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L'alto prezzo dell'emotività negata

La notizia
E il medico diventa cinico. Ti rende cinico, quasi ''staccato'' dalla realtà emotiva che ti circonda. E ti fa diventare così ''cattivo'' da scaricare sugli altri, siano essi collaboratori, amici o ''utenti'' di quanto stai facendo, le tue frustrazioni. Convegno a Genova per studiare il fenomeno del Burn Out, il prezzo dell'aiuto agli altri.
''Il Secolo XIX, venerdì 9 novembre 2001

Il commento
E' la sindrome del Burn Out: può accadere a persone che si occupano degli altri a livello psicologico e sociale come medici, infermieri, insegnanti, magistrati, sacerdoti, psichiatri e psicologi. Chi decide di intraprendere queste professioni spesso ha motivazioni profonde che possono rimanere sconosciute al soggetto in questione. Tali motivazioni nascono e si sviluppano lungo l'arco della vita e in conseguenza delle proprie esperienze personali, in particolare all'interno della famiglia d'origine. Il desiderio di occuparsi di altri esseri umani può dunque derivare da un'abitudine acquisita fin da bambino a porsi come soggetto che ascolta e soccorre il genitore, per tale ragione rinforza in quest'ultimo lo statuto di individuo diventando una sorta di specchio nel quale egli può riconoscersi. Il sentirsi così importante nel farsi carico di questa funzione, pur nell'enorme presa di responsabilità, porta il bambino a sostenere l'adulto piuttosto che essere da lui sostenuto e riconosciuto, nel tentativo disperato di essere da amato.

Quando si diventa a propria volta adulti si può tendere a perpetrare questo modello, a farsi contenitore delle richieste e delle angosce altrui, oltreché dei bisogni fisici e psicologici. Nell'altro però può essere proiettato il nostro stesso bisogno, in noi non riconosciuto, negato e quindi scisso. L'illusione può renderci persone che "al di qua della barricata" si occupano di chi ha bisogno "al di là" dove chi è debole, fragile, malato o bisognoso di aiuto e di cure ci chiede qualcosa e dove noi ci sentiamo forti e in grado di dargliela.

Il non riconoscere però che anche noi possiamo essere individui estremamente bisognosi perché ciò può portarci a percepire anche la nostra fragilità e dipendenza arriva a farci sentire molto soli, nel tentativo di "curare" negli altri quello che non riconosciamo in noi stessi.

A questo punto però la richiesta di aiuto, il grido angosciante di chi non ammette deroghe ci risulta estraneo, pressante, persecutorio; sembra che una violenza invadente si appropri di noi non lasciando nemmeno lo spazio per pensare, per vivere i propri affetti, per elaborare i propri stati d'animo.

Il tentativo di attuare una difesa, di affermare che tutto questo dolore riguarda l'altro, malato o bisognoso di cure e d'attenzione ma non noi, può stare nel trasformarsi in esseri estranei a quanto stiamo vivendo, staccati dalla realtà emotiva vissuta come pericolosa. Il lavoro, allora, può essere svolto in modo automatico, a volte anche in maniera efficiente, purché la realtà emotiva non sia percepita, purché l'anestesia che ci procuriamo ci preservi da quegli stati d'animo che temiamo.

Questa posizione risulta essere, specialmente su tempi lunghi, estremamente limitante per l'individuo che la vive: essa porta a negare la percezione emotiva di buona parte delle esperienze che ci circondano, quindi a sentirci estranei, al di fuori del contatto con la realtà che si sta vivendo, quasi alienati.

Sembra una vita in cui sia difficile o impossibile apprendere dall'esperienza che pure stiamo vivendo: anche la nostra stessa facoltà di percepire stimoli emotivi diventa impoverita; la possibilità di imparare dagli altri sembra spegnersi ogni giorno di più, è "un morbo invisibile che può assumere le sembianze di una depressione invincibile ed è comunque difficile da curare".

