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Morire in nome di Allah

La notizia
Corsa all'arruolamento per morire in nome di Allah, dove vengono tratteggiate le caratteristiche dei kamikaze palestinesi, responsabili degli ultimi attentati terroristici nel cuore di Gerusalemme.
La Repubblica, 4 dicembre 2001

Il commento
Le recenti notizie provenienti da Gerusalemme sembrano appesantire ulteriormente i mesi e i giorni che stiamo vivendo. Ancora morti, ancora rappresaglie, in una spirale di violenza apparentemente inarrestabile, senza fine e senza speranza. Possibile che siano questi i "frutti dei tempi?" Eppure eravamo convinti che tutto quello che sta accadendo - la violenza agita, l'uccisione di massa, la guerra - fosse fenomeno del passato, consegnato definitivamente ad una nostra primitività rozza e poco evoluta. Nei roghi del secondo conflitto mondiale, nell'olocausto, nelle ore pietrificate di Hiroschima, pensavamo si fossero consumate una volta per tutte la follia e la furia cieca dei popoli. Nel nostro universo pacificato, nelle nostre città piene di luci e di alberi verdi, l'unica attesa sembra dedicata ad interni domestici ovattati che si rimbalzano sulle immagini delle rivista di cucina o di arredamento: caminetti accesi, fiori, tavole imbandite per la celebrazione e la conferma rassicurata di una intimità protettiva, spesso fastosa.

Invece, muovendoci veloci tra le vetrine scintillanti, investiti e trasfigurati da colori soffusi che vanno dal rosso all'oro, con inquietudine sottile, non sappiamo decidere se la manica del cappotto si è sporcata perché ha scontrato contro l'albero inghirlandato del grande magazzino, oppure se un poco di polvere sollevata dalla bombe è arrivata sino a noi.

Le immagini che ci trasmette la televisione risultano sorprendenti: paesaggi fatti di pietra e di sabbia, uomini feriti, mutilati, con in mano cannoni e fucili. Una bomba ogni due minuti su Kandahar. L'esodo di un popolo, i campi profughi, una disperazione insensata. Non può essere, quello, anche il nostro mondo; forse siamo una colonia definitivamente staccata dalla madre patria, partita secoli prima per popolare un altro pianeta, oppure siamo esposti ad un messaggio virtuale tra gli altri, una rappresentazione scenica semplicemente più lunga e ripetitiva del solito. Ma l'apparente incredulità cela, forse, il disagio che tutto questo ci riguardi direttamente, uno per uno, casa per casa. E' l'angoscia per un disastro collettivo imminente che ricaccerà il nostro pianeta, come nei consueti film di fantascienza, sino alla miseria delle origini, nella consumazione di tutte le conquiste della nostra civiltà. Oggi forse non siamo diversi, dai romani che, sul finire dell'impero, sentivano altri popoli premere ai confini dello stato.

Il nostro sogno di pacificazione infinita si è incrinato soltanto pochi mesi fa quando kamikaze alla guida di alcuni aerei si sono schiantati su New York, sul pentagono, sull'America. Le tribù ai confini del mondo a noi conosciuto, le tribù parificate tutte nella categoria di "popoli in via di sviluppo" escono dall'indifferenziazione con messaggi di morte.

Kamikaze, parola pesante e terribile. Così recita il Corano:
"Il martire è il prediletto da Dio. Non dovrà attendere il giorno del giudizio per entrare in Paradiso, vi accede nell'attimo stesso in cui abbandona questa vita terrena. Il martire non dovrà rendere conto dei suoi peccati [...] Non considerate coloro che muoiono per la causa di Dio dei morti, coloro che combattono per la causa di Dio ottengono la vita eterna in cambio di quella terrena".

L'età dei kamikaze è compresa tra i 18 - 23 (64%) e i 24 - 30 anni (34%); la maggioranza di essi è in possesso di un diploma di laurea o di scuola media superiore. Non sono una sparuta minoranza di emarginati, ma il loro numero risulta sempre in aumento, al punto che gli organizzatori delle operazioni belliche hanno difficoltà a farli attendere per l'occasione opportuna. "Abbiamo martiri per i prossimi vent'anni" afferma Khaled Meshaal, dirigente dell'ufficio politico di Hamas. E' difficile accettare il pensiero che un giovane di diciotto anni si prepari a morire il più presto possibile come suo unico e significativo progetto di esistenza, si appresti a trasformare se stesso in arma mortale per altri.

