Questo sito utilizza cookie, anche di terze parti, per migliorarne l'esperienza di navigazione e consentire a chi naviga di usufruire dei nostri servizi online. Se prosegui nella navigazione acconsenti all'utilizzo dei cookie.
Per maggiori informazioni leggi la privacy policy e la cookie policy presenti nel sito.

Scuola magistra vitae?

La notizia
Scuola, primo giorno tra le ansie da G8 e i venti di guerra. Il ritorno tra i banchi dopo l'estate più difficile. I consigli del poeta docente prof. Sanguineti: ''Cari professori, fate uscire l'angoscia dei ragazzi''. Ora la ''Diaz'' chiede silenzio, ma i suoi muri parlano ancora.
''La Repubblica'' del 18 settembre 2001

Il commento
Nell'accingermi a commentare questa settimana un fatto di cronaca, mi è sembrato da un lato impossibile non Questi, con molti altri ancora, alcuni titoli apparsi sui quotidiani di questa settimana, per raccontare e commentare che nell'arco di una decina di giorni, con date diverse per ogni realtà, ha dunque preso il via un nuovo anno scolastico.

Però, articoli e commenti non sono stati questa volta i soliti ritornelli degli altri anni, rivolti a mettere in luce novità, aspetti organizzativi, disfunzioni, risse sindacali, tutto un insieme di attese o di delusioni intrinseche al mondo scolastico stesso: i tragici avvenimenti internazionali di questa estate 2001 hanno fatto come da filtro alla lettura del rientro a scuola, dando lo spunto, particolarmente a Genova, sede del ben noto G8, per riflettere sul mondo giovanile e sull'istituzione scuola, che tanto investimento di tempo ed esperienza rappresenta per i ragazzi.

Ho avuto l'impressione che la portata e la gravità di quanto accaduto sia stata tale da costringere il mondo adulto delle istituzioni e dei mass media a pensare che, questa volta, non è possibile sorvolare, fare finta di niente, non parlare con bambini, ragazzi, giovani, di quanto è appena accaduto in Italia e negli Stati Uniti e di quanto, probabilmente, ancora deve accadere, impossibile non fare i conti con lo stupore, lo spavento, l'angoscia che senz'altro c'è e ci sarà nei loro sguardi e nelle loro domande.

Mi è sembrato cioè che, contrariamente al solito, sia emersa la necessità che nel pianeta scuola si debba dare spazio al mondo delle emozioni e dell'affettività, il ruolo della quale impregna e condiziona tutto ciò che nella scuola si compie ogni giorno, da come si insegna, si studia, si vivono le relazioni; la scuola è un grande contenitore di esperienze emotive, individuali, di gruppo, di incontro tra generazioni diverse, ma quasi mai tutte queste dinamiche, così fondamentali per permettere di studiare e di stare bene a scuola, diventano oggetto di riflessione.

Quest'autunno, invece, appare proprio impossibile, persino al Ministro della Pubblica Istruzione (La Stampa, 18 settembre 2001: "Studenti, non chiudetevi in voi, parlate in classe del terrorismo" riferisce del messaggio inviato dal Ministro via Internet a tutti gli studenti italiani) dimenticare che gli aspetti emotivi dell'individuo, fatti emergere e messi in gioco, possono dare colore e vita ad un ambiente quasi sempre vissuto in bianco nero e con noia.

Il complesso scolastico di Genova che tutti i giornali nazionali chiamano "la scuola Diaz" è formata in realtà da più edifici che ospitano una scuola materna, una elementare, una media e una superiore, perciò le immagini di aule devastate, palestra imbrattata, strade piene di poliziotti e giovani portati via sanguinanti…sono diventate la rappresentazione simbolica di altre aule, palestre, strade per bambini e ragazzi dai tre ai diciannove anni, che hanno senz'altro provato reazioni di ogni tipo, dalla curiosità alla paura, al desiderio di non sapere o invece, al contrario, di capire, pur con maturità emotiva e capacità di comprendere evidentemente diverse.

Farsi domande ed apprendere è una delle attività più naturalmente connesse all'animo umano, per uscire dalla confusione e dalla sofferenza provocate dall'impatto con la realtà esterna, dinamica che si attua fin dai primi giorni di vita dell'individuo, quando matura la capacità stessa di pensare. Questa è sempre condizionata dal contesto dell'area relazionale, cioè, per esempio, dalle sensazioni che il neonato vive rispetto all'essere accolto, contenuto, amato; da allora in poi sfera affettiva e sfera cognitiva si integrano e vanno di pari passo nello sviluppo dell'individuo.

Infatti, come R. Meltzer afferma (Meltzer - Harris Il ruolo educativo della famiglia, Centro Scientifico Editore) "…l'apprendimento comporta la partecipazione ad una esperienza emotiva tale da indurre un cambiamento nella struttura della personalità…", perciò è come se l'individuo "diventasse" qualcosa che prima non era, nel senso che imparare qualcosa colora ciò che egli è, pensa, decide, fa. Tutti noi viviamo la nostra esistenza a seconda di quanto abbiamo appreso, a partire dai riferimenti e dai valori familiari, a quelli sociali, culturali, etici, religiosi.

Ogni esperienza cognitiva è un processo che fa entrare nella mente degli elementi nuovi ai quali bisogna trovare spazio e connessioni con quanto già presente, che va rivisitato alla luce delle nuove conoscenze: in un certo senso, ci vuole del coraggio per imparare ( e probabilmente anche per insegnare, cioè per accompagnare chi affronta questo difficile percorso di continua rimessa in discussione di sé!).

Imparare vuole dire quindi anche reggere l'ansia di coesione e di continuità del proprio io di fronte alla necessità di integrare le nuove conoscenze, di effettuare una ristrutturazione mentale interna, mentre il mondo delle pulsioni, dei desideri e delle difese alimenta e condiziona questo processo, in un certo senso le rifiuta, per non fare la fatica di rimettere in discussione l'equilibrio già acquisito.

Giustamente perciò, mi sembra, il poeta Sanguineti in questo esordio di anno scolastico esorta gli insegnanti "a far sì che i ragazzi parlino" per fare uscire la loro angoscia, pongano domande, confrontino le loro opinioni con quelle degli adulti, trovino riferimenti culturali da più punti di vista, per arrivare ad una loro strada personale, se non di comprensione almeno di accettazione, visto che capire davvero è in questo caso così difficile anche per noi adulti, che dobbiamo accompagnarli in questo percorso. Importante è che l'ansia e l'angoscia non restino dentro, come ad "intasare" in un certo senso il flusso della capacità di comprendere, di accettare, di pensare.

Possiamo immaginare che alla luce di questi gravi avvenimenti mondiali, con la minaccia di atti di guerra contro un nemico che appare soprattutto come indefinito ed invisibile, la mente dei ragazzi possa essere già, in un certo senso, satura delle emozioni derivate da quelle immagini terribili, così troppo simili ad un videogioco, a tal punto che, davvero, se non si consente loro di esprimersi, di raccontarsi rispetto a quanto ascoltato e visto sulle torri di New York, o sui giorni del G8, non ci sarà modo poi di avviare un lavoro legato ai programmi scolastici, perché il divario emotivo tra le due esperienze rimarrà enorme.

Ancora di più allora stride quanto ci racconta un altro articolo: "Arrivano con tre minuti di ritardo, fuori il primo giorno" (La Repubblica 18/9/01): un preside ha scelto la "linea dura" fin dal primo giorno, chiudendo i cancelli di ingresso con la massima puntualità, stessa intransigenza su regole ed orari che comunque sembra attuata in molti altri istituti... immaginiamo quale sensazione di accoglienza, comprensione, collaborazione, possa essere stata veicolata da un cancello inesorabilmente chiuso, il primo giorno di scuola!

