ha fin dalla sua infanzia, di esplorare e sperimentare per prove di errore il mondo circostante non ancora conosciuto.

Il legame arcaico dei segnali visivi

La notizia
Denti bianchi: quanto costa avere un bel sorriso? E' la nuova ossessione di politici, star e imprenditori. Avere un'arcata dentaria a prova di primo piano. Perché il successo comincia dagli incisivi.
Panorama, 20 dicembre 2001

Il commento
Mi ha colpito la foto da pubblicità dentifricia di Julia Roberts (i buoni sentimenti americani) a tutti denti sulla copertina di Panorama. Quasi che il mondo dell'immagine in questo clima di guerra e intolleranza, pur usando una donna, avesse pudore a schiaffare il solito nudo in prima pagina.

Certo il primo piano per conquistare folle e sedurre menti pigre, col sorriso, è uno strumento di una efficacia intuitivamente sempre saputa.

Infatti gli enormi manifesti da grande fratello (a proposito, chi l'ha letto davvero sa che non è solo una trasmissione televisiva, ma una immagine incombente nel libro fantascientifico di Orwell "1984" che tratteggiava un futuro in cui il continuo rimaneggiamento della storia e lo slogan "L'ignoranza è forza" tenevano in schiavitù psicologica l'intera inconsapevole popolazione) sono stati ampiamente usati nella politica, specie se totalitaria.

Pertanto reggere, a livello estetico, il primo piano è un imperativo categorico per chi ha una carriera pubblica e ogni sacrificio vale la pena, dato che una bella bocca diventa uno status symbol, anche per il costo cospicuo delle cure dentarie a scopo estetico.

Del resto c'è chi con la propria immagine ci lavora, in senso stretto, la gente di spettacolo, e veicola con essa le proprie capacità espressive e comunicative, ma oggi sembra che nessun personaggio di potere sia economico che politico, possa prescindere dalla comunicazione visiva per l'efficacia dei propri messaggi.

Si attivano quindi psicologi esperti di comunicazione, di gestualità, per dirci quando il messaggio verbale si perde o si fissa subliminalmente, a seconda dell'impatto visivo sul destinatario.

Questo accade grazie al legame di significato emotivo-affettivo che si instaura e che è relativo ad arcaici inprinting preverbali.

Il viso in generale ed il sorriso in particolare, costituiscono il primo legame di riconoscimento e di appartenenza, tra madre e bambino, della nostra specie. Al contrario, per esempio, dei gattini che sono ciechi alla nascita e poppano senza guardare in viso la madre, anche per collocazione delle mammelle.

Per cui lo sguardo e il sorriso sono per ciascuno di noi legati all'accudimento materno, al caldo abbraccio che conforta, alla sazietà che calma, al piacere di essere unico per l'altro.

Tutti questi significati, che sono presenti nei primi momenti della nostra vita, si ritrovano nell'incanto dell'innamoramento e del piacere erotico.

Perciò, senza che ce ne accorgiamo, il viso che ci guarda dallo schermo ci comunica la nostra unicità, l'appartenenza, l'importanza che abbiamo per l'altro. E' anche comprensibile che la fatica dell'intelligenza che ci costringe a sentirci uno dei tanti, a cui è rivolto un messaggio strumentale, rispetto a finalità a noi spesso sconosciute, è estremamente deludente.

All'aspetto fisico si è sempre data attenzione, ma più spesso con l'abbigliamento, per valorizzare le caratteristiche e nascondere i difetti, non si metteva in discussione la morfologia spontanea del corpo. Ora si va a toccare e controllare anche questa, soprattutto per cambiare i segni lasciati dal tempo. Attraverso la chirurgia estetica in particolare si cerca di modificare il viso.

Quindi forse c'è qualcosa di più che non il solo valore estetico?

Il viso specchio dell'anima che porta i segni dei nostri stati d'animo presenti e passati, oggi vogliamo che divenga schermo, per potervi proiettare la nostra volontà di potere sull'altro e più potere abbiamo più sono importanti i segnali anche fisici di questo potere.

L'animale uomo è l'unico, insieme alle scimmie, che sorride fin da neonato. E il sorriso è un potentissimo stimolo al legame.