Il ricordo immediato è quello del nostro Medioevo, dell'integralismo religioso e dei suoi eccessi, dei roghi della santa inquisizione. Anche in questo caso, tutto sembrava superato e sepolto in un passato, certo terribile, ma definitivamente compiuto. Ci si ripropone, invece, con forza di assolutismo, il credo di una vita vera, quella dopo la morte, rispetto a cui l'esistenza terrena, la sola di cui ora facciamo esperienza, è mero accidente, superficie, assenza di autonomo valore. Tutto è materia contingente, pallido epifenomeno del vero essere e la morte è; l'atteso superamento della distanza che ci separa dall'autentico bene. Una prospettiva che può trasformarsi nel tentativo di eludere il peso della nostra finitudine e il mai risolto dubbio che l'ultima parola, per quanto ci riguarda, spetti, alla distruzione, alla negatività, alla dissoluzione di tutti i nostri significati affettivi.

Così dice Fernando Pessoa ne "Il libro dell'inquietudine":
"Penso in continuazione, sento in continuazione; ma il mio pensiero è privo di raziocinio, la mia emozione è priva di emozione! Da una botola situata lassù, sto precipitando per lo spazio infinito, in una caduta senza direzione, infinitupla e vuota. La mia anima è un mäelstrom nero, una vasta vertigine intorno al vuoto, un movimento di un oceano senza confini intorno ad un buco nel nulla, e nelle acque, che più che acque sono turbini, galleggiano le immagini di ciò che ho visto e sentito nel mondo: vorticano case, volti, libri, casse, echi di musiche e spezzoni di voci in un turbine sinistro e senza fondo.
E io, proprio io, sono il centro che esiste soltanto per una geometria dell'abisso; sono il nulla attorno a cui questo movimento gira, come fine a se stesso, con quel centro che esiste solo perché ogni cerchio deve possedere un centro. Io, proprio io, sono il pozzo senza pareti, ma con la resistenza delle pareti, il centro del tutto con il nulla intorno.
E in me è come se l'inferno ridesse, senza neppure l'umanità di diavoli che ridono, la follia starnazzante dell'universo morto, il cadavere girante dello spazio fisico, la fine di tutti i mondi che fluttua oscuramente al vento, disforme, fuori del tempo, senza un Dio che l'abbia creata, senza neppure se stessa che gira intorno nelle tenebre delle tenebre."


Certamente, può essere forte la tentazione di credere di stare semplicemente scivolando sulle vita, guardata con malcelato disprezzo proprio per le sue mancanze e la sua incompiutezza. Sentire solamente trascorrere sulle ore, luminosi e sicuri, indifferenti alle parole degli uomini, circonfusi da una verità divina, la sola che ci riguarda personalmente e per la quale non dobbiamo ringraziare nessuno. Scoprire che il nostro significato, ciò per cui vale la pena di vivere, non è affidato alle relazioni con gli altri, ma alla parola rivelata di un Dio e al modo in cui sapremo rispondere ad essa, alla disponibilità di cui saremo capaci. La nostra realtà fatta di limiti e di incertezze, la nostra storia di miseria e dolore, può essere rifondata dalla forza di un credere perfetto che accoglie in sé l'estremo sacrificio, può venire trasfigurata come nessun rapporto umano, nemmeno il più intimo e profondo, potrà mai fare per noi.

L'assoluta bellezza e compiutezza del sacrificio estremo, cancella e purifica anche ogni gesto della vita. Non è più necessario lasciare spazio al pensiero che ricorda le nostre azioni e che, in alcuni casi, le può scoprire sbagliate, ingiuste, addirittura crudeli. Possiamo liberarci una volta per tutte del pungolo dolorosissimo che ci spinge a cercare una possibile riparazione, nel crollo dell'immagine di una personale ed autonoma perfezione, né sopportare il peso soffocante di un irrevocabile "troppo tardi", il peso a volte straziante di non potere fare più nulla. Un unico gesto sublime cancella la sofferenza della coscienza, un atto senza rapporto con nessuno ripristina un'innocenza assoluta.

Ma, in fondo, non è proprio questo il sogno che cerca di costruire anche la nostra civiltà?

Il modello occidentale con cui ogni giorno ci confrontiamo è quello di un essere imprescindibilmente giovane, eternamente single, lontano e non legato a rapporti considerati fragili e deludenti, brillante ed affermato in una professione totalizzante, mai perdente e che non muore mai.