Allora la risposta può trasformarsi in efficienza sul lavoro, in fatica estrema ed estrema solitudine: l'onnipotenza di chi si occupava degli altri malati e bisognosi diventa impotenza, disperata rinuncia a cambiare qualcosa, senso di sconfitta.

Gli "utenti" con le loro richieste diventano portatori di istanze che sembrano annientarci; sconosciute e pericolose esse ci rimandano il limite, la finitezza che è propria di ogni essere umano ma anche la frustrazione di sentirci quasi paralizzati di fronte a certi eventi che sembrano ripetersi sempre uguali.

Nel tentativo di difenderci da tanta angoscia della quale possiamo non capire l'origine ma che ci viene chiesta di contenere possiamo, allora, scaricare sugli altri le amarezze e il malumore: e se il problema non viene curato, nel momento in cui l'individuo diventa "capo" riproduce sui sottoposti la sua tensione creando un ambiente di lavoro invivibile.

Diventa visibile in questi stati come l'individuo chieda agli altri di farsi carico al suo posto dell'ansia che prova: qualcuno che sia in grado di contenere la delusione e la rabbia vissuta e in questo modo limitare e dare un senso, pur illusorio, a ciò che così pesantemente si vive.

Ma quale può essere la risposta, quale il lavoro da fare per impedire di essere colpiti dal "morbo invisibile" del Burn Out? La risposta può forse trovarsi in una maggiore conoscenza di sé, dei propri bisogni ed emozioni al fine di comprendere che esse possono accomunare tutto il genere umano pur se a livelli quantitativi diversi.

Conoscendo ciò che ci contraddistingue nel profondo non saremo tentati di negarlo e di vederlo solo negli altri come qualcosa che può attaccare e distruggere la nostra individualità.

Farmaci... basta un click!

La notizia
Sempre più Internet si rivela utile anche per scopi non chiarissimi. Ci si collega ad un sito e si può: ''comprare il Viagra senza ricetta né imbarazzanti visite mediche... si possono avere anche pillole contro l'Antrace, l'obesità, la caduta dei capelli... qualcuno bara!''.
''L'Espresso, novembre 2001

Il commento
A che cosa serve Internet? È un mezzo di comunicazione straordinario che consente a tutti quelli che possono essere collegati di usufruire di moltissimi servizi. Ovvero impedisce a coloro che ne sono privi l'accesso a tali servizi e ancora, permette agli utenti di usufruire di certi servizi perdendo la possibilità di affrontare davvero i problemi.

Sembra quasi, a volte, che sia soprattutto importante avere lì, "a portata di mouse" qualcosa a disposizione per poter soltanto pensare che le cose si possano risolvere, anche se, di fatto, non si acquisterà mai il Viagra "online".

A questo proposito, a dimostrazione della diffidenza che ancora le persone hanno (almeno in Italia) nei confronti degli acquisti in rete, ho letto recentemente che uno degli oggetti più "cliccati", in previsione di un acquisto, è un indumento intimo maschile: uno slip "tipo perizoma".

Al di là di queste considerazioni sul commercio telematico, non è mia intenzione criticare Internet, anche perché sarebbe intrinsecamente sbagliato, ma è forse il caso di interrogarci su come usiamo poveramente un mezzo potentissimo soltanto per difenderci dall'opportunità di affrontare i problemi che ci affliggono: Internet può essere utilissimo per tantissime cose, purtroppo anche per evitare di avere dei rapporti con le persone e con noi stessi.

E sì, perché a cosa serve avere il Viagra in forma anonima? (non parliamo dei farmaci offerti contro l'Antrace che probabilmente sono soltanto il frutto di un'operazione commerciale dovuta esclusivamente alla paura che sta attanagliando tutto il mondo occidentale)

Cosa ci si guadagna?

Cosa si perde?

Si guadagnano tante illusioni, si spera che con un "clic" e la pillola promessa si possano mettere le cose a posto. Si pensa che in questa maniera non si perde troppo tempo.