Tuttavia proprio perché il sorriso inizia prima della dentizione, la sua funzione prescinde dall'esibizione dell'intera dentatura in tutta la sua lucentezza.

Una bella e forte dentatura è una difficile conquista, per le vicissitudini dello svezzamento, con le sue sofferenze e della prima dentizione con tutte le sue microperdite. Quindi una bella dentatura che segnala salute, giovinezza, prestanza fisica, sicurezza delle proprie armi, sembra il risultato di chi ha affrontato con coraggio tutte le prove di iniziazione nella giungla della vita.

Noi tapini dalla dentature così e così, dalle lunghe torture con gli apparecchi ai denti, come minimo, se non con le cure dentistiche di cui conosciamo il dolore e l'umiliazione, come possiamo resistere ad un caldo sorriso a denti smaglianti (luccicano come specchietti per allodole).

E come ricordare allora il simbolismo legato ai denti, al mostrare i denti come segno di forza e di sfida. Oppure come ricordare che a cavalli e schiavi si guardavano i denti per deciderne i prezzo.

Come distinguere un sorriso costruito da uno sincero? Paradossalmente è piuttosto semplice. Jiulia Roberts o Berlusconi possono incantare con il loro bel sorriso, ma noi che relazione abbiamo con loro? Ciò che ci può catturare è l'intimità e la vicinanza di una relazione che non esiste. Perciò solo in relazioni autentiche, concrete e vissute possiamo non essere ingannati da un sorriso, che i denti siano belli o brutti.

Il nostro compito difficile è permetterci di apprezzare esteticamente, senza lasciarci sedurre ad accogliere significati non filtrati dalla nostra, sempre meno usata, intelligenza.

Clonazione umana: il primo passo

La notizia
I ricercatori: l'embrione servirà solo a curare le malattie!
La Repubblica, 26 novembre 2001

Il commento
La notizia della nascita di un "clone zero" ha suscitato nell'umanità angosce, perplessità e contemporaneamente speranze. Quando il Dottor West biologo e imprenditore dell'ACT ha fatto il suo annuncio pubblico, ha cercato di minimizzare "Biologicamente e scientificamente - dice - l'entità che abbiamo creato non è un individuo, non è una vita umana, è soltanto una vita cellulare".

Consapevolmente o inconsapevolmente il dr: West usa il verbo creare. Quel " clone zero" è stato "creato", quindi qualcosa di impossibile sino a questo momento si è compiuto.

L'essere umano da sempre ha cercato di travalicare gli stretti limiti della sua condizione, "Fatti non foste a viver come bruti ma ad acquisir virtute e conoscenza" urlava Ulisse mentre tutti gli déi scatenavano tempeste per ostacolare il suo cammino verso la conoscenza e la verità. L'uomo, eroe dilaniato, cerca di andare oltre le colonne d'Ercole e sa che aldilà troverà tesori, ma anche mondi sconosciuti tutti da decodificare; è però impossibile rimanere oltre le colonne, il mondo conosciuto è sempre troppo piccolo. In fondo la clonazione non solo risponde ad un bisogno di conoscenza, ma può essere un dono a tutta l'umanità; rappresenta, per esempio, una speranza per tutte quelle persone che hanno sviluppato una malattia di tipo degenerativo.

La scoperta potrebbe nascere però anche dal desiderio di modificare la realtà, di renderla più vicino possibile ai desideri ed hai bisogni di noi esseri umani, tristemente umiliati dalla malattia, dalla morte e dalla sofferenza.

Questa scoperta potrebbe essere mossa da un bisogno di riparare e di curare il mondo, difenderlo in qualche modo dalle istanze distruttive che stanno dentro ognuno di noi e di andare sempre un pochino di più verso la conoscenza. Ma che cosa accadrebbe se la clonazione non si fermasse ai tessuti e agli organi ma proseguisse nella clonazione di esseri viventi completi? Allora questa scoperta da dono all'umanità si trasformerebbe in una sorta di tendenza ad erodere i confini del possibile, a rendere possibile l'impossibile. Si creerebbe in tal senso un mondo immaginario, un rifugio per la mente da dove è possibile negare l'esistenza del tempo e crearsi un mondo che inverte le leggi della vita.