Chi muore, generalmente è confinato e nascosto, allontanato dalla vita quotidiana, nel timore di una terribile e corrosiva contaminazione. Di morte non si parla mai e l'obbligo, per tutti, è quello di nascondere i segni di un declino fisico vissuto come vergognosa mancanza di adeguatezza sociale, foriero di emarginazione. Cure estetiche sempre più raffinate, interventi chirurgici, soggiorni in cliniche specializzate, il ricorso massiccio alle tecniche della fecondazione artificiale sono al servizio, per certi versi, della negazione del limite e della caducità delle cose terrene, compresi noi stessi.

Al pari dei kamikaze, desidereremmo liberarci per sempre del peso di dovere costruire passo per passo i nostri progetti, accompagnati dall'amarezza delle frustrazioni e dei fallimenti. Soprattutto desidereremmo essere sollevati dalla fatica di amare, all'interno di rapporti che ci rendono spesso insoddisfatti per la mancata perfezione dell'altro, che ci aprono alla sofferenza per la possibile perdita di un bene e di un affetto che non sono sotto il nostro esclusivo controllo.

Attraverso il supporto delle scoperte scientifiche e tecnologiche, non cerchiamo semplicemente di prolungare la vita, ma un particolare periodo di essa, quello in cui si può ancora profondamente credere che si esisterà per sempre, in una perennità di affermazione autarchica di se stessi.

Proprio il periodo di vita nel quale i kamikaze decidono di uccidersi uccidendo. La forza della giovinezza dall'una e dall'altra parte, al servizio di un tristemente simile sogno di potenza.

Un sogno che inizia anche dalla nostra incapacità di dialogo con la diversità e con ciò che, in quanto diverso, è avvertito come fragile e dolorante. L'impulso che ci spinge a nascondere con vergogna la vecchiaia, la malattia, la solitudine e la morte è lo stesso, forse, che ci impedisce di conoscere e di comprendere le tribù in via di sviluppo che ci circondano.

Nel passato erano il buon selvaggio a cui portare il messaggio della salvezza e della verità; missioni e chiese di cemento in universi di terra e di fango, accoglievano e vestivano con divise d'ordinanza una moltitudine di bambini senza identità, da plasmare, a cui annunciare la buona novella. La violenza non è cambiata nel corso del tempo, quando alle missioni si sono semplicemente aggiunte le multinazionali o i villaggi turistici per i nostri sogni esotici. Un imperialismo arrogante si è cercato "riserve umane" indifferenziate, da utilizzare per l'industria, per il collaudo delle proprie armi, per il personale piacere. Tanto tutto accade in luoghi troppo lontani e forte è il senso collettivo di impotenza.

Ma l'inquietudine ci lascia sempre meno, è terribile pensare di costruire il proprio sogno di immortalità sulla miseria e sulla morte di interi popoli. Come terribile è sospettare che forse, per la nostra parte di responsabilità, a quei popoli non abbiamo lasciato altro spazio se non quello dei kamikaze, altro messaggio possibile da mandare.

Clonazione umana: il primo passo

La notizia
I ricercatori: l'embrione servirà solo a curare le malattie!
La Repubblica, 26 novembre 2001

Il commento
La notizia della nascita di un "clone zero" ha suscitato nell'umanità angosce, perplessità e contemporaneamente speranze. Quando il Dottor West biologo e imprenditore dell'ACT ha fatto il suo annuncio pubblico, ha cercato di minimizzare "Biologicamente e scientificamente - dice - l'entità che abbiamo creato non è un individuo, non è una vita umana, è soltanto una vita cellulare".

Consapevolmente o inconsapevolmente il dr: West usa il verbo creare. Quel " clone zero" è stato "creato", quindi qualcosa di impossibile sino a questo momento si è compiuto.

L'essere umano da sempre ha cercato di travalicare gli stretti limiti della sua condizione, "Fatti non foste a viver come bruti ma ad acquisir virtute e conoscenza" urlava Ulisse mentre tutti gli déi scatenavano tempeste per ostacolare il suo cammino verso la conoscenza e la verità. L'uomo, eroe dilaniato, cerca di andare oltre le colonne d'Ercole e sa che aldilà troverà tesori, ma anche mondi sconosciuti tutti da decodificare; è però impossibile rimanere oltre le colonne, il mondo conosciuto è sempre troppo piccolo. In fondo la clonazione non solo risponde ad un bisogno di conoscenza, ma può essere un dono a tutta l'umanità; rappresenta, per esempio, una speranza per tutte quelle persone che hanno sviluppato una malattia di tipo degenerativo.