Nella nostra società i bambini e i ragazzi dai tre anni ai diciannove anni passano molto tempo a scuola per nove mesi l'anno, un tempo enorme, sul piano della quotidianità e dell'arco di vita, almeno della giovinezza. Eppure, si ha spesso la sensazione che sia un tempo sprecato: dal punto di vista cognitivo, perché le verifiche delle agenzie di statistica rilevano una sempre più vasta maggioranza di studenti "ignoranti", dal punto di vista relazionale perché sempre più spesso accadono nei luoghi scolastici episodi di malcostume e di violenza, infine dal punto di vista affettivo perché studenti ed operatori scolastici dichiarano malessere, frustrazione, insoddisfazione a tutti i livelli.

E i giovani aggiungono che i loro interessi stanno altrove, che le emozioni arrivano da altri stimoli, che parlano, forse, ma certamente quasi mai con insegnanti o con adulti di riferimento nella scuola, che ciò che trovano sui libri di testo e nell'esperienza scolastica è qualcosa di molto lontano e di diverso dal loro mondo e dal loro linguaggio.

Sappiamo inoltre che i giovani in età scolastica sono attraversati dall'oscillazione tra sollecitazioni estreme, dalla ricerca di risposte, valori, certezze che si pongano come assoluti, sappiamo perciò che essi tendono a semplificare e a radicalizzare i conflitti per placare l'ansia interna di dover trovare una mediazione, mentre il sapere, invece, è in se stesso, e per come viene presentato, molteplice, perciò opposto a questa tendenza alla semplificazione; appare evidente che drammatici episodi come quelli di Genova e di New York hanno bisogno di una grande pluralità di approcci culturali, per poter essere almeno inquadrati.

Allora, forse, ricominciare a studiare partendo da questi avvenimenti, può finalmente diventare un momento e un luogo per scoprire informazioni e fare riflessioni sulla storia, la politica, la filosofia, la religione, la letteratura, ma dentro un processo che possa permettere agli studenti, e ai loro insegnanti, di esprimere e di modificare lo spazio interno, le proprie convinzioni: studiare, finalmente, inteso come grande disponibilità interiore a farsi condizionare da ciò che si viene imparando con la propria curiosità intellettuale, a concedersi la possibilità di reggere e di formulare dei dubbi, sentendosi magari debole e insicuro su questo cammino, ma correndo il rischio di provare a chiedere aiuto e di farsi proteggere da chi sa, o sta scoprendo il sapere con noi. Studiare, ed insegnare, insomma, mettendosi in gioco.

Ma non è forse questa, da sempre e per sua natura, la funzione della scuola? Come mai ce ne ricordiamo solo di fronte ad avvenimenti così tragici?

Educare è compito degli adulti nei confronti delle generazioni che seguono, ma, come dice l'etimologia stessa, educare significa anche aiutare a far emergere gli aspetti e le attitudini interiori, piuttosto che introdurre modi, spiegazioni e poi, a scuola, nozioni. Per questo fin dall'infanzia il bambino va educato all'affettività, cioè alla scoperta e all'uso del suo mondo emotivo, dei suoi bisogni, desideri, rabbie, affetti: consentendogli di farne esperienza all'inizio, poi, via via, di esprimere tutte le emozioni, in una relazione di accoglienza, di tolleranza, di ascolto.

Sempre secondo R. Meltzer, nel suo processo di sviluppo l'individuo incontra diverse modalità di apprendimento, alcune vicine alle tendenze più primitive del funzionamento della mente, in un certo senso più "facili" perché non la costringono a soffrire per esercitare la capacità di pensare; per es., la tendenza ad imitare l'altro, per invidia verso le sue doti, badando ai ruoli sociali o ai comportamenti, ma non alle capacità per esercitarli, oppure l'adesione meccanica alle modalità richieste da chi insegna, che inducono alla sottomissione e quindi sono foriere di ribellione.

Solo con un cammino difficile e doloroso, che implica la continua messa in discussione di sé, si arriva ad avvicinarsi agli avvenimenti, agli argomenti, ad osservare la realtà tutta, in modo da attivare la propria capacità di pensare e produrre quindi idee, pensieri, atti creativi, in grado di trasformarci o di cambiare la realtà.

Sembra che, purtroppo, solo questi avvenimenti di portata mondiale, così sconvolgenti da scuotere le coscienze, abbiano costretto il mondo degli adulti a riflettere su come la scuola, troppo spesso, funzioni su quelle tendenze meno avanzate della mente umana, quelle che non producono pensiero, ma che mantengono la scuola ingabbiata nei programmi, nei ritmi di apprendimento, verso obiettivi spesso formali o di superficie. Davvero oggi, al contrario, appare inderogabile sforzarsi tutti, individui ed istituzioni, di esercitare la nostra possibilità di pensare.

Tempo di guerra

La notizia
Giustizia infinita. Parte l'operazione militare USA: cento aerei nel golfo.
''La Repubblica'' del 20 settembre 2001

Il commento
Nell'accingermi a commentare questa settimana un fatto di cronaca, mi è sembrato da un lato impossibile non dare spazio al dramma americano, fatto che sta sconvolgendo il mondo; dall'altro lato mi sembra altrettanto inopportuno -anzi presuntuoso- intervenire su un tema che è oggetto di discussione in maniera capillare e senza soluzione di continuità.

E' anche vero però che nonostante l'equilibrio, la competenza, la buona volontà che media, scienziati, politici e strateghi stanno dimostrando, si ha comunque la sensazione di essere entrati tutti in un'enorme -a proposito di globalizzazzione- dinamica di gruppo dove la guerra si dà troppo per scontata e dove appaiono molto chiaramente alcuni meccanismi di assorbimento delle conflittualità, fenomeno proprio delle situazioni di guerra, e dove la ripetizione incessante delle immagini sembra fissarci in una dimensione ineluttabile di sospensione da cui solo la decisione bellica può liberarci.

Per uscire dall'impasse ho pensato di riproporre tout court una sorta di florilegio da alcuni lavori sul tema della guerra di uno psicoanalista esponente della scuola inglese cresciuta intorno a Melanie Klein (1898 - 1980), Roger Money-Kyrle, perché morto più di vent'anni fa, perché ha combattuto nell'aeronautica militare, perché particolarmente interessato ad una psicoanalisi capace di confrontarsi con la dimensione antropologica e sociale, perché modesto ed equilibrato. Per quanto un po' datato, mi sembra una testimonianza ancora assolutamente valida, essendo consapevole lui stesso della necessità evolutiva delle teorie scientifiche e della poliedricità delle determinanti etiologiche di quella malattia umana chiamata "guerra".

Ai brani tratti dagli scritti di Money-Kyrle ho pensato inoltre di inframmezzare alcune suggestioni poetiche in quanto, come sappiamo, i poeti sono in grado di comunicare in una dimensione assolutamente sincretica concettualizzazioni complesse che travalicano le teorie ma che raggiungono per vie dirette la coscienza.



EPITAFFIO, TEMPO DI GUERRA
Si è schiantato un cielo di ferro
Su questa statua tenera.

Margherite Yourcenar (1943)


In Un'analisi psicologica delle cause della guerra (1934) Money-Kyrle dice che molte e differenti sono le teorie che sono state avanzate circa l'origine della guerra. Ciascuna rappresenta una porzione di verità e può servire a spiegare qualche guerra, altre possono servire quali indicazioni per qualunque guerra. Comunque tutte le teorie comprendono sia dei fattori precipitanti che dei fattori predisponenti o costituzionali. In quella malattia sociale che è la guerra molti possono essere i fattori precipitanti: "ad esempio, gli assassini politici o il fatto di avere un esercito così grande da disturbare i propri vicini o così piccolo da essere tentati di ignorarlo. Questo può essere paragonato all'andare fuori quando piove e dimenticarsi l'impermeabile. Rimane tuttavia la predisposizione costituzionale. Quelli che non amano il pacifismo spesso dicono che il combattere è proprio della natura umana e che la natura umana non si può cambiare".

Ma questo è vero? E qual è l'apporto della psicoanalisi alla comprensione delle cause della guerra?