Si perde il rapporto con una persona: anche ammettendo che un farmaco come il Viagra possa risolvere un sintomo, si perde il significato del problema e anche della persona con cui siamo.

E per quello che riguarda il rapporto altrettanto importante con il medico: non è la stessa cosa comprare un farmaco quasi di nascosto e anonimamente piuttosto che alla fine di un colloquio con un medico; un farmaco ha una sua efficacia, ma questa dipende anche da come lo si assume e da chi lo somministra, se l'approvvigionamento anonimo dà soltanto la possibilità di non parlare con nessuno di sé, il risultato è soltanto quello di aumentare la cappa di silenzio che incombe sopra e dentro di noi con annesso un aumento della sofferenza, del senso di solitudine e della sensazione di onnipotenza di poter fare tutto da soli.

Inoltre non ci concediamo "del tempo". Non prendiamo tempo per riflettere e per pensare un po' a noi stessi. È la stessa cosa che non avere rispetto per noi stessi. Si abolisce qualsiasi responsabilità verso di noi, si elimina la responsabilità dei nostri pensieri, delle nostre emozioni e dei nostri problemi.

Un sintomo, una sofferenza, non nascono a caso nel nostro organismo, sempre hanno un significato. Se troviamo il modo di non pensarci le cose rimangono sempre uguali a se stesse fino a quando non assumono dimensioni tali per cui non è più possibile fare qualcosa.

Un banale mal di testa può senz'altro avere origini organiche, ma può anche avere il significato di una reazione inconscia del nostro organismo quando, non volendo parlare di qualcosa che non va, ad esempio con il partner, preferiamo "un bel mal di testa" alla relazione con l'altro. A questo punto a cosa serve l'analgesico? Forse a fare passare il mal di testa, ma sicuramente anche a non pensare e a credere che il corpo e la mente siano due entità separate quasi in lotta fra di loro.

Eugenio Gaddini, uno psicoanalista recentemente scomparso, nel suo scritto Note sul problema mente - corpo del 1980 inizia così il suo lavoro:
"La psicoanalisi considera l'attività mentale come la funzione più altamente differenziata del corpo, talmente differenziata da richiedere un suo proprio metodo di indagine, atto cioè a studiare i suoi fenomeni come sono, indipendentemente dai presupposti biologici che li sottendono. Tuttavia, la psicoanalisi considera il corpo e la mente sotto l'aspetto di un continuum funzionale, l'elemento chiave del quale rimane quello di un processo, nella differenziazione della funzione mentale, la cui direzione è dal corpo alla mente, ma che la psicoanalisi studia nella direzione dalla mente al corpo"

Gaddini spiega come questo "continuum funzionale" nasca e si sviluppi necessariamente nel bambino attraverso una costruzione di un sé mentale che passa attraverso la ricostruzione di un sé corporeo. Prima della nascita i confini del feto sono reali, concreti: il liquido amniotico, la parete uterina che contiene e dà una forma al sé. Mente e corpo sono per forza la stessa cosa. Dopo la nascita tutto muta; il bambino impara a fare le prime cose, ovvero comincia a funzionare per determinati aspetti e deve costantemente imparare che esiste un limite al suo corpo e che esiste anche una sua mente, o funzione mentale, che non ha ancora trovato il contenitore adatto.

Quello che accade quando siamo un po' più grandi sembra essere molto simile; una malattia o un sintomo emergono e ci colpiscono nel corpo, ci sembra impossibile che altro rispetto al corpo possa avere un ruolo. Facciamo troppa fatica ad accettare come una qualche funzione mentale (affettiva, emotiva, interiore) non abbia trovato un altro mezzo per evidenziarsi.

Mitscherlich in Malattia come conflitto, dice: "la malattia non è mai in nessun caso qualcosa di fortuito che agisce in maniera anonima: la malattia è una delle possibilità di reazione che si presentano all'individuo allorché si trova in quella che gli appare una situazione senza via di uscita".

