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La violenza dei vent'anni

La notizia
Rieccoli, come attraverso tutto il 900! Sono parole preoccupate, a tratti accorate, quelle con cui Arbasino commenta gli episodi di violenza che hanno caratterizzato le manifestazioni del G8 di Genova. Violenza apparentemente inutile e fine a se stessa, visto che i potenti della terra non hanno nemmeno bisogno di cariche politiche e di vertici da vetrina per stipulare i loro accordi che condizionano, di fatto, la vita di milioni di persone. Allora perché ci si continua a fare uccidere e ad uccidere e perché questo lo fanno soprattutto i giovani.
''La Repubblica'' del 9 settembre 2001

Il commento
"Esterina, i vent'anni ti minacciano grigiorosea nube che a poco a poco su te si chiude" ... con queste parole di Montale, Arbasino inizia le sue considerazioni su quella che chiama, a titolo dell'articolo, la violenza dei vent'anni.

E' ancora fresca la memoria delle interviste ai manifestanti fermati per gli scontri del G8: "adoro menare le mani", "avevo l'adrenalina a mille", "quando c'è da picchiare non mi tiro certo indietro" ed è proprio a queste dichiarazioni che Arbasino fa riferimento. Sembra che ancora una volta - tragico copione - i giovani compaiano sulla scena della storia secondo coordinate ineluttabilmente preordinate: "gli sfegatati interventisti, gli arditi da sbarco, gli ardimentosi legionari, gli intrepidi marò, i marines". E tutto questo con il suo inevitabile contorno, triste ed irrinunciabile carrozzone: "gli infiammati demagoghi, le cause e i miti ... Il branco, i rituali, il plotone, il corteo e l'assalto ... I capi sempre carismatici, le vittime osannate come feticci di religioni integraliste ... Tute, toghe, tonache sempre più arrabbiate, bellicose, vendicative." (dal citato articolo di Repubblica).

Come mai, sembra chiedersi l'articolista, i giovani sembrano fare sentire la loro voce, diventare visibili, solo attraverso la violenza, lo spargimento di sangue, la morte?

Come se l'impulso a crescere non potesse che approdare al tragico appuntamento della rabbia e della distruzione.

Certo non è semplice per un adolescente diventare adulto.

Il terrore di tornare indietro ad una condizione dove non è necessario pensare ed essere in proprio, protetto dall'illusione di un sapere compiuto che altri possiedono, può fare immaginare che l'unica via di salvezza sia quella di andare avanti ad ogni costo, evitando la tentazione di attendere ancora qualcosa da altri e coltivando l'intima convinzione di bastare a se stessi.

Fragilità, tenerezza, senso di impotenza e di ammirazione per la bellezza, timore e preoccupazione per il benessere del prossimo, sembrano, di colpo, sentimenti molto pericolosi, subdole trappole che rischiano di confinare per sempre in una vita come emanazione del desiderio di altri.

Il cinismo e anche l'uso della violenza vengono avvertiti, a tratti, come il modo, se pur estremo, di eliminare qualcosa di minacciosamente cattivo, da cui ci si deve liberare per sempre, in una vera e propria lotta per la sopravvivenza.

Ma esiste davvero, per l'adolescente che si appresta a diventare uomo, un pericolo così profondo e radicale, ne va realmente della sua vita?

In effetti, gli adulti possono mal tollerare la perdita di uno sguardo adorante, di una mano fiduciosa che crede di stringere un'altra mano molto più sapiente e capace della sua. La mancanza di quello sguardo e di quella stretta, può rendere di nuovo incerti circa se stessi; senza quell'accettazione e quell'approvazione incondizionata, dubbi che si credevano ormai sopiti, spesso tornano ancora più violentemente che nel passato: forse era possibile fare una scelta anziché un'altra, forse alcune cose si sono perse per sempre e non torneranno più, forse certe rinunce non erano necessarie, ma dettate da timori antichi, mai pensati ed affrontati, forse si è stati ingiusti senza motivo verso gli altri e verso se stessi.

Neanche per l'adulto, come per l'adolescente, c'è più una realtà garantita ed indiscutibile, il crollo travolge entrambi.

Una tentazione può essere quella di bloccare tutto, di esercitare la coercizione e di non lasciare partire nessuno, di continuare a chiedere agli adolescenti di essere solo il prolungamento dei propri desideri e il baluardo di fronte alla propria sofferenza. Usare la giovinezza di altri per celare le crepe dell'esistenza e per nascondere il fatto, più tragico, che l'esistenza va verso la sua fine.

Così conclude Montale la sua poesia:

"Esiti a sommo del tremulo asse,
poi ridi, e come spiccata da un vento
t'abbatti fra le braccia
del tuo divino amico che t'afferra.

Ti guardiamo noi, della razza
di chi resta a terra"

(E. Montale, Falsetto, da: Ossi di seppia)

I figli appaiono ricchi di futuro, di una pienezza di vita che ancora li attende; può essere difficile lasciarli andare, vederli portare tutta questa ricchezza con sé e rimanere semplicemente alla propria realtà.

Il dramma della crescita coinvolge tutti gli attori, sia gli adulti che gli adolescenti si sentono ricacciati in un mondo senza dei in una posizione di incertezza e di fragilità, dove ancora una volta si ripropone la fatica di tollerare la confusione, di sopportare il limite.

Proprio questo può sembrare incredibile ed inaccettabile, falsa via contro cui reagire con decisione: i figli sbagliano, dovranno obbedire comunque; gli adulti sbagliano, per crescere basta prendersi le cose senza chiedere il permesso a nessuno.

Una violenza tragica, a volte, può sembrare l'unica difesa di fronte ad una realtà meno splendente di quanto si sperava, rispetto ad una crescita che porta alla realizzazione di sé anche attraverso il dolore e la solitudine. Sono i casi nei quali questo antico dramma, non più contenuto all'interno della famiglia, popola le pagine dei giornali, i palcoscenici televisivi, le strade e le piazze delle città. Ma la realtà sociale allargata diventa teatro di questa crisi anche perché non è solo rispetto ai genitori che i figli chiedono di trovare la loro strada: la richiesta è rivolta soprattutto alla comunità degli adulti e alle loro organizzazioni. La crisi di cui parliamo, coinvolge permanentemente la società nel suo complesso, le sue leggi, la sua strutturazione.