La scoperta potrebbe nascere però anche dal desiderio di modificare la realtà, di renderla più vicino possibile ai desideri ed hai bisogni di noi esseri umani, tristemente umiliati dalla malattia, dalla morte e dalla sofferenza.

Questa scoperta potrebbe essere mossa da un bisogno di riparare e di curare il mondo, difenderlo in qualche modo dalle istanze distruttive che stanno dentro ognuno di noi e di andare sempre un pochino di più verso la conoscenza. Ma che cosa accadrebbe se la clonazione non si fermasse ai tessuti e agli organi ma proseguisse nella clonazione di esseri viventi completi? Allora questa scoperta da dono all'umanità si trasformerebbe in una sorta di tendenza ad erodere i confini del possibile, a rendere possibile l'impossibile. Si creerebbe in tal senso un mondo immaginario, un rifugio per la mente da dove è possibile negare l'esistenza del tempo e crearsi un mondo che inverte le leggi della vita.

Concepire un figlio significa dargli la vita ma anche la morte, dandogli un tempo gli regaliamo anche la sua storia simile a quella di altri esseri umani, ma comunque diversa, e con la sua storia gli doniamo anche la sua identità.

Nell'interiorità del padre-scienziato, e forse nell'umanità tutta albergano stati d'animo contrastanti da una parte una dolorosa tensione verso la conoscenza, un conflittuale bisogno di sfidare gli déi; dall'altra un bisogno di annullare il tempo clonando all'infinito esseri tutti uguali, non per essere simile alla divinità ma per essere la "Divinità".

Un tentativo, quindi, di sostituirsi al padre creatore con lo scopo di ricreare dal caos e dalla mescolanza un nuovo universo, nel quale tutto diventa possibile. Avendo abolito tutte le differenze, scompaiono le sensazioni di essere indifeso, piccolo, inadeguato, così come l'assenza, la castrazione, la morte e lo stesso dolore psichico.

Lucifero è il modello del personaggio demiurgico che cerca di detronizzare il Padre-creatore. Ben diverso da Ulisse, Ulisse sfida il padre cerca di sapere di conoscere sfidando le ire paterne, Lucifero, invece, cerca di detronizzare il padre, di prenderne il suo posto.

Un breve dramma teatrale di Albert Camus, narra di Caligola imperatore romano:
Caligola: Ma io non sono matto. Anzi, non sono mai stato così lucido. Ho provato semplicemente un'improvvisa sete di impossibile. Le cose così come sono, non mi sembrano di tutto riposo. […] Perciò ho bisogno delle luna, o della felicità, o dell'immortalità: di qualche cosa, poniamo, di pazzesco, purché non sia di questo mondo. […] L'impossibile: proprio di questo si tratta. O meglio, si tratta di rendere possibile ciò che non lo è. […] A che mi giova la mano ferma, a che mi serve questo stupendo potere se non posso far tramontare il sole a levante e diminuire il dolore; far che non muoiano i vivi?

Cesonia (la sua amante): Ma è voler uguagliare gli déi, questo. Non conosco una peggior pazzia.[…]

Caligola: Voglio mischiare il cielo con il mare; confondere la bruttezza e la bellezza; far zampillare il riso della pena.

Cesonia: C'è il buono e il cattivo, il grande e il meschino, il giusto e l'ingiusto: è una legge che nessuno cambierà mai.

Caligola: Io la cambierò! Farò a questo secolo il dono dell'equivalenza. E quando tutto sarà purificato, e l'impossibile sulla terra, e la luna nelle mie mani, allora, forse, anch'io sarò trasformato, e il mondo con me e gli uomini non moriranno e saranno felici

Con questo pezzo ho voluto illustrare il modo di funzionare della mente, che invece di andare verso la verità pone le sue ricerche al servizio del principio del piacere sovvertendo l'ordine, per creare un nuovo mondo dove non vi sarà più dolore. La clonazione inquieta, perché può dare all'uomo il potere di Dio creatore, dipende comunque da lui l'utilizzo di questa scoperta, se l'essere umano riuscirà costantemente a tener vivo dentro di sé il conflitto, se non dimenticherà la nostra pochezza di essere umani, forse egli potrà mettere questa scoperta non a servizio del principio del piacere ma a servizio dell'umanità.