E ancora Chiozza in Per un incontro fra psicoanalisi e medicina: "Ogni malattia ha un significato umano che consiste nel fatto che, in qualche modo, un uomo è allontanato dalla sua decisione [ … ]. Esiste, quindi, una partecipazione dell'uomo alla sua malattia, tanto all'origine quanto al decorso della stessa".

Per ritornare al discorso su Internet e i farmaci, non è per questo che è nata Internet, non è un contenitore di pubblicità e basta, o una vetrina, questo è l'uso che ne facciamo, ma è un uso puramente difensivo, quasi patologico, per nulla comunicativo. Senza contare che la Rete non è così nella sua sostanza, siamo noi che ne utilizziamo gli aspetti più "perversi", trascurando le potenzialità comunicative e creative che essa ci offre.

Halloween tra vecchie angosce e nuovi terrorismi

La notizia
E se questa volta gli spiriti malvagi si materializzassero? Se lo è chiesto in un inchiesta il Wall Street Journal e se lo chiedono milioni di americani che di stanno preparando alla festa di Halloween. Con i bambini che scelgono i costumi da indossare la notte del 31 ottobre per poi andare da una casa all'altra dei vicini, formulando l'innocua minaccia: "dolcetto o scherzetto"?
''Il corriere della Sera, di sabato 20 ottobre 2001

Il commento
Il nuovo incubo terroristico si chiama antrace.
Il postino contagiato a Washington è morto; la camera e il senato USA restano chiusi.

Ora, tenere sotto controllo la paura e la nevrosi è forse il compito più difficile...migliaia di persone potrebbero essere contaminate...anche i telegiornali e i mass media divulgano ormai notizie agghiaccianti, senza protezione per le" psicosi collettive".

Bacilli come antrace, vaiolo o anche gas nervini diventano i protagonisti dei nostri pensieri, e dei nostri incubi notturni.

La spirale della guerra infrange tutte le barriere ed in qualche modo, paradossalmente, elimina le diversità; sembra che a tutti noi possa toccare la stessa sorte e che una polverina mortifera vada lentamente spargendosi sulle nostre parti vitali.

Di fronte a questo appiattimento delle aspettative e delle progettualità di ciascuno, dobbiamo ritrovare un bagliore di vita.
Alla mostruosa dispersione di ogni nostro slancio vitale, di ogni speranza e progetto per il futuro nostro e dei nostri figli, dobbiamo cercare di opporre una forte e consapevole presa di coscienza che ci permetta di rispondere in maniera soggettiva e non massificata.
Questo attacco terroristico, prima di attentare alla nostra incolumità fisica, sicuramente mette a repentaglio la nostra incolumità psichica.

Ognuno di noi rischia di diventare un potenziale paranoico capace di scambiare dell'innocuo zucchero sui dolcetti di Halloween per polvere di antrace.

Da tempo si parlava della possibilità del bio-terrorismo, ma si diceva che il completamento del progetto-genoma e l'approfondimento del sapere, riguardo a malattie di tipo epidemico come l'antrace e il botulismo, avrebbero permesso, in un prossimo futuro, di ottenere vaccini in grado di proteggere le società occidentali da possibili attentati, oltre che da epidemie di tipo naturale.

Paradossalmente, il nuovo incubo terroristico parte da un'anonima lettera d'amore, scritta alla attrice cantante Jennifer Lopez e recapitata alla redazione del giornale scandalistico Sun in Florida, una settimana prima dell'11 settembre.
Assieme alla lettera c'era della polvere bianca e un talismano ebraico, e come tante lettere di fans è stata cestinata. Dopo un mese, Robert Stevens, fotografo del settimanale Sun, è morto stroncato dal carbonchio e ora si indaga su quella lettera.

Il dottor Gupta, famosissimo neurochirurgo e consulente medico della Cnn cerca di tranquillizzare milioni di americani spaventati dal nuovo incubo del terrorismo biologico con queste parole: "l'antrace è un virus pericoloso, causa una malattia, il carbonchio, che può essere mortale. Tuttavia è una malattia che non si trasmette da uomo a uomo attraverso il respiro, come l'influenza. Può essere curata con diversi tipi di antibiotici facilmente reperibili sul mercato...."