Concepire un figlio significa dargli la vita ma anche la morte, dandogli un tempo gli regaliamo anche la sua storia simile a quella di altri esseri umani, ma comunque diversa, e con la sua storia gli doniamo anche la sua identità.

Nell'interiorità del padre-scienziato, e forse nell'umanità tutta albergano stati d'animo contrastanti da una parte una dolorosa tensione verso la conoscenza, un conflittuale bisogno di sfidare gli déi; dall'altra un bisogno di annullare il tempo clonando all'infinito esseri tutti uguali, non per essere simile alla divinità ma per essere la "Divinità".

Un tentativo, quindi, di sostituirsi al padre creatore con lo scopo di ricreare dal caos e dalla mescolanza un nuovo universo, nel quale tutto diventa possibile. Avendo abolito tutte le differenze, scompaiono le sensazioni di essere indifeso, piccolo, inadeguato, così come l'assenza, la castrazione, la morte e lo stesso dolore psichico.

Lucifero è il modello del personaggio demiurgico che cerca di detronizzare il Padre-creatore. Ben diverso da Ulisse, Ulisse sfida il padre cerca di sapere di conoscere sfidando le ire paterne, Lucifero, invece, cerca di detronizzare il padre, di prenderne il suo posto.

Un breve dramma teatrale di Albert Camus, narra di Caligola imperatore romano:
Caligola: Ma io non sono matto. Anzi, non sono mai stato così lucido. Ho provato semplicemente un'improvvisa sete di impossibile. Le cose così come sono, non mi sembrano di tutto riposo. […] Perciò ho bisogno delle luna, o della felicità, o dell'immortalità: di qualche cosa, poniamo, di pazzesco, purché non sia di questo mondo. […] L'impossibile: proprio di questo si tratta. O meglio, si tratta di rendere possibile ciò che non lo è. […] A che mi giova la mano ferma, a che mi serve questo stupendo potere se non posso far tramontare il sole a levante e diminuire il dolore; far che non muoiano i vivi?

Cesonia (la sua amante): Ma è voler uguagliare gli déi, questo. Non conosco una peggior pazzia.[…]

Caligola: Voglio mischiare il cielo con il mare; confondere la bruttezza e la bellezza; far zampillare il riso della pena.

Cesonia: C'è il buono e il cattivo, il grande e il meschino, il giusto e l'ingiusto: è una legge che nessuno cambierà mai.

Caligola: Io la cambierò! Farò a questo secolo il dono dell'equivalenza. E quando tutto sarà purificato, e l'impossibile sulla terra, e la luna nelle mie mani, allora, forse, anch'io sarò trasformato, e il mondo con me e gli uomini non moriranno e saranno felici

Con questo pezzo ho voluto illustrare il modo di funzionare della mente, che invece di andare verso la verità pone le sue ricerche al servizio del principio del piacere sovvertendo l'ordine, per creare un nuovo mondo dove non vi sarà più dolore. La clonazione inquieta, perché può dare all'uomo il potere di Dio creatore, dipende comunque da lui l'utilizzo di questa scoperta, se l'essere umano riuscirà costantemente a tener vivo dentro di sé il conflitto, se non dimenticherà la nostra pochezza di essere umani, forse egli potrà mettere questa scoperta non a servizio del principio del piacere ma a servizio dell'umanità.

Ciò che forse non dobbiamo dimenticare è che la sofferenza, il dolore, la morte e la separazione sono sentimenti ed esperienze insiti nell'animo umano, non possono essere cancellati. L'uomo può riparare, ma non inventarsi un nuovo mondo senza separazioni e senza dolore.

Morire in nome di Allah

La notizia
Corsa all'arruolamento per morire in nome di Allah, dove vengono tratteggiate le caratteristiche dei kamikaze palestinesi, responsabili degli ultimi attentati terroristici nel cuore di Gerusalemme.
La Repubblica, 4 dicembre 2001