Le immagini delle manifestazioni del G8 di Genova, ossessivamente ed incessantemente rimandate ogni giorno di questa ultima estate, sembrano avere parlato anche di questo, di uno scontro generazionale attraversato da reciproche prevaricazioni, richieste inascoltate, soprattutto dallo spettro di un dialogo tragicamente impossibile che tramonta di fronte all'irrevocabilità della morte.

Uno sgomento e una amarezza profonda che si sperava non dovere più conoscere dopo gli anni di piombo, ha nuovamente gravato la coscienza civile del nostro paese.

Infiniti ed accesi, poi, i conflitti, le polemiche, il palleggio delle responsabilità: chi deve pagare, dare ragione, placare, il sangue per chi non avrà mai più vent'anni?

E' davvero ineluttabile l'appuntamento con la violenza e con la morte, nessuna forza può togliere dal copione la rappresentazione del sacrificio della vita?

Anche a Genova per il G8 sono state nominate espressioni ormai non più del tutto nuove: manifestazione pacifista, impiego di tecniche nonviolente, rifiuto dello scontro armato e queste espressioni, per la prima volta, paradossalmente in modo davvero globale, hanno occupato gli schermi di tutti i paesi del mondo.

In effetti, già da tempo le domande precedenti sembrano essere oggetto del pensiero collettivo e lo impegnano nella ricerca di un diverso uso della violenza all'interno dei contrasti sociali, un uso che non lasci più al caso, assolutamente non pensato, il destino dell'esistenza di quanti sono coinvolti nel contrasto stesso, al sostegno di opposte ragioni ed interessi.

Ma sembrano proprio gli attori degli scontri a giudicare non affidabili o a condannare decisamente le tecniche e i gruppi di ispirazione nonviolenta. Per le forze dell'ordine, sono strutture mimetiche, una sorta di cavallo di Troia che cerca di contrabbandare la distruzione organizzata e la destabilizzazione dello Stato. Per molti manifestanti, spesso solo tecniche inefficaci che devono venire abbandonate velocemente di fronte agli attacchi più pesanti della polizia.

In verità, tali convinzioni sono, per certi versi, sorprendenti quando si commisurano alla storia: se l'azione nonviolenta non sempre porta ad una vittoria completa, questo è certo vero anche per le guerre. Se si pensa che la tecnica nonviolenta abbisogni di tempi lunghi per approdare a qualche risultato, nessuna azione che preveda lo scontro armato è in grado di assicurare le vittoria lampo.

"Quando la violenza fallisce - dice Gene Sharp - o ottiene risultati limitati o richiede tempo, si tende ad attribuire la responsabilità a specifici fattori ed inadeguatezze e non al metodo in se stesso, contrariamente a quanto avviene di solito quando si ricorre all'azione nonviolenta. Raramente i due metodi vengono comparati accuratamente ed imparzialmente in termini di tempo, successi ed insuccessi, adeguatezza della preparazione, perdite umane. Si tende a dimenticare i casi in cui l'azione nonviolenta ha ottenuto successi parziali o totali, minimizzandoli o trascurandoli come irrilevanti" (Gene Sharp, Politica dell'azione nonviolenta. Gene Sharp è il direttore del Program of Nonviolent Sanctions del Center for International Affairs della Harward University)

Ma forse la difficoltà ad accettare questa forma di contrapposizione può non essere estranea a quanto più sopra si osservava.

Probabilmente è più difficile sostenere una lotta dove non si ritiene più che l'avversario, sia esso poliziotto o tuta bianca, adolescente o adulto, contenga, al suo interno, elementi esclusivamente negativi che possono solo essere eliminati per il bene di tutti. Un avversario a questo punto estraneo, alieno, inassimilabile alla propria esistenza, rispetto al quale anche l'uso della violenza è lecito.

Forse non è semplice perdere tutto questo, ultima divinità negativa, immaginare che il potere come il consenso di un gruppo, per quanto estesi, siano sempre fragili e revocabili, dipendenti dalle condizioni, dalle opportunità, dalla storia. Immaginare che anche l'avversario rappresenta ragioni e valori condivisibili e che una possibile vittoria su di esso non sarebbe la soluzione al personale dolore di esistere. La sconfitta dell'altro, non eliminerebbe l'incertezza e la solitudine, l'insoddisfazione per le scelte fatte, la sofferenza per le sconfitte.

Certo tutto questo non è semplice né lieve: come l'adolescente insieme all'adulto a poco a poco possono scegliere di apprezzare di più la bellezza delle cose, piuttosto che la loro potenza o il loro successo, per farsene ispirare nell'azione, senza più obbligarsi a sacrificare parti di esperienze emotive sull'altare dell'onnipotenza, anche nella società sembra maturare l'esigenza di una diversa gestione della violenza che non comporti più la distruzione e l'olocausto della vita come unica forma efficace di contrapposizione.

Da questo punto di vista, anche se per una giusta causa, ogni morte è un impoverimento, terribile rito sacrificale attraverso cui il mondo degli adulti potrebbe credere di garantirsi un freddo ed imperituro rispecchiamento dell'identico, mentre il gruppo degli adolescenti l'ascesa ad un potere vertiginoso ed assoluto, bellissimo e puro nella sua totale assenza di memoria e di radici.

"Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare che l'ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l'impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce - si tocca con gli occhi - che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe nessuna differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta e gliene chiede ragione."
Cesare Pavese, Prima che il gallo canti - La casa in collina.