"Che l'uomo allo stato naturale sia un animale aggressivo è sempre stato abbastanza ovvio. Era anche chiaro che l'uomo civilizzato potesse ridiventare selvaggio anche troppo facilmente per salvaguardare la sicurezza sua o di altri. Ma quello che non si sapeva era che gli impulsi distruttivi, che esplodono in guerra, sono sempre presenti nella nostra mente a livello inconscio. Noi non ne sappiamo niente perché sono rimossi (o scissi), ma esistono e sono pronti a erompere".

LE CASE E I MONDI
Occhi aperti delle case ammiccanti nell'ombra chiara,
tuguri dagli occhi avvinazzati, ospizi dagli occhi ingialliti,
case piene d'orrore, di dolcezza, di collera,
dove il delitto ha la sua tana, dove il sogno ha i suoi nidi.

Sotto il fardello di un cielo che non è più protezione,
case dei pugni alzati, case delle dita strette;
i globi freddi delle notti sotto l'orbita polare
rimuginano meno segreti nei loro occhi infiniti.

Arronzati qua e là dal volere dei venti contrari,
voi vivete, voi morrete; io penso a voi, miei fratelli,
il povero, il malato, o l'amante, o l'amico.

I vostri cuori hanno i loro tifoni, i loro mostri, le loro
Algebre,
ma nessuno, sporgendosi, vede nelle vostre tenebre
gravitare sordamente tutto un mondo addormentato.
Margherite Yourcenar (1930)


"Se siamo in grado di riconoscere questo, cominceremo a capire una delle ragioni per cui le guerre avvengono così frequentemente anche quando tutti sembrano cercare di prevenirle. Siamo gente che va in giro senza sapere che ha le tasche piene di dinamite. Più ci rendiamo conto di questo e più diventeremo capaci di prendere tutte le precauzioni possibili." Sublimiamo quindi gli impulsi distruttivi nel lavoro e nello sport ma questi impulsi possono sempre manifestarsi in qualche modo, o trasformati in istanze autodistruttive (ci sentiamo irritati e depressi -è questa l'origine della depressione), oppure possiamo proiettarla, gettarla fuori di noi, non riconoscerla ed attribuirla all'altro. Penserò quindi che sono gli altri a volermi aggredire e sarò tormentata da sospetti ingiustificati. Alla fine "l'aggressività inconscia può emergere in forma diretta e il pacifico cittadino può diventare consapevole del suo desiderio di uccidere. Ma prima che questo accada la sua normale coscienza deve essere modificata; egli deve credere di avere una giusta causa. Questo cambiamento avviene nell'omicida maniacale, convinto che il suo crimine non solo sia giusto, ma sia un vero dovere. Un cambiamento del genere avviene in persone completamente normali durante la guerra. … Questi meccanismi possono anche non influenzarci molto come individui, ma possono avere un grande impatto su di noi come membri di uno stato."

UOMO DEL MIO TEMPO
Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
- t'ho visto - dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T'ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero

gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
quando il fratello disse all'altro fratello:
"Andiamo ai campi". E quell'eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.
Salvatore Quasimodo (1947)


Money-Kyrle introduce il concetto di paranoia nazionale. "La psicologia di uno stato può diventare una caricatura della psicologia degli individui che lo compongono, in cui gli aspetti più pericolosi ed irresponsabili vengono accentuati e quelli più sani e prudenti vengono annullati. Per lunghi periodi una nazione può essere pacifica, contenta. Poi si verifica un cambiamento e una nazione sviluppa tutti i sintomi di qualche follia ben nota. In particolare, può diventare paranoide, cioè soffrire di deliri di persecuzione. Il singolo individuo pazzo è sospettoso in maniera irrazionale, perché proietta la sua aggressività inconscia sui propri vicini. Il cittadino normale è troppo sano per fare questo. Ma egli pure ha una carica di aggressività inconscia e difficilmente si può impedirgli di proiettarla sugli stranieri, specialmente su quelle personificazioni astratte degli stranieri chiamate ' potenze straniere '.

COLORE DI PIOGGIA E DI FERRO
Dicevi: morte silenzio solitudine;
come amore, vita. Parole
delle nostre provvisorie immagini.
E il vento s'è levato leggero ogni mattina
E il tempo colore di pioggia e di ferro
È passato sulle pietre,
Sul nostro chiuso ronzio di maledetti.

Ancora la verità è lontana.
E dimmi, uomo spaccato sulla croce,
e tu dalle mani grosse di sangue,
come risponderò a quelli che domandano?
Ora, ora: prima che altro silenzio
Entri negli occhi, prima che altro vento salga e altra ruggine fiorisca.

Salvatore Quasimodo (1946-48)


E' anche un grande sollievo per il cittadino trovare degli oggetti distanti per la sua indignazione latente; e la stampa, naturalmente, è esposta alla forte tentazione di soddisfare questa richiesta. … Io non credo che nessuna nazione moderna abbia iniziato una guerra senza che la maggioranza dei suoi cittadini credesse nella giustizia della propria causa. L'aggressività rimossa è presente, naturalmente; ma la coscienza civilizzata deve essere soddisfatta prima di permetterle di emergere. Il sospetto stesso fornisce il pretesto di una giusta causa. Come l'individuo paranoico che diviene omicida, così la nazione paranoica può iniziare una guerra che onestamente ritiene necessaria per la propria autodifesa. Quello che originariamente era un sospetto ingiustificato aiuta a creare proprio quella catastrofe che si desidera evitare". La paura sembra essere la prima causa della guerra!

PERCHE'?
Ha bisogno di qualche ristoro
il mio buio cuore disperso

Negli incastri fangosi dei sassi
come un'erba di questa contrada
vuole tremare piano alla luce

Ma io non sono
nella fionda del tempo
che la scaglia dei sassi tarlati
dell'improvvisa strada
di guerra

Da quando
ha guardato nel viso
immortale del mondo
questo pazzo ha voluto sapere
cadendo nel labirinto
del suo cuore crucciato

Si è appiattito
come una rotaia
il mio cuore in ascoltazione

ma si scopriva a seguire
come una scia
una scomparsa navigazione

Guardo l'orizzonte
Che si vaiola di crateri

Il mio cuore vuole illuminarsi
come questa notte
almeno di zampilli di razzi

Reggo il mio cuore
che s'incaverna
e schianta e rintrona
come un proiettile
nella pianura
ma non mi lascia
neanche un segno di volo

Il mio povero cuore
sbigottito
di non sapere
Giuseppe Ungaretti (1916)


Una volta che la guerra è scoppiata, le ultime tracce di sanità scompaiono. La tendenza al sospetto è stimolata dalla propaganda. Subito ogni parte attribuisce ai suoi nemici i crimini più atroci e inverosimili, cosicché ciascuno commette veri oltraggi per vendetta. L'individuo sembra perdere la sua individualità e viene sommerso dal gruppo. La coscienza privata, che nega i massacri umani, viene sostituita da una coscienza di gruppo che invece li ordina. Il cittadino pacifico scopre improvvisamente che ha sviluppato un desiderio di uccidere e, allo stesso tempo, come per una specie di compensazione, è pronto ad essere ucciso per la patria. Si sente esaltato; l'emergenza di questi impulsi dall'inconscio gli danno un vero sollievo. Questa, penso, è la ragione per cui la febbre di guerra si diffonde così rapidamente. Guerre prolungate producono naturalmente molte nevrosi, le cosiddette psicosi traumatiche (in seguito a bombardamenti). Ma ci sono anche nevrosi da pace, dovute alla repressione dell'aggressività, che vengono curate dalla guerra. L'individuo non si sente completamente bene fintanto che i suoi impulsi distruttivi rimangono repressi. Come ho detto, spesso questi vengono rivolti contro l'individuo stesso, causando frustrazioni e producendo un senso di inferiorità e un sentimento di depressione. … Inoltre la guerra offre possibilità di auto sacrificio, oltre che di aggressione diretta. Sebbene sia difficile ammetterlo in un'epoca razionale come la nostra, molti di noi avvertono un bisogno interno di sacrificare se stessi. Il mondo deve la maggior parte dei suoi progressi a questo impulso; e che questo possa venire così facilmente utilizzato in guerra è una delle tragedie della natura umana. … Così la guerra libera, in vari modi, immense quantità di aggressività normalmente inconscia. La pazzia che ne consegue non si attenua finché i paesi coinvolti non sono completamente sfiniti."