Il commento
Le recenti notizie provenienti da Gerusalemme sembrano appesantire ulteriormente i mesi e i giorni che stiamo vivendo. Ancora morti, ancora rappresaglie, in una spirale di violenza apparentemente inarrestabile, senza fine e senza speranza. Possibile che siano questi i "frutti dei tempi?" Eppure eravamo convinti che tutto quello che sta accadendo - la violenza agita, l'uccisione di massa, la guerra - fosse fenomeno del passato, consegnato definitivamente ad una nostra primitività rozza e poco evoluta. Nei roghi del secondo conflitto mondiale, nell'olocausto, nelle ore pietrificate di Hiroschima, pensavamo si fossero consumate una volta per tutte la follia e la furia cieca dei popoli. Nel nostro universo pacificato, nelle nostre città piene di luci e di alberi verdi, l'unica attesa sembra dedicata ad interni domestici ovattati che si rimbalzano sulle immagini delle rivista di cucina o di arredamento: caminetti accesi, fiori, tavole imbandite per la celebrazione e la conferma rassicurata di una intimità protettiva, spesso fastosa.

Invece, muovendoci veloci tra le vetrine scintillanti, investiti e trasfigurati da colori soffusi che vanno dal rosso all'oro, con inquietudine sottile, non sappiamo decidere se la manica del cappotto si è sporcata perché ha scontrato contro l'albero inghirlandato del grande magazzino, oppure se un poco di polvere sollevata dalla bombe è arrivata sino a noi.

Le immagini che ci trasmette la televisione risultano sorprendenti: paesaggi fatti di pietra e di sabbia, uomini feriti, mutilati, con in mano cannoni e fucili. Una bomba ogni due minuti su Kandahar. L'esodo di un popolo, i campi profughi, una disperazione insensata. Non può essere, quello, anche il nostro mondo; forse siamo una colonia definitivamente staccata dalla madre patria, partita secoli prima per popolare un altro pianeta, oppure siamo esposti ad un messaggio virtuale tra gli altri, una rappresentazione scenica semplicemente più lunga e ripetitiva del solito. Ma l'apparente incredulità cela, forse, il disagio che tutto questo ci riguardi direttamente, uno per uno, casa per casa. E' l'angoscia per un disastro collettivo imminente che ricaccerà il nostro pianeta, come nei consueti film di fantascienza, sino alla miseria delle origini, nella consumazione di tutte le conquiste della nostra civiltà. Oggi forse non siamo diversi, dai romani che, sul finire dell'impero, sentivano altri popoli premere ai confini dello stato.

Il nostro sogno di pacificazione infinita si è incrinato soltanto pochi mesi fa quando kamikaze alla guida di alcuni aerei si sono schiantati su New York, sul pentagono, sull'America. Le tribù ai confini del mondo a noi conosciuto, le tribù parificate tutte nella categoria di "popoli in via di sviluppo" escono dall'indifferenziazione con messaggi di morte.

Kamikaze, parola pesante e terribile. Così recita il Corano:
"Il martire è il prediletto da Dio. Non dovrà attendere il giorno del giudizio per entrare in Paradiso, vi accede nell'attimo stesso in cui abbandona questa vita terrena. Il martire non dovrà rendere conto dei suoi peccati [...] Non considerate coloro che muoiono per la causa di Dio dei morti, coloro che combattono per la causa di Dio ottengono la vita eterna in cambio di quella terrena".

L'età dei kamikaze è compresa tra i 18 - 23 (64%) e i 24 - 30 anni (34%); la maggioranza di essi è in possesso di un diploma di laurea o di scuola media superiore. Non sono una sparuta minoranza di emarginati, ma il loro numero risulta sempre in aumento, al punto che gli organizzatori delle operazioni belliche hanno difficoltà a farli attendere per l'occasione opportuna. "Abbiamo martiri per i prossimi vent'anni" afferma Khaled Meshaal, dirigente dell'ufficio politico di Hamas. E' difficile accettare il pensiero che un giovane di diciotto anni si prepari a morire il più presto possibile come suo unico e significativo progetto di esistenza, si appresti a trasformare se stesso in arma mortale per altri.