Quando il pensiero va in vacanza

La notizia
''Il vergognoso pasticcio di Genova ha offerto al mondo la tragicommedia di un grande paese in piena regressione, incartato in un mediocre e pericoloso spettacolo. Il risultato è che l'opinione dell' Economist, ostile e a tratti irridente verso l'Italia berlusconiana, ha fatto scuola. Non bisogna illudersi che l'opinione mondiale coincida con quella nazionale. Gli italiani preferiscono perdere le guerre che ammettere di essere stati fessi. Nel frattempo però a milioni di italiani è permesso il lusso di guardare allo spettacolo con sguardo europeo, disincantato, insensibile alla demagogia, impermeabile all'informazione servile, per quanto possibile ironico. Sono i vantaggi della globalizzazione ed in fondo, rispetto alla storia passata, non è un vantaggio da poco''.
La Repubblica del 17 agosto 2001

Il commento
Le considerazioni di Curzio Maltese -giornalista che stimo e a cui sono particolarmente grata quando si schiera coraggiosamente contro le multinazionali farmaceutiche e la troppo facile propaganda in favore degli psicofarmaci quali attenuatori di coscienza- mi suscitano una sequenza di osservazioni che vorrei tentare di organizzare nel modo meno frammentario possibile.

Maltese parla dunque della possibilità di fruire di una visione "binoculare" -la critica del mondo politico-culturale europeo da un lato e i "fatti" e i "commenti", più o meno culturali o più o meno propagandistici, provenienti dallo Zeitgeist locale- possibilità che la "maggioranza" degli italiani sembra incapace di utilizzare per un'analisi sufficientemente obiettiva di quelle che sono le speranze e le attese emotive da un lato, e le realizzazioni effettive dall'altro.

Poiché tale "incapacità" e ambiguità -se non vogliamo mantenerci nell'ambito superegoico di meri e scorretti giudizi di valore- si connota come un "sintomo", come tale va compresa nella sua genesi. A questo proposito, per un'ovvia deformazione professionale, propongo un approccio psicoanalitico al problema, partendo da un rapido excursus teorico sul tema della genesi del pensiero umano, con qualche riferimento a quello che sotto certi aspetti possiamo considerare il primo modello della mente proposto dalla psicoanalisi, cioè il modello bioniano.

Che cos'è il pensare? E' qualcosa che si apprende o rappresenta lo sviluppo spontaneo di un'attitudine connaturata? Le teorie psicoanalitiche rispondono che è la madre che insegna a pensare al proprio bambino attraverso un modo primitivo di comunicazione definito "identificazione proiettiva". Inizialmente il bambino è immerso in una sorta di sistema protomentale, in cui l'esperienza fisica e quella più propriamente mentale sono in uno stato di indifferenziazione. Un'attività successiva promuoverà la differenziazione e permetterà l'individuazione degli ambiti diversi della mente e del cervello.

L'esperienza emotiva indifferenziata protomentale, per diventare un'esperienza mentale cosciente (o inconscia) e contribuire alla strutturazione della personalità, non deve essere immediatamente eliminata, buttata fuori dalla mente, non deve tradursi in un'azione evacuativa in termini di attività pseudosimbolica (sintomi psicotici) o di interferenza sui processi neuroendocrini di autoregolazione psicofisica, che hanno lo scopo di mantenere l'organismo in uno stato di equilibrio vitale (sintomi psicosomatici), ma deve poter essere trattenuta nella mente per un tempo abbastanza lungo da permettere un'attribuzione di significato. E ciò avviene ricorrendo a metafore, miti e simboli appositamente generati dalla mente, in prima battuta nel linguaggio immaginativo del sogno, cioè come immagini oniriche che possono poi divenire coscienti o rimanere momentaneamente inconsce, per quanto parte integrante dell'esperienza emotiva del soggetto.

Attraverso l'identificazione proiettiva, la madre partecipa a questo processo di attribuzione di significato e di apprendimento di sé del bambino; nel suo inconscio ne riordina la parte perturbata, il caos di pensieri e sentimenti che egli le comunica empaticamente, e glieli restituisce meno confusi e più tollerabili. Ma tale processo che potremmo definire di simbolizzazione, è comunque faticoso ed emotivamente anche molto frustrante in quanto costringe ad un esame di realtà e quindi al confronto con un ambiente che per il bambino non è solo fonte di gratificazione ma anche di sentimenti di totale impotenza e di esclusione edipica dal rapporto con i genitori. Questa esperienza può essere frustrante al punto tale da far subire all'intero processo di significazione battute di arresto o inversioni di marcia ineluttabili, volte a sopprimerne l'evoluzione verso la coscienza.

Quando possiamo dire che la frustrazione diventa intollerabile e compromette la capacità di pensare? Innanzitutto quando si viene costantemente dispensati dal faticoso lavoro di simbolizzazione, cioè si viene sistematicamente dispensati dal pensare! Vorrei rifarmi ad alcune citazioni non psicoanalitiche.

Scrive Arnold Gehlen: "...c'è un essere vivente, che tra le sue caratteristiche più rilevanti ha quella di dover prendere posizione circa se stesso, … circa le proprie pulsioni e qualità percepite, ma anche circa i propri simili, gli altri uomini..." E, aggiungo, è un compito ineludibile ma non certo facile.

Dice Eugene O'Neill: "L'uomo è nato a pezzi. Vive per mezzo di una ricostruzione continua. La grazia di Dio è un collante".

La sopravvivenza psicofisica dell'uomo è data dalla possibilità che egli ha di assolvere questo impegno di elaborazione e di metabolizzazione: operazione complessa, faticosa, che va imparata ed esercitata. Così come è faticoso e complesso giungere ad una propria visione del mondo partendo dai frammenti di coscienza e dalla molteplicità delle esperienze che vanno continuamente confrontate e risignificate.

Appare evidente quindi che anche in termini sociali bisogna che il gruppo non distolga continuamente l'individuo da questo impegno, catturandolo in vorticosi circuiti economici che rendono subito obsoleta ed inadeguata qualsiasi acquisizione, sia nel senso degli oggetti posseduti che delle competenze. Bisogna che ci sia una madre (cultura) in grado di metabolizzare e restituire, compresi e bonificati, gli aspetti ed i vissuti più perturbati e perturbanti, perché è solo la risposta di questa madre che può condurre alla percezione di sé come unità fisica e mentale, risposta che deve essere costituita innanzitutto da accettazione e da approvazione empatica. Se questo non è avvenuto ai primordi, ci troveremo di fronte ad una generazione di "adolescenti" difficili, ribelli, aggressivi, che rifiutano l'universo dei valori genitoriali, che non ascoltano, che si allontanano spesso alla ricerca di soluzioni troppo facili, anaffettivi, che si drogano, che a volte uccidono o si uccidono. A quel punto diventa veramente difficile amarli, e l'unico modo per riconquistarli alla vita e ai valori non è la critica ma l'autocritica. E' l'impegno umile, sofferto e quotidiano alla ricerca degli errori commessi e degli emendamenti necessari. Perché ciò che giunge agli altri è essenzialmente la nostra verità emotiva e non le nostre professioni di autenticità.