FIGLI DELL'EPOCA
Siamo figli dell'epoca,
l'epoca è politica.

Tutte le tue, nostre, vostre
faccende diurne, notturne
sono faccende politiche.

Che ti piaccia o no,
i tuoi geni hanno un passato politico,
la tua pelle una sfumatura politica,
i tuoi occhi un aspetto politico.

Ciò di cui parli ha una risonanza,
ciò di cui taci ha una valenza
in un modo o nell'altro politica.

Perfino per campi, per boschi
fai passi politici
su uno sfondo politico.

Anche le poesie apolitiche sono politiche,
e in alto brilla la luna,
cosa non più lunare.
Essere o non essere, questo è il problema.
Quale problema, rispondi sul tema.
Problema politico.

Non devi neppure essere una creatura umana
per acquistare un significato politico.
Basta che tu sia petrolio,
mangime arricchito o materiale riciclabile.
O anche il tavolo delle trattative, sulla cui forma
si è disputato per mesi:
se negoziare sulla vita e la morte
intorno a uno rotondo o quadrato.

Intanto la gente moriva,
gli animali crepavano,
le case bruciavano
e i campi inselvatichivano
come in epoche remote
e meno politiche.
Wislawa Szymborska (1986)


Le più importanti cause costituzionali della guerra sono dunque innanzitutto la presenza di impulsi distruttivi inconsci. Poi c'è la tendenza a proiettare questi impulsi dando luogo alla paranoia nazionale. In terzo luogo, ci sarà il pericolo che questi sospetti finiscano di produrre una giustificazione per l'esplosione di impulsi distruttivo-paranoicali e determinare una guerra.

Dice Money-Kyrle in "Lo sviluppo della guerra " del 1937, parlando delle risultanti delle vicende edipiche: "Da adulto, la lealtà verso il proprio superiore o gruppo, come personificazione di un ideale, sarà bilanciata dall'odio per qualche altro capo o gruppo e per questa ragione sarà incline alla guerra. Sembra anche che il grado di venerazione per il proprio capo o paese sia direttamente proporzionale al grado di odio diretto contro i propri nemici. L'intensità con cui un Napoleone, un Mussolini o un Hitler sono idolatrati, dà la misura dell'ardore militante del loro popolo. … Un ulteriore risultato della scissione in due figure dell'immagine paterna è che gli dei di un popolo sono i demoni dell'altro… Quando invece accade che simboli in cui l'ambivalenza infantile ha scisso l'immagine paterna originale sono entrambi presenti nella stessa comunità, il risultato è una tendenza ad una guerra civile più che ad una esterna, o almeno ad una certa intolleranza in politica…C'è naturalmente un certo rapporto inverso tra guerra e rivoluzione: un aumento delle probabilità dell'una diminuisce le probabilità dell'altra, fatto ben noto ai dittatori che fomentano paure di guerra quando la loro popolarità nel proprio paese è in pericolo."

Inoltre, parlando dei meccanismi riparativi, dice: "Ciò che è nuovo è un'avversione conscia per la guerra… Se questo atteggiamento conscio riuscirà o meno a controllare i fattori inconsci è una questione che solo il futuro potrà decidere. Questa avversione conscia alla guerra è un prodotto di meccanismi riparativi. … Il timore inconscio di avere distrutto o danneggiato i nostri oggetti buoni nell'infanzia, suscita un forte desiderio di riparare il danno, il che è in gran parte l'incentivo per lavori costruttivi in generale e per attività pacifiste in particolare. Tuttavia, se conflitti interni, o eventi esterni, o una combinazione dei due, ci convincono della futilità dei nostri desideri di pace, finiamo col difenderci dalle autoaccuse convincendoci che i nostri oggetti buoni siano stati danneggiati non da noi, ma da oggetti cattivi sui quali abbiamo proiettato la nostra aggressività. E questi, tendiamo ad attaccarli nelle persone dei reali o presupposti nemici della pace -industrie di armamenti, capitalisti, bolscevichi, autocrati o nazioni straniere. Da questo punto di vista, la pace, con il suo lavoro costruttivo, è la condizione normale; la guerra, col suo improvviso scoppio di distruzione, un interludio abnorme dovuto al crollo su larga scala di funzioni riparative. Se, attraverso l'analisi o qualche altro metodo la nostra colpa inconscia, cioè la paura di aver danneggiato o distrutto i nostri oggetti buoni, venisse attenuata, avremmo più fiducia nelle nostre capacità riparative e, in particolare, il nostro pacifismo sarebbe più razionale e stabile".

SCORCIO DI SECOLO
Doveva essere migliore degli altri il nostro XX secolo.
Non farà più in tempo a dimostrarlo,
ha gli anni contati,
il passo malfermo,
il fiato corto.

Sono ormai successe troppe cose
che non dovevano succedere,
e quel che doveva arrivare,
non è arrivato.

Ci si doveva avviare verso la primavera
e la felicità, fra l'altro.

La paura doveva abbandonare i monti e le valli,
la Verità doveva raggiungere la meta
prima della menzogna.

Certe sciagure
non dovevano più accadere,
ad esempio la guerra
e la fame, e così via.

Quando il pensiero va in vacanza

La notizia
''Il vergognoso pasticcio di Genova ha offerto al mondo la tragicommedia di un grande paese in piena regressione, incartato in un mediocre e pericoloso spettacolo. Il risultato è che l'opinione dell' Economist, ostile e a tratti irridente verso l'Italia berlusconiana, ha fatto scuola. Non bisogna illudersi che l'opinione mondiale coincida con quella nazionale. Gli italiani preferiscono perdere le guerre che ammettere di essere stati fessi. Nel frattempo però a milioni di italiani è permesso il lusso di guardare allo spettacolo con sguardo europeo, disincantato, insensibile alla demagogia, impermeabile all'informazione servile, per quanto possibile ironico. Sono i vantaggi della globalizzazione ed in fondo, rispetto alla storia passata, non è un vantaggio da poco''.
La Repubblica del 17 agosto 2001

Il commento
Le considerazioni di Curzio Maltese -giornalista che stimo e a cui sono particolarmente grata quando si schiera coraggiosamente contro le multinazionali farmaceutiche e la troppo facile propaganda in favore degli psicofarmaci quali attenuatori di coscienza- mi suscitano una sequenza di osservazioni che vorrei tentare di organizzare nel modo meno frammentario possibile.

Maltese parla dunque della possibilità di fruire di una visione "binoculare" -la critica del mondo politico-culturale europeo da un lato e i "fatti" e i "commenti", più o meno culturali o più o meno propagandistici, provenienti dallo Zeitgeist locale- possibilità che la "maggioranza" degli italiani sembra incapace di utilizzare per un'analisi sufficientemente obiettiva di quelle che sono le speranze e le attese emotive da un lato, e le realizzazioni effettive dall'altro.

Poiché tale "incapacità" e ambiguità -se non vogliamo mantenerci nell'ambito superegoico di meri e scorretti giudizi di valore- si connota come un "sintomo", come tale va compresa nella sua genesi. A questo proposito, per un'ovvia deformazione professionale, propongo un approccio psicoanalitico al problema, partendo da un rapido excursus teorico sul tema della genesi del pensiero umano, con qualche riferimento a quello che sotto certi aspetti possiamo considerare il primo modello della mente proposto dalla psicoanalisi, cioè il modello bioniano.

Che cos'è il pensare? E' qualcosa che si apprende o rappresenta lo sviluppo spontaneo di un'attitudine connaturata? Le teorie psicoanalitiche rispondono che è la madre che insegna a pensare al proprio bambino attraverso un modo primitivo di comunicazione definito "identificazione proiettiva". Inizialmente il bambino è immerso in una sorta di sistema protomentale, in cui l'esperienza fisica e quella più propriamente mentale sono in uno stato di indifferenziazione. Un'attività successiva promuoverà la differenziazione e permetterà l'individuazione degli ambiti diversi della mente e del cervello.