Il ricordo immediato è quello del nostro Medioevo, dell'integralismo religioso e dei suoi eccessi, dei roghi della santa inquisizione. Anche in questo caso, tutto sembrava superato e sepolto in un passato, certo terribile, ma definitivamente compiuto. Ci si ripropone, invece, con forza di assolutismo, il credo di una vita vera, quella dopo la morte, rispetto a cui l'esistenza terrena, la sola di cui ora facciamo esperienza, è mero accidente, superficie, assenza di autonomo valore. Tutto è materia contingente, pallido epifenomeno del vero essere e la morte è; l'atteso superamento della distanza che ci separa dall'autentico bene. Una prospettiva che può trasformarsi nel tentativo di eludere il peso della nostra finitudine e il mai risolto dubbio che l'ultima parola, per quanto ci riguarda, spetti, alla distruzione, alla negatività, alla dissoluzione di tutti i nostri significati affettivi.

Così dice Fernando Pessoa ne "Il libro dell'inquietudine":
"Penso in continuazione, sento in continuazione; ma il mio pensiero è privo di raziocinio, la mia emozione è priva di emozione! Da una botola situata lassù, sto precipitando per lo spazio infinito, in una caduta senza direzione, infinitupla e vuota. La mia anima è un mäelstrom nero, una vasta vertigine intorno al vuoto, un movimento di un oceano senza confini intorno ad un buco nel nulla, e nelle acque, che più che acque sono turbini, galleggiano le immagini di ciò che ho visto e sentito nel mondo: vorticano case, volti, libri, casse, echi di musiche e spezzoni di voci in un turbine sinistro e senza fondo.
E io, proprio io, sono il centro che esiste soltanto per una geometria dell'abisso; sono il nulla attorno a cui questo movimento gira, come fine a se stesso, con quel centro che esiste solo perché ogni cerchio deve possedere un centro. Io, proprio io, sono il pozzo senza pareti, ma con la resistenza delle pareti, il centro del tutto con il nulla intorno.
E in me è come se l'inferno ridesse, senza neppure l'umanità di diavoli che ridono, la follia starnazzante dell'universo morto, il cadavere girante dello spazio fisico, la fine di tutti i mondi che fluttua oscuramente al vento, disforme, fuori del tempo, senza un Dio che l'abbia creata, senza neppure se stessa che gira intorno nelle tenebre delle tenebre."


Certamente, può essere forte la tentazione di credere di stare semplicemente scivolando sulle vita, guardata con malcelato disprezzo proprio per le sue mancanze e la sua incompiutezza. Sentire solamente trascorrere sulle ore, luminosi e sicuri, indifferenti alle parole degli uomini, circonfusi da una verità divina, la sola che ci riguarda personalmente e per la quale non dobbiamo ringraziare nessuno. Scoprire che il nostro significato, ciò per cui vale la pena di vivere, non è affidato alle relazioni con gli altri, ma alla parola rivelata di un Dio e al modo in cui sapremo rispondere ad essa, alla disponibilità di cui saremo capaci. La nostra realtà fatta di limiti e di incertezze, la nostra storia di miseria e dolore, può essere rifondata dalla forza di un credere perfetto che accoglie in sé l'estremo sacrificio, può venire trasfigurata come nessun rapporto umano, nemmeno il più intimo e profondo, potrà mai fare per noi.

L'assoluta bellezza e compiutezza del sacrificio estremo, cancella e purifica anche ogni gesto della vita. Non è più necessario lasciare spazio al pensiero che ricorda le nostre azioni e che, in alcuni casi, le può scoprire sbagliate, ingiuste, addirittura crudeli. Possiamo liberarci una volta per tutte del pungolo dolorosissimo che ci spinge a cercare una possibile riparazione, nel crollo dell'immagine di una personale ed autonoma perfezione, né sopportare il peso soffocante di un irrevocabile "troppo tardi", il peso a volte straziante di non potere fare più nulla. Un unico gesto sublime cancella la sofferenza della coscienza, un atto senza rapporto con nessuno ripristina un'innocenza assoluta.

Ma, in fondo, non è proprio questo il sogno che cerca di costruire anche la nostra civiltà?

Il modello occidentale con cui ogni giorno ci confrontiamo è quello di un essere imprescindibilmente giovane, eternamente single, lontano e non legato a rapporti considerati fragili e deludenti, brillante ed affermato in una professione totalizzante, mai perdente e che non muore mai.