Che cosa offre dunque oggi la grande madre, lo spirito del nostro tempo? Da un lato una cultura sofisticata e complessa, anacronistica, che arranca per stare al passo con un progresso tecnico che la confonde, che la trascina verso il compromesso, alla ricerca di scoop, di sensazioni, di successo economico. Supporti alla comunicazione di ogni tipo, affascinanti e miracolistici. Ma senza le istruzioni per l'uso, nel senso che non c'è più tempo per l'impegno nella costruzione dei rapporti e quindi per la comunicazione. Spesso i rapporti sono una semplice condivisione e messa in comune di questi mezzi tecnici; non c'è tempo per farsi domande, l'indifferenza accompagna le nostre corse, nessuna notizia è più sensazionale, detta al telegiornale a velocità sempre maggiore, per adeguarsi all'incapacità di attenzione propria dell'egoriferimento in cui si è immersi. E quando ad un qualche livello diamo forfait il medico ha un rimedio per ogni nostro male, purtroppo anche per i mali emotivi! E dall'altro lato la deresponsabilizzazione, il disimpegno circa la consegna umana di dover prendere posizione rispetto a se stessi e agli altri, di dover ricomporre ogni giorno l'unità del proprio Sé attraverso un'operazione di continuo confronto con tutte le sfaccettature e le implicazioni del reale, al fine di diventare capaci di pensiero e di giudizio.

Leggendo i giornali in questo periodo, soprattutto quelli per cui simpatizzo, mi sembra che siano pieni di articoli brillanti, accorati, di rimprovero nei confronti di una "maggioranza" bananiera e credulona che ha tradito, che, affascinata dalle soluzioni miracolistiche, ha tradito quell' "intellighenzia" che ha dalla sua parte impegno, ragione, cultura, verità. Ho la sensazione, nel leggere, di trovarmi di fronte a quei genitori di adolescenti difficili che, professionalmente mi capita a volte di incontrare. Genitori spesso colti, "che si sono sacrificati per conquistarsi una posizione", lavoratori, davvero accorati di fronte all'impossibilità di far mettere la testa a partito ai loro figli inspiegabilmente alla ricerca di soluzioni troppo facili. Genitori che forse non sono sufficientemente coscienti della quota di compiacimento e di solipsismo che la cultura comporta. Che forse non sono coscienti di quanto si possa lasciar soli i propri figli perché non all'altezza di considerazioni complesse. Genitori non coscienti di quanta paura si può mostrare quando qualche scambio imprevisto distoglie dai binari quotidiani e quanta credibilità si può perdere in questi frangenti. Non coscienti delle rinunce all'integrità e dei compromessi di fronte alle "imposizioni" sociali.

Forse questi genitori, che non possono non suscitare la nostra simpatia, la nostra comprensione e anche la nostra parziale identificazione, non sanno abbastanza che la conoscenza delle cose (knowing about) e le capacità critiche sono competenze diverse rispetto alla coscienza di sé e delle proprie motivazioni e che implicano sforzi diversi. Hanno idea questi "genitori" quanta destabilizzazione comporti entrare in contatto con se stessi? Quanta parte delle proprie costruzioni teoriche vada distrutta ? Sono coscienti questi genitori di quanta loro creatività finisca imbrigliata nelle convenzioni e negli immobilismi burocratici?

In fondo chi va alla ricerca di un padre potente che lo seduca senza dare nulla in cambio, è già stato a suo tempo sedotto ed è già stato deluso. E la seduzione si muove sempre nell'ambito di una dimensione narcisistica e di violenza. La grande madre -la cultura, la scienza- deve giungere a svincolarsi dagli asservimenti al già noto per comprendere la critica dei figli adolescenti che prestano attenzione a ciò che, in termini di valori personali, si veicola loro insieme alla cultura.

Forse dobbiamo diventare tutti sufficientemente coscienti del fatto che la nuova sindrome delle società avanzate non è, come per il passato, il delirio, la negazione, la rimozione del trauma ma, come dice Leo Rangell, il "compromesso di integrità" . Attualmente la patologia mentale non poggia più sul conflitto tra l'Io e le forze ancestrali dell'Es, ma sul conflitto tra Io e Super-Io.

"Se le nevrosi classiche -dice Simona Argentieri in Micromega- poggiavano su un conflitto tra l'Io e le forze istintuali dell'Es, la 'zona grigia' del compromesso d'integrità deriva invece da un ' conflitto di interessi ' tra Io e Super-Io. Per tollerare senza soffrire situazioni di realtà esterna traumatiche o corrotte, per non doversi confrontare con il compito immane di contrapporsi e differenziarsi, si organizza così una manovra di collusione e di superficiale consenso. Il vantaggio segreto è -ancora una volta- quello di evitare il conflitto, la colpa, la fatica del pensare".

In conclusione, pur condividendo tristemente la posizione che Curzio Maltese esprime nella sua rubrica, penso che sia indispensabile che chi si assume la responsabilità di "fare cultura" sia anche in grado di proporre una solida costellazione di valori positivi e negativi. Penso quindi che la cultura debba procedere non solo nel senso dell'ampliamento dell'informazione ma soprattutto nel senso dell'approfondimento psicologico, che tanto viene trascurato come marginale e pleonastico.