L'esperienza emotiva indifferenziata protomentale, per diventare un'esperienza mentale cosciente (o inconscia) e contribuire alla strutturazione della personalità, non deve essere immediatamente eliminata, buttata fuori dalla mente, non deve tradursi in un'azione evacuativa in termini di attività pseudosimbolica (sintomi psicotici) o di interferenza sui processi neuroendocrini di autoregolazione psicofisica, che hanno lo scopo di mantenere l'organismo in uno stato di equilibrio vitale (sintomi psicosomatici), ma deve poter essere trattenuta nella mente per un tempo abbastanza lungo da permettere un'attribuzione di significato. E ciò avviene ricorrendo a metafore, miti e simboli appositamente generati dalla mente, in prima battuta nel linguaggio immaginativo del sogno, cioè come immagini oniriche che possono poi divenire coscienti o rimanere momentaneamente inconsce, per quanto parte integrante dell'esperienza emotiva del soggetto.

Attraverso l'identificazione proiettiva, la madre partecipa a questo processo di attribuzione di significato e di apprendimento di sé del bambino; nel suo inconscio ne riordina la parte perturbata, il caos di pensieri e sentimenti che egli le comunica empaticamente, e glieli restituisce meno confusi e più tollerabili. Ma tale processo che potremmo definire di simbolizzazione, è comunque faticoso ed emotivamente anche molto frustrante in quanto costringe ad un esame di realtà e quindi al confronto con un ambiente che per il bambino non è solo fonte di gratificazione ma anche di sentimenti di totale impotenza e di esclusione edipica dal rapporto con i genitori. Questa esperienza può essere frustrante al punto tale da far subire all'intero processo di significazione battute di arresto o inversioni di marcia ineluttabili, volte a sopprimerne l'evoluzione verso la coscienza.

Quando possiamo dire che la frustrazione diventa intollerabile e compromette la capacità di pensare? Innanzitutto quando si viene costantemente dispensati dal faticoso lavoro di simbolizzazione, cioè si viene sistematicamente dispensati dal pensare! Vorrei rifarmi ad alcune citazioni non psicoanalitiche.

Scrive Arnold Gehlen: "...c'è un essere vivente, che tra le sue caratteristiche più rilevanti ha quella di dover prendere posizione circa se stesso, … circa le proprie pulsioni e qualità percepite, ma anche circa i propri simili, gli altri uomini..." E, aggiungo, è un compito ineludibile ma non certo facile.

Dice Eugene O'Neill: "L'uomo è nato a pezzi. Vive per mezzo di una ricostruzione continua. La grazia di Dio è un collante".

La sopravvivenza psicofisica dell'uomo è data dalla possibilità che egli ha di assolvere questo impegno di elaborazione e di metabolizzazione: operazione complessa, faticosa, che va imparata ed esercitata. Così come è faticoso e complesso giungere ad una propria visione del mondo partendo dai frammenti di coscienza e dalla molteplicità delle esperienze che vanno continuamente confrontate e risignificate.

Appare evidente quindi che anche in termini sociali bisogna che il gruppo non distolga continuamente l'individuo da questo impegno, catturandolo in vorticosi circuiti economici che rendono subito obsoleta ed inadeguata qualsiasi acquisizione, sia nel senso degli oggetti posseduti che delle competenze. Bisogna che ci sia una madre (cultura) in grado di metabolizzare e restituire, compresi e bonificati, gli aspetti ed i vissuti più perturbati e perturbanti, perché è solo la risposta di questa madre che può condurre alla percezione di sé come unità fisica e mentale, risposta che deve essere costituita innanzitutto da accettazione e da approvazione empatica. Se questo non è avvenuto ai primordi, ci troveremo di fronte ad una generazione di "adolescenti" difficili, ribelli, aggressivi, che rifiutano l'universo dei valori genitoriali, che non ascoltano, che si allontanano spesso alla ricerca di soluzioni troppo facili, anaffettivi, che si drogano, che a volte uccidono o si uccidono. A quel punto diventa veramente difficile amarli, e l'unico modo per riconquistarli alla vita e ai valori non è la critica ma l'autocritica. E' l'impegno umile, sofferto e quotidiano alla ricerca degli errori commessi e degli emendamenti necessari. Perché ciò che giunge agli altri è essenzialmente la nostra verità emotiva e non le nostre professioni di autenticità.

Che cosa offre dunque oggi la grande madre, lo spirito del nostro tempo? Da un lato una cultura sofisticata e complessa, anacronistica, che arranca per stare al passo con un progresso tecnico che la confonde, che la trascina verso il compromesso, alla ricerca di scoop, di sensazioni, di successo economico. Supporti alla comunicazione di ogni tipo, affascinanti e miracolistici. Ma senza le istruzioni per l'uso, nel senso che non c'è più tempo per l'impegno nella costruzione dei rapporti e quindi per la comunicazione. Spesso i rapporti sono una semplice condivisione e messa in comune di questi mezzi tecnici; non c'è tempo per farsi domande, l'indifferenza accompagna le nostre corse, nessuna notizia è più sensazionale, detta al telegiornale a velocità sempre maggiore, per adeguarsi all'incapacità di attenzione propria dell'egoriferimento in cui si è immersi. E quando ad un qualche livello diamo forfait il medico ha un rimedio per ogni nostro male, purtroppo anche per i mali emotivi! E dall'altro lato la deresponsabilizzazione, il disimpegno circa la consegna umana di dover prendere posizione rispetto a se stessi e agli altri, di dover ricomporre ogni giorno l'unità del proprio Sé attraverso un'operazione di continuo confronto con tutte le sfaccettature e le implicazioni del reale, al fine di diventare capaci di pensiero e di giudizio.

Leggendo i giornali in questo periodo, soprattutto quelli per cui simpatizzo, mi sembra che siano pieni di articoli brillanti, accorati, di rimprovero nei confronti di una "maggioranza" bananiera e credulona che ha tradito, che, affascinata dalle soluzioni miracolistiche, ha tradito quell' "intellighenzia" che ha dalla sua parte impegno, ragione, cultura, verità. Ho la sensazione, nel leggere, di trovarmi di fronte a quei genitori di adolescenti difficili che, professionalmente mi capita a volte di incontrare. Genitori spesso colti, "che si sono sacrificati per conquistarsi una posizione", lavoratori, davvero accorati di fronte all'impossibilità di far mettere la testa a partito ai loro figli inspiegabilmente alla ricerca di soluzioni troppo facili. Genitori che forse non sono sufficientemente coscienti della quota di compiacimento e di solipsismo che la cultura comporta. Che forse non sono coscienti di quanto si possa lasciar soli i propri figli perché non all'altezza di considerazioni complesse. Genitori non coscienti di quanta paura si può mostrare quando qualche scambio imprevisto distoglie dai binari quotidiani e quanta credibilità si può perdere in questi frangenti. Non coscienti delle rinunce all'integrità e dei compromessi di fronte alle "imposizioni" sociali.

Forse questi genitori, che non possono non suscitare la nostra simpatia, la nostra comprensione e anche la nostra parziale identificazione, non sanno abbastanza che la conoscenza delle cose (knowing about) e le capacità critiche sono competenze diverse rispetto alla coscienza di sé e delle proprie motivazioni e che implicano sforzi diversi. Hanno idea questi "genitori" quanta destabilizzazione comporti entrare in contatto con se stessi? Quanta parte delle proprie costruzioni teoriche vada distrutta ? Sono coscienti questi genitori di quanta loro creatività finisca imbrigliata nelle convenzioni e negli immobilismi burocratici?