Ciò che forse non dobbiamo dimenticare è che la sofferenza, il dolore, la morte e la separazione sono sentimenti ed esperienze insiti nell'animo umano, non possono essere cancellati. L'uomo può riparare, ma non inventarsi un nuovo mondo senza separazioni e senza dolore.

La forza persuasiva dei soldi

La notizia
Oltre ai kalashnikov Mujahddin a Kabul, anche grazie alla forza persuasiva dei soldi. Kabul. La ''liberazione di Kabul'', come la chiamano i nuovi conquistatori del Fronte unito antitalebano, non è frutto solo dei raid alleati o degli assalti dei Mujaheddin. Oltre alle cannonate, hanno pesato sulle sorti della battaglia i salti dell'ultima ora sul carro dei vincitori, i rapporti personali, spesso di famiglia, tra comandanti dei fronti avversi e il valore del denaro che compra i disertori: 50 dollari per un soldato, 100 per un ufficiale talebano, somme ben più elevate per i veri capi.
''Il Foglio di martedì 14 novembre 2001

Il commento
E' difficile non porsi in una prospettiva psicoanalitica mentre immagini ed eventi, che ci giungono da territori poco conosciuti, occupano molta parte del nostro immaginario e ci inducono anche a chiederci se è lecito usare i nostri strumenti quotidiani per "pensare" altri mondi. Forse quasi inavvertitamente modificheremo e adatteremo i nostri strumenti. Per ora, come psicoanalisti, vedere con occhio psicoanalitico, ci permette di difenderci dalla troppa sofferenza e di porci nella situazione mentale di sentire ed indurre, nonostante tutto, speranza.

E' forse superfluo, in questo contesto di comunicazione, ricordare come, sia la psicoanalisi delle origini che quella successiva, legge ciò che accade nella psiche degli individui che costituiscono gruppi di combattimento. Possiamo accennare agli eventi più importanti: la regressione a fasi di funzionamento infantile con le difese corrispondenti più primitive come la proiezione del male nel nemico, la negazione del pericolo e della paura, l'identificazione nel comandante e nell'invulnerabilità del gruppo, l'eccitazione molto alta che difende dal pericolo della compassione, il passaggio all'atto di gruppo in cui l'aggressività persecutoria potrà togliere i freni per l'esecuzione di trucidezze impensabili ecc.Ma ciò non è evidente a tutti; invece possono saltare agli occhi altri segni: la guerra può essere vissuta per lunghissimo tempo come gioco e come lavoro e rendere contenti; chi in guerra non vorrebbe proprio esserci, come molti di noi qui a guardare ad Oriente, non fa che occuparsi delle guerre altrui con godimento. E' stupefacente la banalità e ripetitività di queste ricorrenze.

C'è un bellissimo film/documentario francese sul comandante Massud capo dei mujaheddin che racconta per immagini e interviste un ventennio di battaglie tra le montagne afgane. E' notevole l'impatto con l'aria apparentemente felice di uomini che dovrebbero essere distrutti da fatica e sofferenze. Si pensa: la guerra può rendere felici, se non fosse così non sarebbe preferita ad altre soluzioni. Ad un soldato viene chiesto: "Perché combatti?" "Non lo so, lo sa il comandante".

Se la guerra perdura vuol dire che ci sono ragioni psichiche dell'essere mano, più forti di ogni apparentemente ragionevole modalità di pensare ed agire con altri strumenti e questo vediamo nei miti e nella realtà. E' anche più facile che questo avvenga dove i bambini crescono tra le bombe e il lavoro quotidiano fondamentale è quello di combattere. Però in mezzo al fumo e agli scoppi ci sono altri intrighi; il gioco della guerra totalmente agito in campo di battaglia si avvia a trasformarsi in scambio di denaro e uomini.

Ho sentito raccontare che c'è un gioco permesso tra le tribù afgane, in cui, non il pallone viene conteso ma il corpo decapitato per l'occasione di una capra (non ho mai visto un esempio più eclatante di lotta per il possesso dell'oggetto primario). Ma nel momento in cui ci si scambia denaro invece che pugnalate, la più primitiva violenza e paura ha una sosta.

Guardando il documentario/film sopraccitato altre cose mi colpivano oltre l'apparente o reale vitalità e gioia di vivere dei combattenti e la loro capacità di trovare momenti per la musica, la poesia, la convivialità: che tutto questo non era diverso nei racconti che mi è capitato di leggere sulle guerre partigiane in Italia; lo stesso piacere di segnare il territorio, di conquistarlo al di là della sua importanza e l'esclusione totale dell'elemento femminile anche se il cibo viene confezionato, servito, dove quando non si sa; un accudimento assicurato e invisibile (come non vedere la fiducia che la mamma ci sarà sempre a proteggerci ma visibilmente solo quando vogliamo noi?).