La cultura dovrebbe non tanto insegnare, quanto stimolare la capacità di apprendere dall'esperienza. In altre parole se non si crea una distanza riflessiva, un tempo di attesa necessario perché il senso affiori alla coscienza rendendo l'esperienza leggibile, interpretabile, gli eventi esterni, i fatti concreti, che dovrebbero poter evocare e rappresentare l'esperienza psichica relativa, vengono invece saturati immediatamente ed usati essi stessi come simboli dall'onniscenza primitiva, onnipotente, delirante, inadeguata. E la scarica della tensione non può che essere immediata e irriflessiva in termini decisamente sintomatici.

Di separazione si può morire?

La notizia
A Frosinone è morta di infarto una madre di 50 anni, alla vista della figlia di 18, uscita da un coma durato qualche settimana, dovuto ad una malattia di origine genetica, che fa alzare i valori del grasso nel sangue, disturbo comunemente conosciuto con il nome di diabete latente. ''La figlia esce dal coma, madre muore per l'emozione''.
La Repubblica, mercoledì 25 luglio 2001

Il commento
Quando la cronaca dei giornali si occupa di genitori e di figli, di solito è per eventi luttuosi, come in questo caso, che ci colpisce e ci lascia sconcertati per una dolorosa mancanza di senso: la sconfitta della morte da parte della propria figlia emoziona a tal punto la madre da farla morire.

E' molto difficile ragionare intorno a una notizia come questa, poiché possiamo immaginare la tensione, la sofferenza, lo sconforto, che sicuramente hanno preceduto e accompagnato questo ricovero ospedaliero, tutta l'angoscia di una madre nel vedere annullate, in un coma, gli sforzi e le fatiche per accudire la figlia, probabilmente ammalata da molto tempo, e la gioia, rivelatasi devastante, nel sapere che è uscita dal coma, che ce l'ha fatta.

Ci prende lo sgomento: si può morire di amore materno ?

Il pensiero corre a tutto ciò che si è letto e ascoltato sul rapporto genitori - figli, il cui legame d'amore è dato sempre per scontato sia da una parte sia dall'altra, e che comporta invece difficoltà e fatica emotiva per tutti, quotidianamente, al di là di ogni retorica.

E' necessario ricordare che l'amore genitoriale, ed in particolare quello materno, non sembra essere così spontaneo, connaturato ed istintivo, se la storia sottolinea che in tutte le società, per secoli, indipendentemente dalla classe sociale o dal livello culturale di appartenenza, i bambini sono stati trattati in maniera che oggi è inaccettabile per il senso comune; perciò, forse, è necessario interrogarsi prima di tutto sulle motivazioni a diventare genitori, certamente le più varie, e non sempre del tutto chiare nemmeno ai genitori stessi.

Si desidera il bambino o il fatto di generarlo? E se lo si desidera, è per lui stesso o per quanto può dare alla nostra immagine, personale e sociale?

Per alcune donne a volte diventare madre serve a definire la propria identità, perché la maternità è sentita come unica possibilità di autentica realizzazione, di somiglianza con tutte le altre, ed analoghi motivi possono esserci nell'uomo, che vede nel figlio la possibilità di continuare se stesso e la propria opera, perpetuando il senso di appartenenza al nucleo familiare di origine dal quale, forse, non si è ancora staccato.

Ed è indubbio che, nel desiderio di un figlio, si nasconde anche il desiderio di potersi identificare con lui, di viverlo come un prolungamento di sé, per dare spazio finalmente a quelle proprie parti che da sempre si sentono non realizzate.

Alla luce di tutto questo corredo di aspettative e di desideri nei confronti di chi nasce, è possibile ipotizzare che, forse, nella coppia madre - figlia riportata dalla cronaca il rapporto possa aver risentito della pesantezza di aver trasmesso, da un lato, e ricevuto, dall'altro, una malattia, fatto che può aver scatenato sensi di colpa, rabbia, rivendicazioni; la madre può essersi sentita responsabile proprio "nel concreto", geneticamente, della vita difficile della figlia.

La psicologia del profondo ha scoperto il processo di formazione della mente, evidenziando la specificità della figura materna e della qualità della sua relazione con il figlio, in quanto punto di riferimento per la costruzione della mente stessa del bambino.

Proprio i primi contatti fisici ed emotivi con la madre, e perciò con la realtà esterna, permettono al neonato la strutturazione e il funzionamento della mente e della capacità di pensare; gli eventi concreti e le esperienze sensoriali dei primi tempi sono acquisiti nel mondo interno con le emozioni conferite dalla madre nei primi giorni e mesi, e via via si organizzano nella mente del bambino, fino ad assumere il valore di sentimenti, di pensiero, di comunicazione.

In questa prima fase di vita il bambino e la madre vivono in simbiosi, cioè in quello stadio, come afferma la Mahler, "nel quale madre e bambino sono racchiusi in un'identità duale onnipotente all'interno di uno stesso confine", necessaria al nuovo nato dato che il suo "Io" non è ancora attrezzato ad organizzare gli stimoli interni e esterni in modo da assicurarsi la sopravvivenza.

Successivamente, con la "fase di separazione - individuazione" avviene la "nascita psicologica", cioè la presa di coscienza interiore della propria esistenza come individuo separato, e la consapevolezza della propria unicità.

Ma questo processo già lungo e doloroso di per sé, poiché implica l'esperienza di realtà esterna e di realtà interna, di frustrazioni e di delusioni, può essere risultato ancora più difficile e tortuoso per questa coppia, per via della necessità di cure, delle preoccupazioni e delle paure legate alla malattia, che possono aver costretto madre e figlia ad un legame ancora più stretto ed ambivalente.

Individuarsi, per il bambino, significa accedere al mondo dell'autonomia e dell'espressione di sé, crescere insomma, e può certo valere il sacrificio psicologico della separazione; ma qual è il prezzo che deve pagare una madre nel favorire questo passaggio, così necessario per la maturazione del figlio? Se, come dicevamo, da qualche parte di sé un genitore sente il figlio come un suo prolungamento, e, in questo caso, può forse essere legittimo ipotizzarlo, avvertirne il processo di autonomia può spaventare, poiché significa evocare la propria fatica di crescere, oppure la perdita dell'oggetto nel quale riporre desideri ed aspettative, l'oggetto che colmava un senso di vuoto oppure dava senso alla propria esistenza.