In fondo chi va alla ricerca di un padre potente che lo seduca senza dare nulla in cambio, è già stato a suo tempo sedotto ed è già stato deluso. E la seduzione si muove sempre nell'ambito di una dimensione narcisistica e di violenza. La grande madre -la cultura, la scienza- deve giungere a svincolarsi dagli asservimenti al già noto per comprendere la critica dei figli adolescenti che prestano attenzione a ciò che, in termini di valori personali, si veicola loro insieme alla cultura.

Forse dobbiamo diventare tutti sufficientemente coscienti del fatto che la nuova sindrome delle società avanzate non è, come per il passato, il delirio, la negazione, la rimozione del trauma ma, come dice Leo Rangell, il "compromesso di integrità" . Attualmente la patologia mentale non poggia più sul conflitto tra l'Io e le forze ancestrali dell'Es, ma sul conflitto tra Io e Super-Io.

"Se le nevrosi classiche -dice Simona Argentieri in Micromega- poggiavano su un conflitto tra l'Io e le forze istintuali dell'Es, la 'zona grigia' del compromesso d'integrità deriva invece da un ' conflitto di interessi ' tra Io e Super-Io. Per tollerare senza soffrire situazioni di realtà esterna traumatiche o corrotte, per non doversi confrontare con il compito immane di contrapporsi e differenziarsi, si organizza così una manovra di collusione e di superficiale consenso. Il vantaggio segreto è -ancora una volta- quello di evitare il conflitto, la colpa, la fatica del pensare".

In conclusione, pur condividendo tristemente la posizione che Curzio Maltese esprime nella sua rubrica, penso che sia indispensabile che chi si assume la responsabilità di "fare cultura" sia anche in grado di proporre una solida costellazione di valori positivi e negativi. Penso quindi che la cultura debba procedere non solo nel senso dell'ampliamento dell'informazione ma soprattutto nel senso dell'approfondimento psicologico, che tanto viene trascurato come marginale e pleonastico.

La cultura dovrebbe non tanto insegnare, quanto stimolare la capacità di apprendere dall'esperienza. In altre parole se non si crea una distanza riflessiva, un tempo di attesa necessario perché il senso affiori alla coscienza rendendo l'esperienza leggibile, interpretabile, gli eventi esterni, i fatti concreti, che dovrebbero poter evocare e rappresentare l'esperienza psichica relativa, vengono invece saturati immediatamente ed usati essi stessi come simboli dall'onniscenza primitiva, onnipotente, delirante, inadeguata. E la scarica della tensione non può che essere immediata e irriflessiva in termini decisamente sintomatici.

La violenza dei vent'anni

La notizia
Rieccoli, come attraverso tutto il 900! Sono parole preoccupate, a tratti accorate, quelle con cui Arbasino commenta gli episodi di violenza che hanno caratterizzato le manifestazioni del G8 di Genova. Violenza apparentemente inutile e fine a se stessa, visto che i potenti della terra non hanno nemmeno bisogno di cariche politiche e di vertici da vetrina per stipulare i loro accordi che condizionano, di fatto, la vita di milioni di persone. Allora perché ci si continua a fare uccidere e ad uccidere e perché questo lo fanno soprattutto i giovani.
''La Repubblica'' del 9 settembre 2001

Il commento
"Esterina, i vent'anni ti minacciano grigiorosea nube che a poco a poco su te si chiude" ... con queste parole di Montale, Arbasino inizia le sue considerazioni su quella che chiama, a titolo dell'articolo, la violenza dei vent'anni.

E' ancora fresca la memoria delle interviste ai manifestanti fermati per gli scontri del G8: "adoro menare le mani", "avevo l'adrenalina a mille", "quando c'è da picchiare non mi tiro certo indietro" ed è proprio a queste dichiarazioni che Arbasino fa riferimento. Sembra che ancora una volta - tragico copione - i giovani compaiano sulla scena della storia secondo coordinate ineluttabilmente preordinate: "gli sfegatati interventisti, gli arditi da sbarco, gli ardimentosi legionari, gli intrepidi marò, i marines". E tutto questo con il suo inevitabile contorno, triste ed irrinunciabile carrozzone: "gli infiammati demagoghi, le cause e i miti ... Il branco, i rituali, il plotone, il corteo e l'assalto ... I capi sempre carismatici, le vittime osannate come feticci di religioni integraliste ... Tute, toghe, tonache sempre più arrabbiate, bellicose, vendicative." (dal citato articolo di Repubblica).

Come mai, sembra chiedersi l'articolista, i giovani sembrano fare sentire la loro voce, diventare visibili, solo attraverso la violenza, lo spargimento di sangue, la morte?

Come se l'impulso a crescere non potesse che approdare al tragico appuntamento della rabbia e della distruzione.

Certo non è semplice per un adolescente diventare adulto.

Il terrore di tornare indietro ad una condizione dove non è necessario pensare ed essere in proprio, protetto dall'illusione di un sapere compiuto che altri possiedono, può fare immaginare che l'unica via di salvezza sia quella di andare avanti ad ogni costo, evitando la tentazione di attendere ancora qualcosa da altri e coltivando l'intima convinzione di bastare a se stessi.

Fragilità, tenerezza, senso di impotenza e di ammirazione per la bellezza, timore e preoccupazione per il benessere del prossimo, sembrano, di colpo, sentimenti molto pericolosi, subdole trappole che rischiano di confinare per sempre in una vita come emanazione del desiderio di altri.

Il cinismo e anche l'uso della violenza vengono avvertiti, a tratti, come il modo, se pur estremo, di eliminare qualcosa di minacciosamente cattivo, da cui ci si deve liberare per sempre, in una vera e propria lotta per la sopravvivenza.

Ma esiste davvero, per l'adolescente che si appresta a diventare uomo, un pericolo così profondo e radicale, ne va realmente della sua vita?

In effetti, gli adulti possono mal tollerare la perdita di uno sguardo adorante, di una mano fiduciosa che crede di stringere un'altra mano molto più sapiente e capace della sua. La mancanza di quello sguardo e di quella stretta, può rendere di nuovo incerti circa se stessi; senza quell'accettazione e quell'approvazione incondizionata, dubbi che si credevano ormai sopiti, spesso tornano ancora più violentemente che nel passato: forse era possibile fare una scelta anziché un'altra, forse alcune cose si sono perse per sempre e non torneranno più, forse certe rinunce non erano necessarie, ma dettate da timori antichi, mai pensati ed affrontati, forse si è stati ingiusti senza motivo verso gli altri e verso se stessi.

Neanche per l'adulto, come per l'adolescente, c'è più una realtà garantita ed indiscutibile, il crollo travolge entrambi.

Una tentazione può essere quella di bloccare tutto, di esercitare la coercizione e di non lasciare partire nessuno, di continuare a chiedere agli adolescenti di essere solo il prolungamento dei propri desideri e il baluardo di fronte alla propria sofferenza. Usare la giovinezza di altri per celare le crepe dell'esistenza e per nascondere il fatto, più tragico, che l'esistenza va verso la sua fine.

Così conclude Montale la sua poesia:

"Esiti a sommo del tremulo asse,
poi ridi, e come spiccata da un vento
t'abbatti fra le braccia
del tuo divino amico che t'afferra.

Ti guardiamo noi, della razza
di chi resta a terra"

(E. Montale, Falsetto, da: Ossi di seppia)

I figli appaiono ricchi di futuro, di una pienezza di vita che ancora li attende; può essere difficile lasciarli andare, vederli portare tutta questa ricchezza con sé e rimanere semplicemente alla propria realtà.

Il dramma della crescita coinvolge tutti gli attori, sia gli adulti che gli adolescenti si sentono ricacciati in un mondo senza dei in una posizione di incertezza e di fragilità, dove ancora una volta si ripropone la fatica di tollerare la confusione, di sopportare il limite.

Proprio questo può sembrare incredibile ed inaccettabile, falsa via contro cui reagire con decisione: i figli sbagliano, dovranno obbedire comunque; gli adulti sbagliano, per crescere basta prendersi le cose senza chiedere il permesso a nessuno.