Ma 20 anni di guerriglia possono anche stancare e rendere meno esaltante la guerra per chi sopravvive. Come la droga dopo parecchi anni. Nell'ultima intervista del comandante Massud, prima di essere assassinato, a settembre scorso, Massud si ricorda dell'analfabetismo delle donne e delle armi della cultura.

Quando succede questo? Quando l'imperituro gioco della guerra ha perso la tensione iniziale, quando la stanchezza dei gruppi che si affrontano rischiano di far scivolare tra gli individui la depressione. Il capo fa un sogno "politico" e ora un articolo ci racconta delle trasformazioni della lotta, dei tentativi di vendere e comprare uomini. Vuol dire che il gioco con i soldi sarà meno cruento?, Sì, sebbene possa essere terribilmente crudele.

La psicoanalisi ci insegna che tutta l'area degli scambi economici, in una gamma assai grande di variabilità qualitativa, è supportata da un funzionamento mentale che rivisita la fase anale dello sviluppo infantile. La variabilità qualitativa vuol dire che si può trovare in persone diverse una capacità di simbolizzazione inesistente o molto raffinata, però l'opposizione è ugualmente dominante. Soltanto che la violenza viene pensata ed agita con modalità meno totalmente distruttive; invece delle bombe, qualcosa che ricorda la materia fecale, per l'occasione rivestita di lucentezza e seduzione: il denaro, cui è comunque attribuito qualità di salvezza ed onnipotenza.

Poter pensare con Freud che ogni esplosione della pulsione di morte possa avere una tregua, che ci sia una maggior capacità individuale e collettiva di simbolizzazione, che diversi intrecci tra le forze di costruzione e riparazione e la tentazione di distruggere e morire si rendano visibili, ci permette di cercare nella ripetizione degli eventi la possibile unicità dei percorsi evolutivi.

Alla ricerca della verità

La notizia
Uccisa in un agguato l'inviata del Corriere della Sera
La Repubblica, martedì 20 novembre 2001

Il commento
Per tutta la settimana si sono susseguiti sui giornali titoli che riportavano la notizia della morte di tre giornalisti, fra cui un'italiana, uccisi in un agguato in Afghanistan. Molti i commenti dei mass-media, molta la partecipazione emotiva e le lettere di sgomento e cordoglio pervenute alle redazioni dei giornali. Un giornalista, alla radio, si chiedeva se saremmo stati ugualmente scossi se si fosse trattato della morte di persone che svolgevano un tipo di lavoro completamente diverso (un ingegnere che costruiva una diga, un operaio caduto da un impalcatura…). Anch'io mi sono ritrovata dolorosamente turbata. Che cosa colpisce di questo avvenimento?

Certo colpisce che si tratti di una donna; di una donna andata in un paese dalla cultura così diversa da quella occidentale. Per il potere degli stereotipi ci appare insolito che sia una donna ad essere inviata di guerra, ad essere disposta a rischiare la propria vita, in nome di una funzione conoscitiva di solito prettamente maschile: sarebbe più normale pensarla in redazione ad attendere ed accogliere notizie raccolte da altri. Colpisce questa donna alla ricerca della verità su un conflitto e su un popolo che ci porta vertiginosamente indietro, come un'improbabile macchina del tempo, e che ci mostra stratificazioni di vestigia di un tempo fatto solo di guerre e di miseria che imprigiona e anestetizza intrecciandosi intreccia con l'indifferenza colpevole dell'occidente. Alla ricerca della verità su una misoginia inaccettabile, che in una donna può risvegliare millenni di rifiuti paterni… Alla ricerca della verità sui conflitti economici che si celano dietro a tutta questa miseria…

C'è dunque l'ammirazione (che poi però finisce di delegare ad altri) nei confronti di coloro che sono disposti a porsi domande, a mantenere viva la curiosità conoscitiva, a saper attingere, ormai adulti, a quella capacità, propria dell'infanzia, di porsi di fronte alla realtà in modo curioso, creativo, non dando mai nulla per scontato e senza preoccupazioni circa l'eventuale natura sconveniente delle loro domande e circa le eventuali conseguenze.