L'attaccamento è uno dei più potenti sentimenti umani; se un genitore a suo tempo è stato o si è sentito un bambino poco accudito, a volte continua a covare nel profondo un senso di rabbia, di aggressività ostile e distruttiva, e un'insaziabile sete di riconoscimento che, come sappiamo dall'esperienza di chi commette violenze o abusi sui bambini, innesca una catena che può perpetuarsi da una generazione all'altra, sempre con lo stesso sfondo. Vale a dire il tacito assunto che il figlio o il bambino esiste per prendersi cura del genitore, per essere finalmente la sua salvezza, non dell'adulto di oggi, ma di quel bambino di un tempo che ancora reclama la sua parte di amore.

Essere genitori implica un doloroso paradosso: si chiede loro di instaurare un legame strettissimo con il figlio, fatto di accudimento, protezione, cure, amore, per permettergli di crescere, cioè di diventare autonomo e di liberarsi appunto di questo legame, condizione indispensabile per essere adulto; come diceva un genitore: "Devo insegnargli ad andarsene!".

Ma il rapporto genitore - figlio, per la sua scontata intensità, può facilmente diventare il luogo privilegiato dove depositare gli aspetti di sé non risolti, aggiungendo quindi pesi ulteriori al rapporto stesso; per esempio, se non si è stabilita chiaramente la separazione, prima di tutto con le proprie figure genitoriali, diventa molto difficile, in seguito, permettere che il figlio compia questo percorso, perché, se questo succede, viene meno un legame indispensabile al proprio senso di sé, alla propria sicurezza. Infatti, senza separazione non si è potuto fare esperienza di autonomia interiore, l'unica che può consentire, in seguito, di instaurare rapporti interpersonali autentici, e non costretti dalla dipendenza esasperata nei confronti degli altri.

Forse, ma possiamo solo fantasticarlo, dopo giorni e giorni nei quali questa madre, con un dolore indicibile, ha potuto solo assistere, impotente, la figlia che combatteva da sola per la sopravvivenza, vedendola riaprire gli occhi può essere stata sommersa non solo da una gioia altrettanto indicibile, ma dalla sensazione che, fuori pericolo la figlia, il suo compito di cura poteva diventare meno importante, e sentire così sciolto quel legame per lei, interiormente, ancora indispensabile.

Davvero allora, di fronte a tanta, ulteriore angoscia, il suo cuore può avere ceduto.

Tra legge di vita e legge di morte

La notizia
Pesaro, un ex poliziotto spara al figlio che si drogava e si ammazza. Un dramma familiare legato alla tossicodipendenza di un figlio di 17 anni, vissuta come una doppia sconfitta dal padre che, per gran parte della sua vita, la droga l'aveva combattuta come agente di polizia. Sarebbe questo lo scenario in cui è maturato l'omicidio-suicidio di Pietro Canopoli, 47 anni, poliziotto in pensione della questura di Pesaro, che lunedì sera ha ucciso con un colpo di beretta calibro 7,65 il figlio Maurizio, che voleva abbandonare la comunità di recupero dove stava seguendo un programma di disintossicazione dall'eroina. Padre e figlio avrebbero avuto un litigio in casa, a Cattabrighe nel Pesarese. Improvvisamente la discussione è degenerata fino a spingere l'ex agente a impugnare l'arma e sparare un colpo alla tempia del giovane, per poi togliersi la vita subito dopo, con un colpo alla tempia destra, esploso in rapida successione, stando in ginocchio davanti al cadavere del ragazzo. La ricostruzione è avvalorata dai primi risultati dell'autopsia svolta ad Ancona.
La Repubblica, mercoledì 1 agosto 2001

Il commento
E' un drammatico episodio del mondo della droga: un ex poliziotto di Pesaro spara al figlio che si drogava e poi si ammazza. La notizia è riportata in fondo ad una pagina di cronaca. Un ennesimo dramma familiare legato alla tossicodipendenza che quasi non fa neanche più notizia, tanto siamo abituati a leggerli sui quotidiani. Eppure, anche se troppe volte abbiamo sentito parlare di fatti del genere, non si può non restare colpiti dal particolare che il padre di quell'adolescente tossicodipendente, come agente di polizia, la droga l'aveva sempre combattuta. Dramma nel dramma, la sconfitta per quest'uomo è doppia dunque, e opportunamente questo viene rilevato. Come padre, anzitutto, che nel figlio drogato vede tutto il fallimento della sua funzione paterna. Come tutore dell'ordine e della legge, infine, che lo vede sconfitto, persino in casa propria. Di fronte a situazioni drammatiche come queste, qualche riflessione ritengo possa essere utile, se non altro per evitare di "girare subito la pagina del giornale"; o di esprimere giudizi, magari anche compassionevoli; o di scagliarsi contro i tempi che corrono e la gioventù di oggi…

La storia dell'essere umano, ci ricorda Freud, ha sempre inizio con la dipendenza, quella dipendenza radicale da un altro che si prende cura di noi quando siamo ancora fragili ed incompleti, tanto sul piano fisico quanto su quello psichico. Ora, la realtà che stiamo attualmente vivendo con la sua enfatizzazione di ideali di autosufficienza dell'individuo, pensato come libero ed indipendente, "che non deve chiedere mai"; come forte e competitivo, "sempre vincente", credo che possa aiutarci a capire un po' il sottofondo emotivo di questa tragedia. E' proprio in questo contesto socio-culturale di enfatizzazione di tali "valori" che il pericolo si annida subdolamente e sempre più in profondità, anche se perlopiù neanche ce ne accorgiamo. La fragilità implicita in ciascun essere umano, la bisognosità , il senso di inadeguatezza che ci caratterizza non possono essere eliminati né dalle potentissime "pastiglie del sabato sera", né dall'alcool, dagli psicofarmaci o dal sesso sfrenato. Anzi, proprio l'incremento di tali modalità evidenziano maggiormente, oggi forse più di ieri, quelle "malattie della dipendenza" - come qualcuno le ha chiamate - che la società con un meccanismo di diniego (direbbero gli psicoanalisti) evita di vedere. Nei decenni passati, infatti, l'uso delle sostanze stupefacenti era vissuto quale strumento di contestazione nei confronti di un mondo adulto sentito come limitante, rigido, ingiusto, con il quale c'era pur sempre una relazione, anche se di contrapposizione. Oggi, invece nelle attuali malattie della dipendenza non c'è più un soggetto di fronte ad un altro soggetto (come un giovane di fronte al padre, alla famiglia, alla società) c'è una persona tragicamente sola , che si lascia spadroneggiare da una sostanza fino a giungere ad una ferrea e non più risolvibile schiavitù. Tale sostanza diventa il "nuovo padrone" che allontana inesorabilmente dagli altri esseri umani. Chi se ne serve, lo pone a distanza, lo confina in un godimento autarchico, autogestito, solitario, dove ogni condivisione è abolita.