Una violenza tragica, a volte, può sembrare l'unica difesa di fronte ad una realtà meno splendente di quanto si sperava, rispetto ad una crescita che porta alla realizzazione di sé anche attraverso il dolore e la solitudine. Sono i casi nei quali questo antico dramma, non più contenuto all'interno della famiglia, popola le pagine dei giornali, i palcoscenici televisivi, le strade e le piazze delle città. Ma la realtà sociale allargata diventa teatro di questa crisi anche perché non è solo rispetto ai genitori che i figli chiedono di trovare la loro strada: la richiesta è rivolta soprattutto alla comunità degli adulti e alle loro organizzazioni. La crisi di cui parliamo, coinvolge permanentemente la società nel suo complesso, le sue leggi, la sua strutturazione.

Le immagini delle manifestazioni del G8 di Genova, ossessivamente ed incessantemente rimandate ogni giorno di questa ultima estate, sembrano avere parlato anche di questo, di uno scontro generazionale attraversato da reciproche prevaricazioni, richieste inascoltate, soprattutto dallo spettro di un dialogo tragicamente impossibile che tramonta di fronte all'irrevocabilità della morte.

Uno sgomento e una amarezza profonda che si sperava non dovere più conoscere dopo gli anni di piombo, ha nuovamente gravato la coscienza civile del nostro paese.

Infiniti ed accesi, poi, i conflitti, le polemiche, il palleggio delle responsabilità: chi deve pagare, dare ragione, placare, il sangue per chi non avrà mai più vent'anni?

E' davvero ineluttabile l'appuntamento con la violenza e con la morte, nessuna forza può togliere dal copione la rappresentazione del sacrificio della vita?

Anche a Genova per il G8 sono state nominate espressioni ormai non più del tutto nuove: manifestazione pacifista, impiego di tecniche nonviolente, rifiuto dello scontro armato e queste espressioni, per la prima volta, paradossalmente in modo davvero globale, hanno occupato gli schermi di tutti i paesi del mondo.

In effetti, già da tempo le domande precedenti sembrano essere oggetto del pensiero collettivo e lo impegnano nella ricerca di un diverso uso della violenza all'interno dei contrasti sociali, un uso che non lasci più al caso, assolutamente non pensato, il destino dell'esistenza di quanti sono coinvolti nel contrasto stesso, al sostegno di opposte ragioni ed interessi.

Ma sembrano proprio gli attori degli scontri a giudicare non affidabili o a condannare decisamente le tecniche e i gruppi di ispirazione nonviolenta. Per le forze dell'ordine, sono strutture mimetiche, una sorta di cavallo di Troia che cerca di contrabbandare la distruzione organizzata e la destabilizzazione dello Stato. Per molti manifestanti, spesso solo tecniche inefficaci che devono venire abbandonate velocemente di fronte agli attacchi più pesanti della polizia.

In verità, tali convinzioni sono, per certi versi, sorprendenti quando si commisurano alla storia: se l'azione nonviolenta non sempre porta ad una vittoria completa, questo è certo vero anche per le guerre. Se si pensa che la tecnica nonviolenta abbisogni di tempi lunghi per approdare a qualche risultato, nessuna azione che preveda lo scontro armato è in grado di assicurare le vittoria lampo.

"Quando la violenza fallisce - dice Gene Sharp - o ottiene risultati limitati o richiede tempo, si tende ad attribuire la responsabilità a specifici fattori ed inadeguatezze e non al metodo in se stesso, contrariamente a quanto avviene di solito quando si ricorre all'azione nonviolenta. Raramente i due metodi vengono comparati accuratamente ed imparzialmente in termini di tempo, successi ed insuccessi, adeguatezza della preparazione, perdite umane. Si tende a dimenticare i casi in cui l'azione nonviolenta ha ottenuto successi parziali o totali, minimizzandoli o trascurandoli come irrilevanti" (Gene Sharp, Politica dell'azione nonviolenta. Gene Sharp è il direttore del Program of Nonviolent Sanctions del Center for International Affairs della Harward University)

Ma forse la difficoltà ad accettare questa forma di contrapposizione può non essere estranea a quanto più sopra si osservava.

Probabilmente è più difficile sostenere una lotta dove non si ritiene più che l'avversario, sia esso poliziotto o tuta bianca, adolescente o adulto, contenga, al suo interno, elementi esclusivamente negativi che possono solo essere eliminati per il bene di tutti. Un avversario a questo punto estraneo, alieno, inassimilabile alla propria esistenza, rispetto al quale anche l'uso della violenza è lecito.

Forse non è semplice perdere tutto questo, ultima divinità negativa, immaginare che il potere come il consenso di un gruppo, per quanto estesi, siano sempre fragili e revocabili, dipendenti dalle condizioni, dalle opportunità, dalla storia. Immaginare che anche l'avversario rappresenta ragioni e valori condivisibili e che una possibile vittoria su di esso non sarebbe la soluzione al personale dolore di esistere. La sconfitta dell'altro, non eliminerebbe l'incertezza e la solitudine, l'insoddisfazione per le scelte fatte, la sofferenza per le sconfitte.

Certo tutto questo non è semplice né lieve: come l'adolescente insieme all'adulto a poco a poco possono scegliere di apprezzare di più la bellezza delle cose, piuttosto che la loro potenza o il loro successo, per farsene ispirare nell'azione, senza più obbligarsi a sacrificare parti di esperienze emotive sull'altare dell'onnipotenza, anche nella società sembra maturare l'esigenza di una diversa gestione della violenza che non comporti più la distruzione e l'olocausto della vita come unica forma efficace di contrapposizione.

Da questo punto di vista, anche se per una giusta causa, ogni morte è un impoverimento, terribile rito sacrificale attraverso cui il mondo degli adulti potrebbe credere di garantirsi un freddo ed imperituro rispecchiamento dell'identico, mentre il gruppo degli adolescenti l'ascesa ad un potere vertiginoso ed assoluto, bellissimo e puro nella sua totale assenza di memoria e di radici.

"Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare che l'ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l'impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce - si tocca con gli occhi - che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe nessuna differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta e gliene chiede ragione."
Cesare Pavese, Prima che il gallo canti - La casa in collina.

Tra legge di vita e legge di morte

La notizia
Pesaro, un ex poliziotto spara al figlio che si drogava e si ammazza. Un dramma familiare legato alla tossicodipendenza di un figlio di 17 anni, vissuta come una doppia sconfitta dal padre che, per gran parte della sua vita, la droga l'aveva combattuta come agente di polizia. Sarebbe questo lo scenario in cui è maturato l'omicidio-suicidio di Pietro Canopoli, 47 anni, poliziotto in pensione della questura di Pesaro, che lunedì sera ha ucciso con un colpo di beretta calibro 7,65 il figlio Maurizio, che voleva abbandonare la comunità di recupero dove stava seguendo un programma di disintossicazione dall'eroina. Padre e figlio avrebbero avuto un litigio in casa, a Cattabrighe nel Pesarese. Improvvisamente la discussione è degenerata fino a spingere l'ex agente a impugnare l'arma e sparare un colpo alla tempia del giovane, per poi togliersi la vita subito dopo, con un colpo alla tempia destra, esploso in rapida successione, stando in ginocchio davanti al cadavere del ragazzo. La ricostruzione è avvalorata dai primi risultati dell'autopsia svolta ad Ancona.
La Repubblica, mercoledì 1 agosto 2001

Il commento
E' un drammatico episodio del mondo della droga: un ex poliziotto di Pesaro spara al figlio che si drogava e poi si ammazza. La notizia è riportata in fondo ad una pagina di cronaca. Un ennesimo dramma familiare legato alla tossicodipendenza che quasi non fa neanche più notizia, tanto siamo abituati a leggerli sui quotidiani. Eppure, anche se troppe volte abbiamo sentito parlare di fatti del genere, non si può non restare colpiti dal particolare che il padre di quell'adolescente tossicodipendente, come agente di polizia, la droga l'aveva sempre combattuta. Dramma nel dramma, la sconfitta per quest'uomo è doppia dunque, e opportunamente questo viene rilevato. Come padre, anzitutto, che nel figlio drogato vede tutto il fallimento della sua funzione paterna. Come tutore dell'ordine e della legge, infine, che lo vede sconfitto, persino in casa propria. Di fronte a situazioni drammatiche come queste, qualche riflessione ritengo possa essere utile, se non altro per evitare di "girare subito la pagina del giornale"; o di esprimere giudizi, magari anche compassionevoli; o di scagliarsi contro i tempi che corrono e la gioventù di oggi…