Il vedere che c'è ancora qualcuno disposto ad essere curiosamente creativo non va forse a risvegliare quel bambino -a volte troppo "normalizzato"- che si trova in ognuno di noi? Questa giornalista non faceva forse per conto nostro domande che da tempo avevamo rinunciato a fare? Perché quell'occhio "infantile", nella maggior parte di noi adulti rinuncia all'appassionata ricerca? Certo se nel faticoso lavoro della crescita siamo stati spinti ad un adattamento alle regole che poco ha tenuto in considerazione i nostri bisogni di bambini e troppo le esigenze dell' "ambiente", molto probabilmente sapremo essere acquiescenti alle richieste di adeguamento sociale, ma purtroppo a scapito di una capacità di stupirsi, emozionarsi e sentire il desiderio di comprendere ciò che stiamo vivendo.

Per non perdere la speranza di poter continuare a porci domande, la morte della giornalista ci obbliga ad interrogarci sui rischi (non solo fisici, ma anche emotivi) che questo comporta. Alcuni, infatti, potrebbero obiettare che sapeva del pericolo, che nessuno l'aveva costretta. Forse è un rischio anche astenersi e sopravvivere scivolando in una sorta di anestesia delle emozioni.

A questo punto vale la pena chiederci quali possono essere le motivazioni che spingono alcune persone a scegliere professioni da "prima linea" in cui si è messo in conto un prezzo alto da pagare. Non penso solo ai giornalisti che con il loro lavoro consentono agli altri, fornendo notizie, di sapere, di formarsi un'opinione, ma anche a quelle professioni che ci riguardano più da vicino in quanto prevedono il prendersi cura dell'altro.

Per cercare di capire, è necessario ripensare al bisogno originario del bambino di essere considerato e preso sul serio per quello che è di volta in volta, e per quello che fa. Se il genitore, quando era bambino, non ha fatto quest'esperienza, non potrà nemmeno offrire al proprio figlio un rapporto in cui interessarsi a lui, comprendendolo e accudendolo per quello che è e non per quello che può rappresentare. Cioè il rischio di incarnare il desiderio del genitore di realizzarsi attraverso il figlio. Le parti saranno invertite e il figlio, dipendendo in tutto e per tutto dal genitore, non potrà fare a meno di rispondere alle richieste, sostituendosi a lui nella posizione di sostegno e di ascolto. Avrà quindi il compito di supportare il genitore, di ascoltarlo, di rispondere ai suoi bisogni. Nel bambino si affineranno così quelle caratteristiche particolari, quella capacità d'ascolto, d'attenzione ai bisogni altrui che lo porterà poi, da adulto, ad adattarsi ancora ai bisogni degli altri scegliendo una delle cosiddette professioni di aiuto.

Il ripensare alle motivazioni delle proprie scelte, non solo professionali, potrebbe essere anche questo un modo per cercare un pezzo di verità, una parte delle nostre determinanti più profonde.

Tutti cerchiamo delle verità: giornalisti, pazienti, medici, ministri… Quando qualcuno si fa carico di questa ricerca, siamo manlevati da una responsabilità faticosa ed importante. E siamo poi anche molto coinvolti quando qualcuno paga con la vita il prezzo di una ricerca ineludibile per l'essere umano: un prezzo che noi ci siamo risparmiati.

L'alto prezzo dell'emotività negata

La notizia
E il medico diventa cinico. Ti rende cinico, quasi ''staccato'' dalla realtà emotiva che ti circonda. E ti fa diventare così ''cattivo'' da scaricare sugli altri, siano essi collaboratori, amici o ''utenti'' di quanto stai facendo, le tue frustrazioni. Convegno a Genova per studiare il fenomeno del Burn Out, il prezzo dell'aiuto agli altri.
''Il Secolo XIX, venerdì 9 novembre 2001

Il commento
E' la sindrome del Burn Out: può accadere a persone che si occupano degli altri a livello psicologico e sociale come medici, infermieri, insegnanti, magistrati, sacerdoti, psichiatri e psicologi. Chi decide di intraprendere queste professioni spesso ha motivazioni profonde che possono rimanere sconosciute al soggetto in questione. Tali motivazioni nascono e si sviluppano lungo l'arco della vita e in conseguenza delle proprie esperienze personali, in particolare all'interno della famiglia d'origine. Il desiderio di occuparsi di altri esseri umani può dunque derivare da un'abitudine acquisita fin da bambino a porsi come soggetto che ascolta e soccorre il genitore, per tale ragione rinforza in quest'ultimo lo statuto di individuo diventando una sorta di specchio nel quale egli può riconoscersi. Il sentirsi così importante nel farsi carico di questa funzione, pur nell'enorme presa di responsabilità, porta il bambino a sostenere l'adulto piuttosto che essere da lui sostenuto e riconosciuto, nel tentativo disperato di essere da amato.