Chi muore, generalmente è confinato e nascosto, allontanato dalla vita quotidiana, nel timore di una terribile e corrosiva contaminazione. Di morte non si parla mai e l'obbligo, per tutti, è quello di nascondere i segni di un declino fisico vissuto come vergognosa mancanza di adeguatezza sociale, foriero di emarginazione. Cure estetiche sempre più raffinate, interventi chirurgici, soggiorni in cliniche specializzate, il ricorso massiccio alle tecniche della fecondazione artificiale sono al servizio, per certi versi, della negazione del limite e della caducità delle cose terrene, compresi noi stessi.

Al pari dei kamikaze, desidereremmo liberarci per sempre del peso di dovere costruire passo per passo i nostri progetti, accompagnati dall'amarezza delle frustrazioni e dei fallimenti. Soprattutto desidereremmo essere sollevati dalla fatica di amare, all'interno di rapporti che ci rendono spesso insoddisfatti per la mancata perfezione dell'altro, che ci aprono alla sofferenza per la possibile perdita di un bene e di un affetto che non sono sotto il nostro esclusivo controllo.

Attraverso il supporto delle scoperte scientifiche e tecnologiche, non cerchiamo semplicemente di prolungare la vita, ma un particolare periodo di essa, quello in cui si può ancora profondamente credere che si esisterà per sempre, in una perennità di affermazione autarchica di se stessi.

Proprio il periodo di vita nel quale i kamikaze decidono di uccidersi uccidendo. La forza della giovinezza dall'una e dall'altra parte, al servizio di un tristemente simile sogno di potenza.

Un sogno che inizia anche dalla nostra incapacità di dialogo con la diversità e con ciò che, in quanto diverso, è avvertito come fragile e dolorante. L'impulso che ci spinge a nascondere con vergogna la vecchiaia, la malattia, la solitudine e la morte è lo stesso, forse, che ci impedisce di conoscere e di comprendere le tribù in via di sviluppo che ci circondano.

Nel passato erano il buon selvaggio a cui portare il messaggio della salvezza e della verità; missioni e chiese di cemento in universi di terra e di fango, accoglievano e vestivano con divise d'ordinanza una moltitudine di bambini senza identità, da plasmare, a cui annunciare la buona novella. La violenza non è cambiata nel corso del tempo, quando alle missioni si sono semplicemente aggiunte le multinazionali o i villaggi turistici per i nostri sogni esotici. Un imperialismo arrogante si è cercato "riserve umane" indifferenziate, da utilizzare per l'industria, per il collaudo delle proprie armi, per il personale piacere. Tanto tutto accade in luoghi troppo lontani e forte è il senso collettivo di impotenza.

Ma l'inquietudine ci lascia sempre meno, è terribile pensare di costruire il proprio sogno di immortalità sulla miseria e sulla morte di interi popoli. Come terribile è sospettare che forse, per la nostra parte di responsabilità, a quei popoli non abbiamo lasciato altro spazio se non quello dei kamikaze, altro messaggio possibile da mandare.

Alla ricerca della verità

La notizia
Uccisa in un agguato l'inviata del Corriere della Sera
La Repubblica, martedì 20 novembre 2001

Il commento
Per tutta la settimana si sono susseguiti sui giornali titoli che riportavano la notizia della morte di tre giornalisti, fra cui un'italiana, uccisi in un agguato in Afghanistan. Molti i commenti dei mass-media, molta la partecipazione emotiva e le lettere di sgomento e cordoglio pervenute alle redazioni dei giornali. Un giornalista, alla radio, si chiedeva se saremmo stati ugualmente scossi se si fosse trattato della morte di persone che svolgevano un tipo di lavoro completamente diverso (un ingegnere che costruiva una diga, un operaio caduto da un impalcatura…). Anch'io mi sono ritrovata dolorosamente turbata. Che cosa colpisce di questo avvenimento?