Anche a Milano è scoppiata la "psicosi" da polverina.
La paura del carbonchio dilaga . L'Asl sta tenendo segreti i falsi allarmi. L'ultima scoperta della famigerata polverina bianca è stata fatta allo scalo ferroviario Fiorenza, in via Triboniano, il deposito dove si fa manutenzione degli Eurostar.

Quando qualcosa di molto forte, come ad esempio la morte, esce dalle consuetudini, si crea un vuoto emozionale nel quale entrano paura e ansietà, mistero e incertezza.

Dapprima ci siamo trovati ad affrontare la visione della catastrofe delle torri gemelle in diretta, poi giorno dopo giorno, ora dopo ora, le stesse sconvolgenti immagini ci sono state riproposte, costantemente, in modo ossessivo, senza quiete. Quelle sequenze fotografiche, si sono trasformate in una unica immagine alla moviola che, al rallentatore, fa sprofondare, dalle torri di relativa sicurezza, in un mondo di macerie, dove tutto deve essere ripensato per non soccombere, sempre che ci sia concesso.

Allora, il rapporto fra fotografia e morte, il perturbante - l"unheimlich"- di cui ci parla Freud, diventa più chiaro e imperioso e va a sostituirsi a quel vago senso di nostalgico impedimento che tante volte rende difficile, a nostra insaputa, ordinare le fotografie in album.

Sembra così più chiaro il senso di imbarazzo che si può provare davanti a una fotografia perché nel momento stesso in cui è scattata, si partecipa alla mutabilità della persona, il "qui ed ora" del soggetto è già passato e inizia la nostalgia del ricordo, del non più...

Tutto questo è un utile esercizio di micro - separazioni, nostalgici rimpianti di una giovinezza che sta passando, visi di nostri cari che nel blocco delle foto, immobili, ci richiamano ad altri tempi perduti.

Ben altra cosa è vedere e rivedere per mille sequenze drammaticamente sempre uguali, le immagini dello sgretolamento delle due torri, e pensare che in quell'istante ripetuto all'infinito, coperti da un pietoso velo di polvere, migliaia di corpi, di vite, di progetti futuri, di pensieri vitali, si sono schiantati al suolo, in un fragore, questa volta sì, globale.

La reazione di ciascuno di noi a questi fatti è fortemente soggettiva, ma, comunque, essi hanno inciso profondamente sul nostro modo di essere sulla terra.

. Le immagini che si ripetono ossessivamente, si incuneano nelle menti come un "memento" che travalica l'obbiettiva tragica realtà americana.

La fotografia è servita anche a questa funzione simbolica.

Lo sgomento prodotto dai fatti e sostenuto dalle immagini di distruzione e morte, sta ora, con il terrorismo biologico, toccando stadi ancora più primitivi di paure ancestrali.

La contaminazione mortale può provenire da qualunque fonte e ciò è profondamente destabilizzante.

Ora non abbiamo immagini, a cui appellarci, per significare il nostro sgomento.
È una paura più sorda e insidiosa, che non ha volto: non si fotografa il batterio e neppure le persone contaminate; adesso dobbiamo davvero fare i conti, ciascuno con i propri fantasmi, e, con questi, imparare a convivere.
Il veicolo della morte è diffuso e non ha forma.
Sembra che nessuno abbia protezione, tutti sono potenzialmente esposti.
Questo fa sì che ciascuno venga risucchiato indietro verso angosce senza nome in cui, il bambino che è in noi, non ha strumenti di simbolizzazione. Ciascuno, per quanto adulto, deve forzatamente fare i conti con il bambino impaurito che è stato e con il bambino che è ancora.

Difficile compito, allora, quello di genitori perché costretti a tenere a bada i bambini che hanno e i bambini che sono.

Anche i bambini più fortunati, quelli non toccati direttamente dalle morti, sono stati privati della possibilità di esorcizzare le proprie paure con spensieratezza.