E, come può mai essere stata vissuta una realtà così drammatica da uno che tali sostanze, come agente di polizia, aveva sempre combattuto?

Questo tipo di "libertà" apparentemente assoluta, questa illusione di un farsi da sé senza l'altro del tossicodipendente (illusione che traspare nel suo "mi faccio") fa emergere sempre più prepotentemente una strategia inconscia che tende a far essere incessantemente presente proprio quell'altro di cui, apparentemente, si dice di non aver alcun bisogno, alcun desiderio. Sotto le spoglie di un "oggetto-sostanza", infatti, l'altro soggetto può finalmente essere posseduto direttamente quando si vuole, quanto si vuole e come si vuole. Ma, in realtà, all'interno di tale autonoma solitudine, né la sostanza di volta in volta usata, né l'espediente psichico affannosamente perseguito, riescono ad arginare quell'angoscia e quel vuoto nel quale il soggetto stesso si sente imprigionato. L'altro, infatti, con la sua esistenza separata, con il suo essere per natura distinto e diverso, testimonia e ricorda come le cose e le persone non possono essere mai possedute definitivamente, in ogni momento e per sempre. La sostanza che sembra magicamente cambiare l'assenza emotiva dell'altro (un tempo di un padre, ad esempio) in un vuoto che si può facilmente riempire, di fatto continua a riprodurre una mancanza nella misura in cui viene costantemente consumata.

Ma dove possiamo rintracciare le origini di questa tragica realtà ossessivamente ripetuta … talvolta fino alla morte?

E' qui che vorrei soffermare l'attenzione su quell'altro polo relazionale da cui il bambino dipende fin dalla nascita, quello paterno, per l'appunto. Tradizionalmente, il padre rappresenta l'autorità e la legge cui il figlio deve assoggettarsi, il codice mentale e comportamentale che verrà da lui progressivamente introiettato nel corso della vita a partire dalla primissima infanzia. Questa figura (insieme ad altre, ovviamente) diventa, agli occhi del bambino, modello e punto di riferimento per costruire il personale mondo relazionale e l'altrettanto personale modalità di interpretazione del reale. Può accadere, però, che il modello disponibile sia legato ad elementi negativi che finiscono per portare ad una situazione di ribellione e di rifiuto. Pensiamo, ad esempio, al rapporto del padre con il figlio/a, inevitabilmente caratterizzato da una grossa disparità. Il padre, invariabilmente, appare grande e potente, ma in alcuni casi tale forza sembra tanto più grande quanto più lontana dal mondo degli affetti: una potenza, in qualche modo, assoluta che esclude da sé ogni difetto ed ogni imperfezione. In tal caso, questo punto di riferimento disponibile sarà vissuto come inavvicinabile ed irraggiungibile; per un verso si desidererà diventare come il papà, altrettanto sicuri ed autorevoli; per un altro, la strada apparirà preclusa dalla propria, anche troppo evidente, fragilità e limitatezza. Tale situazione può condurre, con l'andar del tempo, ad un rifiuto del modello proposto e alla scelta di una "via negativa" di realizzazione. In questa difficile dimensione, la figura paterna di riferimento facilmente sarà continuamente attaccata, al fine di costruire quello che sembra l'unico modo possibile per affermare se stessi: "se non posso diventare uguale a te, papà, allora esisterò come qualcuno di completamente diverso da te". Il rifiuto del modello genitoriale, nel processo di differenziazione dalla potente immagine paterna potrà accompagnarsi, allora, ad un grande senso di colpa. Questo potrà tradursi in sentimenti penosi quali la disistima, la sensazione di non essere niente, di fallire continuamente, di doversi punire sempre più severamente, rinunciando progressivamente ad una propria vita affettiva, creativa, sociale. La tappa successiva potrà, infine, essere quella della totale abdicazione alla realizzazione della propria identità, fino alla morte direttamente provocata o indirettamente suscitata.

Solo all'interno di una dimensione triadica, ci ricorda infatti la psicoanalisi, dove padre e madre, entrambi, siano emotivamente presenti è possibile mediare a quella distruttività implicita nelle situazioni a due.

Può, allora, essere accaduto proprio qualcosa del genere a Maurizio e ai tanti ragazzi di cui troppo spesso leggiamo nella cronaca dei quotidiani? E può essere tutto questo che il padre di altrettanti Maurizio forse non è stato in grado di capire, in grado di tollerare, in grado di gestire? Non lo, ma so per certo che assistere quotidianamente agli effetti dei propri inevitabili errori, alle proprie possibili sconfitte, può suscitare il desiderio di far scomparire tutto quanto in un colpo; magari un colpo … di pistola, anzi due, se ad affrontare tutto ciò ci si sente soli, impotenti e abbandonati. Lasciati dal proprio ambiente esterno familiare e sociale, e, soprattutto non più sostenuti dalle proprie istanze interiori paterne. Quelle istanze di autorevolezza, di ordine, di legge possono allora diventare rigide, sempre più rigide, sempre più impositive, ed inversamente sempre meno affettive. Da elementi di comunicazione, di crescita, di vita trasformarsi, dunque, in elementi di morte … per figlio e padre , nonostante il disperato bisogno di raggiungere - almeno simbolicamente - con la stessa identica morte, quell'identità e quell'unità forse sempre cercata ma mai trovata.

Privacy: la libertà del privato o la privazione della libertà?