La storia dell'essere umano, ci ricorda Freud, ha sempre inizio con la dipendenza, quella dipendenza radicale da un altro che si prende cura di noi quando siamo ancora fragili ed incompleti, tanto sul piano fisico quanto su quello psichico. Ora, la realtà che stiamo attualmente vivendo con la sua enfatizzazione di ideali di autosufficienza dell'individuo, pensato come libero ed indipendente, "che non deve chiedere mai"; come forte e competitivo, "sempre vincente", credo che possa aiutarci a capire un po' il sottofondo emotivo di questa tragedia. E' proprio in questo contesto socio-culturale di enfatizzazione di tali "valori" che il pericolo si annida subdolamente e sempre più in profondità, anche se perlopiù neanche ce ne accorgiamo. La fragilità implicita in ciascun essere umano, la bisognosità , il senso di inadeguatezza che ci caratterizza non possono essere eliminati né dalle potentissime "pastiglie del sabato sera", né dall'alcool, dagli psicofarmaci o dal sesso sfrenato. Anzi, proprio l'incremento di tali modalità evidenziano maggiormente, oggi forse più di ieri, quelle "malattie della dipendenza" - come qualcuno le ha chiamate - che la società con un meccanismo di diniego (direbbero gli psicoanalisti) evita di vedere. Nei decenni passati, infatti, l'uso delle sostanze stupefacenti era vissuto quale strumento di contestazione nei confronti di un mondo adulto sentito come limitante, rigido, ingiusto, con il quale c'era pur sempre una relazione, anche se di contrapposizione. Oggi, invece nelle attuali malattie della dipendenza non c'è più un soggetto di fronte ad un altro soggetto (come un giovane di fronte al padre, alla famiglia, alla società) c'è una persona tragicamente sola , che si lascia spadroneggiare da una sostanza fino a giungere ad una ferrea e non più risolvibile schiavitù. Tale sostanza diventa il "nuovo padrone" che allontana inesorabilmente dagli altri esseri umani. Chi se ne serve, lo pone a distanza, lo confina in un godimento autarchico, autogestito, solitario, dove ogni condivisione è abolita.

E, come può mai essere stata vissuta una realtà così drammatica da uno che tali sostanze, come agente di polizia, aveva sempre combattuto?

Questo tipo di "libertà" apparentemente assoluta, questa illusione di un farsi da sé senza l'altro del tossicodipendente (illusione che traspare nel suo "mi faccio") fa emergere sempre più prepotentemente una strategia inconscia che tende a far essere incessantemente presente proprio quell'altro di cui, apparentemente, si dice di non aver alcun bisogno, alcun desiderio. Sotto le spoglie di un "oggetto-sostanza", infatti, l'altro soggetto può finalmente essere posseduto direttamente quando si vuole, quanto si vuole e come si vuole. Ma, in realtà, all'interno di tale autonoma solitudine, né la sostanza di volta in volta usata, né l'espediente psichico affannosamente perseguito, riescono ad arginare quell'angoscia e quel vuoto nel quale il soggetto stesso si sente imprigionato. L'altro, infatti, con la sua esistenza separata, con il suo essere per natura distinto e diverso, testimonia e ricorda come le cose e le persone non possono essere mai possedute definitivamente, in ogni momento e per sempre. La sostanza che sembra magicamente cambiare l'assenza emotiva dell'altro (un tempo di un padre, ad esempio) in un vuoto che si può facilmente riempire, di fatto continua a riprodurre una mancanza nella misura in cui viene costantemente consumata.

Ma dove possiamo rintracciare le origini di questa tragica realtà ossessivamente ripetuta … talvolta fino alla morte?

E' qui che vorrei soffermare l'attenzione su quell'altro polo relazionale da cui il bambino dipende fin dalla nascita, quello paterno, per l'appunto. Tradizionalmente, il padre rappresenta l'autorità e la legge cui il figlio deve assoggettarsi, il codice mentale e comportamentale che verrà da lui progressivamente introiettato nel corso della vita a partire dalla primissima infanzia. Questa figura (insieme ad altre, ovviamente) diventa, agli occhi del bambino, modello e punto di riferimento per costruire il personale mondo relazionale e l'altrettanto personale modalità di interpretazione del reale. Può accadere, però, che il modello disponibile sia legato ad elementi negativi che finiscono per portare ad una situazione di ribellione e di rifiuto. Pensiamo, ad esempio, al rapporto del padre con il figlio/a, inevitabilmente caratterizzato da una grossa disparità. Il padre, invariabilmente, appare grande e potente, ma in alcuni casi tale forza sembra tanto più grande quanto più lontana dal mondo degli affetti: una potenza, in qualche modo, assoluta che esclude da sé ogni difetto ed ogni imperfezione. In tal caso, questo punto di riferimento disponibile sarà vissuto come inavvicinabile ed irraggiungibile; per un verso si desidererà diventare come il papà, altrettanto sicuri ed autorevoli; per un altro, la strada apparirà preclusa dalla propria, anche troppo evidente, fragilità e limitatezza. Tale situazione può condurre, con l'andar del tempo, ad un rifiuto del modello proposto e alla scelta di una "via negativa" di realizzazione. In questa difficile dimensione, la figura paterna di riferimento facilmente sarà continuamente attaccata, al fine di costruire quello che sembra l'unico modo possibile per affermare se stessi: "se non posso diventare uguale a te, papà, allora esisterò come qualcuno di completamente diverso da te". Il rifiuto del modello genitoriale, nel processo di differenziazione dalla potente immagine paterna potrà accompagnarsi, allora, ad un grande senso di colpa. Questo potrà tradursi in sentimenti penosi quali la disistima, la sensazione di non essere niente, di fallire continuamente, di doversi punire sempre più severamente, rinunciando progressivamente ad una propria vita affettiva, creativa, sociale. La tappa successiva potrà, infine, essere quella della totale abdicazione alla realizzazione della propria identità, fino alla morte direttamente provocata o indirettamente suscitata.

Solo all'interno di una dimensione triadica, ci ricorda infatti la psicoanalisi, dove padre e madre, entrambi, siano emotivamente presenti è possibile mediare a quella distruttività implicita nelle situazioni a due.

Può, allora, essere accaduto proprio qualcosa del genere a Maurizio e ai tanti ragazzi di cui troppo spesso leggiamo nella cronaca dei quotidiani? E può essere tutto questo che il padre di altrettanti Maurizio forse non è stato in grado di capire, in grado di tollerare, in grado di gestire? Non lo, ma so per certo che assistere quotidianamente agli effetti dei propri inevitabili errori, alle proprie possibili sconfitte, può suscitare il desiderio di far scomparire tutto quanto in un colpo; magari un colpo … di pistola, anzi due, se ad affrontare tutto ciò ci si sente soli, impotenti e abbandonati. Lasciati dal proprio ambiente esterno familiare e sociale, e, soprattutto non più sostenuti dalle proprie istanze interiori paterne. Quelle istanze di autorevolezza, di ordine, di legge possono allora diventare rigide, sempre più rigide, sempre più impositive, ed inversamente sempre meno affettive. Da elementi di comunicazione, di crescita, di vita trasformarsi, dunque, in elementi di morte … per figlio e padre , nonostante il disperato bisogno di raggiungere - almeno simbolicamente - con la stessa identica morte, quell'identità e quell'unità forse sempre cercata ma mai trovata.

Contatti

Viale Gramsci 22 Firenze

tel 0552479220
Fax 0552477263
segreteria@spc.it

P. IVA 06221190488

eMagister