La festa di Halloween ne è un esempio simbolico.
"Dolcetti o scherzetti"; fino ad oggi, con questo ritornello giocoso, generazioni di bambini hanno potuto prendere contatto col mondo pauroso e sconosciuto dei morti, complici gli adulti .

Ma ora, come sarà quest'anno?

I bambini devono fare i conti con la soggettività e le fantasie dei genitori e ne subiscono l'influenza.

Ecco allora che, inaspettatamente, attraverso la notizia giornalistica della paura per la festa di Halloween, i bambini tornano in scena. Noi adulti, presi dallo sconvolgimento degli attacchi terroristici, ci siamo forse dimenticati di loro, di quei piccoli americani che possono avere ancora, dentro di sé, il desiderio di partecipare, come ogni anno, il 31 ottobre a questa festa e che mai come adesso hanno bisogno di esorcizzare.

Il bambino nutre dentro di sé il bisogno della normalità per poter crescere. Noi analisti sappiamo che può sviluppare la sua vitale capacità di affidarsi e fidarsi solo se sostenuto, durante il percorso evolutivo, da "una madre sufficientemente buona", come direbbe Winnicott.

Dove ovviamente per" madre" intendiamo tutto l'ambiente generativo.
Ma come è possibile, mi domando, provare, in questo momento, fiducia e serenità da trasmettere ai nostri figli?

Hanno bisogno di giocare, ridere, gioire...oggi questo è molto più difficile, e l'allegria di una mamma americana rischia di essere disarmonica con il resto dei suoi pensieri.

Come si deve affrontare il tema della guerra e della violenza con i piccoli che si affacciano ora alla vita?

Stiamo con i nostri bambini, parliamo loro, in un linguaggio semplice, delle nostre e delle loro paure, ascoltiamoli, non utilizziamo la negazione come semplice meccanismo di difesa! Solo così potranno vivere le loro feste, affrontare le paure, sentirsi sorretti da genitori capaci di ammettere le loro ansie, senza necessità di trasformarsi in super-man.

Perché, possiamo ammetterlo, la tragedia americana ha scaraventato anche noi adulti in un baratro di incertezze che dobbiamo faticosamente e lentamente elaborare, per presentarci ai nostri figli quali loro ci vogliono, e cioè veri.

In carcere... per vivere!

La notizia
La strana visita di un ladruncolo dal carabiniere che lo arrestò. ''Fatemi tornare in carcere fuori non ce la faccio più''.
''Il Lavoro, di lunedì 29 ottobre 2001

Il commento
E' una notizia curiosa quella di un ladruncolo che chiede di essere messo in carcere … per non rubare. E' una notizia che, proprio per questo, può suscitare interrogativi e far nascere la voglia di andare a vedere che cosa ci possa essere dietro una così "strana richiesta".

E subito alla mente viene spontaneo pensare quanto, infatti, sia difficile trovare dentro se stessi la capacità di controllare i propri bisogni, di gestire i propri impulsi, di modulare i propri desideri. Il detto popolare: "L'occasione fa l'uomo ladro" sembra sottintendere, per l'appunto, tale difficoltà e acutamente mette in evidenza che non è solo un problema di pochi, ma di ogni uomo, anche se per alcuni -più che per altri- tale problema diventa drammatico.

Come mai?