La notizia
Nell'articolo: ''Nuove tecnologie, privacy a rischio'' Stefano Rodotà, Garante per la tutela dei dati personali lancia l'allarme nei confronti delle nuove tecnologie che mettono sempre più a rischio il diritto individuale alla privacy.
Il Secolo XIX, Mercoledì 18 luglio 2001

Il commento
Da tempo, ormai, ci giunge l'allarme di quanto la nostra vita privata stia diventando sempre meno tale. Le notizie, in questo senso, arrivano da fonti diverse e sembrano turbare la nostra tranquillità: "Centinaia di migliaia di sistemi di controllo a distanza sono già operanti - ha ricordato il Garante - cresce in maniera esponenziale il ricorso a test genetici e crescono le pretese di assicuratori e datori di lavoro per utilizzarli nel valutare chi chiede un'assicurazione o un'assunzione.

Quindi, non solo ciò che accade qui ed ora, sembra venire meno alla tutela di uno spazio privato, ma la pretesa è anche quella di "predire", al nostro posto, attraverso gli strumenti di un determinismo genetico, come ci comporteremo dal punto di vista professionale o se saremo predisposti a determinate malattie piuttosto che ad altre.

In altre parole, la vita pare non appartenerci più; laddove la crescita e l'evoluzione di ognuno, per quanto carica di responsabilità - o proprio per questo - apriva l'orizzonte alla libertà, alla scelta ed alla possibilità di dare un indirizzo alla nostra esistenza. Ciò poteva riempire di solitudine la nostra vita: essa dipendeva da noi e noi soltanto potevamo decidere che indirizzo darle, ma il dialogo con l'altro veniva vieppiù accresciuto dalla sensazione di essere individui con una propria identità.

Quest'ultima può svilupparsi soltanto se abbiamo uno spazio interno ed esterno sufficiente nel quale confrontarci con i nostri bisogni, limiti e capacità; un luogo riservato dove porre le esperienze che via via facciamo, sicuri che saranno conservate senza essere distrutte.

Ora, invece, tale identità ci sembra negata: "si restringono gli spazi vitali delle persone, continuamente esposti a sguardi e messaggi indesiderati, ormai incapaci di godere di intimità, obbligate a vivere in pubblico, sottoposte ad un'implacabile registrazione di ogni atto anche quando si fa una passeggiata o si fa la spesa al supermercato."

Questo ci porta a riflettere su diversi livelli: ad un livello che potremmo definire più "arcaico", sentiamo che un'entità misteriosa, nel momento che ci controlla e non ci lascia spazio,attiva in noi il fantasma di un genitore che vuole impedirci di acquisire un'identità e di crescere,facendoci sentire come bambini non ancora separati da una madre onnipotente. Una madre che pretende di sapere tutto di noi, che ipoteca il nostro futuro e a cui non siamo in grado di mentire.

Inglobati da una tale figura che ha bisogno di controllare ogni cosa - e che attraverso questo denuncia la propria fragilità - ci sentiamo impossibilitati a qualsiasi riscatto. Una madre così persecutoria - poiché di noi non si fida - porta noi stessi a non fidarci di lei: "posti di fronte all'alternativa tra sicurezza e riservatezza, i cittadini non sempre scelgono la prima, è la nostra esperienza a dircelo, il bisogno di intimità sulle spiagge, ad esempio, porta a rifiutare ogni occhio indiscreto".

Il senso di persecutorietà aumenta, quindi, a livello esponenziale: chi ci controlla può essere inteso come una "cattiva madre", ma anche chi vuole sfuggire a questo controllo onnipotente diventa "cattivo".

Ad un diverso livello la riflessione, pur integrando le cose sopra dette, può assumere sfumature diverse: sempre più questa esigenza di controllo, questo bisogno di guardare ciò che accade agli altri, sembra essere presente in ognuno di noi. D'altro lato aumenta anche vertiginosamente il numero di persone che desiderano essere osservate e forse "invidiate" in ogni attimo della loro vita privata; il Grande Fratello ne è forse l'esempio più eclatante ma anche, meno autentico, costruito a bella posta per veicolare solo una parvenza di realtà.

Ci si chiede, allora, cosa ci può essere dietro a questo bisogno così impellente, a questa necessità che ha portato l'indice di ascolto della suddetta trasmissione alle stelle.

Forse tutto questo può nascere dal senso di esclusione provato da ognuno di noi, bambini piccoli, di fronte alla coppia genitoriale che ci portava ad invidiare ciò che immaginavamo i nostri genitori fossero l'uno per l'altro e a provare gelosia per la loro relazione.

Tale relazione poteva essere idealizzata, vista come qualcosa di bello e terribile al contempo, forse erano tenuti vivi nella nostra percezione infantile principalmente gli aspetti che potevano accrescere la rabbia e la gelosia.

Di fronte ad adulti sentiti così superiori,ci sentivamo piccoli, esclusi da un'intimità che poteva essere carica di paura e di desiderio. Noi, bambini, avremmo voluto essere al posto della mamma o del papà e ricevere l'affetto che sentivamo avremmo voluto tutto per noi.

Nella misura in cui non siamo riusciti a tollerare ed elaborare tale esclusione, possiamo rincorrere ancora con rinnovato desiderio infantile l'immagine di qualcosa che può essere solo visto da lontano e a cui non si può partecipare. D'altra parte, anche in chi tende ad esporsi può esserci lo stesso bisogno e timore, la stessa "gelosia" e "invidia" però negate e fatte vivere "in fantasia" a chi ammira, a chi, incuriosito, sembra spiare dal buco della serratura.

Sembra, quindi, esservi una sorta di scollamento, di scissione: da una parte la ragione, l'intelletto dell'essere umano ha ideato strumenti tecnologicamente avanzati, la scienza ha fatto passi enormi negli ultimi decenni, dall'altra l'uso che si fa di ciò che è stato inventato può essere posto al servizio di bisogni regressivi.

L'abbiamo visto: o il controllo di ogni cosa che impedisce la crescita e l'individuazione, o il guardare da lontano ciò che accade, illudendosi che sia sufficiente sentirsi esclusi a trovare un senso.