Quando si diventa a propria volta adulti si può tendere a perpetrare questo modello, a farsi contenitore delle richieste e delle angosce altrui, oltreché dei bisogni fisici e psicologici. Nell'altro però può essere proiettato il nostro stesso bisogno, in noi non riconosciuto, negato e quindi scisso. L'illusione può renderci persone che "al di qua della barricata" si occupano di chi ha bisogno "al di là" dove chi è debole, fragile, malato o bisognoso di aiuto e di cure ci chiede qualcosa e dove noi ci sentiamo forti e in grado di dargliela.

Il non riconoscere però che anche noi possiamo essere individui estremamente bisognosi perché ciò può portarci a percepire anche la nostra fragilità e dipendenza arriva a farci sentire molto soli, nel tentativo di "curare" negli altri quello che non riconosciamo in noi stessi.

A questo punto però la richiesta di aiuto, il grido angosciante di chi non ammette deroghe ci risulta estraneo, pressante, persecutorio; sembra che una violenza invadente si appropri di noi non lasciando nemmeno lo spazio per pensare, per vivere i propri affetti, per elaborare i propri stati d'animo.

Il tentativo di attuare una difesa, di affermare che tutto questo dolore riguarda l'altro, malato o bisognoso di cure e d'attenzione ma non noi, può stare nel trasformarsi in esseri estranei a quanto stiamo vivendo, staccati dalla realtà emotiva vissuta come pericolosa. Il lavoro, allora, può essere svolto in modo automatico, a volte anche in maniera efficiente, purché la realtà emotiva non sia percepita, purché l'anestesia che ci procuriamo ci preservi da quegli stati d'animo che temiamo.

Questa posizione risulta essere, specialmente su tempi lunghi, estremamente limitante per l'individuo che la vive: essa porta a negare la percezione emotiva di buona parte delle esperienze che ci circondano, quindi a sentirci estranei, al di fuori del contatto con la realtà che si sta vivendo, quasi alienati.

Sembra una vita in cui sia difficile o impossibile apprendere dall'esperienza che pure stiamo vivendo: anche la nostra stessa facoltà di percepire stimoli emotivi diventa impoverita; la possibilità di imparare dagli altri sembra spegnersi ogni giorno di più, è "un morbo invisibile che può assumere le sembianze di una depressione invincibile ed è comunque difficile da curare".

Allora la risposta può trasformarsi in efficienza sul lavoro, in fatica estrema ed estrema solitudine: l'onnipotenza di chi si occupava degli altri malati e bisognosi diventa impotenza, disperata rinuncia a cambiare qualcosa, senso di sconfitta.

Gli "utenti" con le loro richieste diventano portatori di istanze che sembrano annientarci; sconosciute e pericolose esse ci rimandano il limite, la finitezza che è propria di ogni essere umano ma anche la frustrazione di sentirci quasi paralizzati di fronte a certi eventi che sembrano ripetersi sempre uguali.

Nel tentativo di difenderci da tanta angoscia della quale possiamo non capire l'origine ma che ci viene chiesta di contenere possiamo, allora, scaricare sugli altri le amarezze e il malumore: e se il problema non viene curato, nel momento in cui l'individuo diventa "capo" riproduce sui sottoposti la sua tensione creando un ambiente di lavoro invivibile.

Diventa visibile in questi stati come l'individuo chieda agli altri di farsi carico al suo posto dell'ansia che prova: qualcuno che sia in grado di contenere la delusione e la rabbia vissuta e in questo modo limitare e dare un senso, pur illusorio, a ciò che così pesantemente si vive.

Ma quale può essere la risposta, quale il lavoro da fare per impedire di essere colpiti dal "morbo invisibile" del Burn Out? La risposta può forse trovarsi in una maggiore conoscenza di sé, dei propri bisogni ed emozioni al fine di comprendere che esse possono accomunare tutto il genere umano pur se a livelli quantitativi diversi.

Conoscendo ciò che ci contraddistingue nel profondo non saremo tentati di negarlo e di vederlo solo negli altri come qualcosa che può attaccare e distruggere la nostra individualità.