Certo colpisce che si tratti di una donna; di una donna andata in un paese dalla cultura così diversa da quella occidentale. Per il potere degli stereotipi ci appare insolito che sia una donna ad essere inviata di guerra, ad essere disposta a rischiare la propria vita, in nome di una funzione conoscitiva di solito prettamente maschile: sarebbe più normale pensarla in redazione ad attendere ed accogliere notizie raccolte da altri. Colpisce questa donna alla ricerca della verità su un conflitto e su un popolo che ci porta vertiginosamente indietro, come un'improbabile macchina del tempo, e che ci mostra stratificazioni di vestigia di un tempo fatto solo di guerre e di miseria che imprigiona e anestetizza intrecciandosi intreccia con l'indifferenza colpevole dell'occidente. Alla ricerca della verità su una misoginia inaccettabile, che in una donna può risvegliare millenni di rifiuti paterni… Alla ricerca della verità sui conflitti economici che si celano dietro a tutta questa miseria…

C'è dunque l'ammirazione (che poi però finisce di delegare ad altri) nei confronti di coloro che sono disposti a porsi domande, a mantenere viva la curiosità conoscitiva, a saper attingere, ormai adulti, a quella capacità, propria dell'infanzia, di porsi di fronte alla realtà in modo curioso, creativo, non dando mai nulla per scontato e senza preoccupazioni circa l'eventuale natura sconveniente delle loro domande e circa le eventuali conseguenze.

Il vedere che c'è ancora qualcuno disposto ad essere curiosamente creativo non va forse a risvegliare quel bambino -a volte troppo "normalizzato"- che si trova in ognuno di noi? Questa giornalista non faceva forse per conto nostro domande che da tempo avevamo rinunciato a fare? Perché quell'occhio "infantile", nella maggior parte di noi adulti rinuncia all'appassionata ricerca? Certo se nel faticoso lavoro della crescita siamo stati spinti ad un adattamento alle regole che poco ha tenuto in considerazione i nostri bisogni di bambini e troppo le esigenze dell' "ambiente", molto probabilmente sapremo essere acquiescenti alle richieste di adeguamento sociale, ma purtroppo a scapito di una capacità di stupirsi, emozionarsi e sentire il desiderio di comprendere ciò che stiamo vivendo.

Per non perdere la speranza di poter continuare a porci domande, la morte della giornalista ci obbliga ad interrogarci sui rischi (non solo fisici, ma anche emotivi) che questo comporta. Alcuni, infatti, potrebbero obiettare che sapeva del pericolo, che nessuno l'aveva costretta. Forse è un rischio anche astenersi e sopravvivere scivolando in una sorta di anestesia delle emozioni.

A questo punto vale la pena chiederci quali possono essere le motivazioni che spingono alcune persone a scegliere professioni da "prima linea" in cui si è messo in conto un prezzo alto da pagare. Non penso solo ai giornalisti che con il loro lavoro consentono agli altri, fornendo notizie, di sapere, di formarsi un'opinione, ma anche a quelle professioni che ci riguardano più da vicino in quanto prevedono il prendersi cura dell'altro.

Per cercare di capire, è necessario ripensare al bisogno originario del bambino di essere considerato e preso sul serio per quello che è di volta in volta, e per quello che fa. Se il genitore, quando era bambino, non ha fatto quest'esperienza, non potrà nemmeno offrire al proprio figlio un rapporto in cui interessarsi a lui, comprendendolo e accudendolo per quello che è e non per quello che può rappresentare. Cioè il rischio di incarnare il desiderio del genitore di realizzarsi attraverso il figlio. Le parti saranno invertite e il figlio, dipendendo in tutto e per tutto dal genitore, non potrà fare a meno di rispondere alle richieste, sostituendosi a lui nella posizione di sostegno e di ascolto. Avrà quindi il compito di supportare il genitore, di ascoltarlo, di rispondere ai suoi bisogni. Nel bambino si affineranno così quelle caratteristiche particolari, quella capacità d'ascolto, d'attenzione ai bisogni altrui che lo porterà poi, da adulto, ad adattarsi ancora ai bisogni degli altri scegliendo una delle cosiddette professioni di aiuto.

Il ripensare alle motivazioni delle proprie scelte, non solo professionali, potrebbe essere anche questo un modo per cercare un pezzo di verità, una parte delle nostre determinanti più profonde.

Tutti cerchiamo delle verità: giornalisti, pazienti, medici, ministri… Quando qualcuno si fa carico di questa ricerca, siamo manlevati da una responsabilità faticosa ed importante. E siamo poi anche molto coinvolti quando qualcuno paga con la vita il prezzo di una ricerca ineludibile per l'essere umano: un prezzo che noi ci siamo risparmiati.