L'osservazione clinica e le conoscenze psicoanalitiche possono darci una mano nel tentativo di capire qualcosa.
Ogni essere umano, in un determinato momento della sua vita, ha fatto l'esperienza di essere guidato, se vogliamo "educato" a gestire quel crogiuolo di emozioni, sentimenti, bisogni che provava, al fine di mettersi in rapporto con gli altri e con il mondo. Alludo, per esempio, al momento delicatissimo, nella prima infanzia, dell'educazione degli sfinteri, ovvero l'apprendimento del bambino a fare cacca e pipì in determinate circostanze e in dati luoghi, con tutti i vissuti psichici sottesi. Alludo, poi, al momento fondamentale dell'introiezione della legge paterna, quale risoluzione della problematica edipica, quando fra i 3, 5 anni il figlio realizza l'identificazione con il genitore del proprio sesso come superamento degli intensi sentimenti di gelosia, rabbia e aggressività nei confronti del padre (per il bambino) e della madre (per la bambina), vissuti come rivali nella conquista della esclusività dell'amore del genitore dell'altro sesso. Alludo, infine, al drammatico periodo dell'adolescenza quando, nella ricerca di una propria identità, il giovane , deve fare i conti con un retaggio familiare di relazioni, codici, valori, leggi assimilati ed una nuova realtà esistenziale da pensare, elaborare e realizzare. Ed è proprio questo il momento in cui, da quella situazione dove erano gli adulti a guidare, ad indirizzare si può realizzare il passaggio ad una capacità di gestire più autonomamente la propria realtà emotiva e la propria capacità relazionale. Ma è anche questo il momento dove, come dire, i "nodi vengono al pettine". Sappiamo che una personalità può svilupparsi nella misura in cui è in grado di sopravvivere, a livello psichico, alle gravose esperienze del cambiamento e delle perdite che tale cambiamento inevitabilmente comporta. Ora questo è possibile se si è stati in grado di creare un' identificazione con una figura interna pensante, come dire, con un centro di amore e di attaccamento, che alla fine può funzionare in modo autonomo dalla sua origine e rappresentazione esterna. In altre parole, la crescita, l'evoluzione, la realizzazione a livello psichico dipendono dal fatto che il "nucleo originario" di ogni essere, quel Sé inesperto ed ancora immaturo, venga inizialmente contenuto (direbbe Winnicott ) e guidato nel corso dei suoi rapporti intimi in famiglia, prima, e nella vita poi. Ora, se questo è mancato o è stato inadeguato, si possono aprire alcune prospettive esistenziali anche drammatiche. Esse vanno dalla incapacità a tollerare autorità, norme, leggi; alla impossibilità a contenere vissuti, stati d'animo … fino alla richiesta all'altro di essere lui quel contenitore che si sente mancante dentro se stessi. I modi sono molteplici: dalla fanatica adesione al credo (politico, religioso, filosofico) del capo; alla acritica adesione ai modelli sociali dominanti; all'appoggio emotivo simbiotico con il partner … fino alla richiesta esplicita al tutore dell'ordine di essere incarcerato, come succede a Roberto M. Il motivo è sempre lo stesso: fammi da contenitore!

Rimane ancora da capire il senso di quello che la psicoanalisi definisce un "agito": quella necessità di rubare di cui Roberto non può fare a meno. Senza pretendere di analizzare il caso, si può però presumere che tale comportamento possa avere anche più di un significato: magari ripristinare qualcosa che si avverte come andato perduto, ad esempio un rapporto padre/figlio. Potrebbe esprimere aggressività, cioè un modo di privare qualcun altro di un oggetto per invidia e rabbia primitive; oppure potrebbe essere il tentativo di colmare con cose preziose appartenenti ad altri una povertà interiore sentita come molto profonda e dolorosa. Potrebbe trattarsi ancora di una reiterata protesta per un'attenzione ed un accoglimento che, nella storia infantile, non sono stati dati con sufficiente continuità dalle persone significative di riferimento. O potrebbero esserci altre ragioni ancora.

Quello che qui si vuole, però, cercare di mettere in luce è un fatto estremamente importante. Al di là delle varie strategie che si possono attivare più o meno inconsapevolmente per sopravvivere, ciò che si ricerca con esse è il tentativo di sfuggire al dolore mentale o se vogliamo, di affrontare tale dolore con delle azioni piuttosto che con il pensiero. E questo si può presentare in qualsiasi stadio della vita, anche in età adulta inoltrata, perché è lo stato mentale dominante che finisce per favorire l'azione rispetto alla riflessione e che provoca reazioni infantili invece di risposte adulte. Sta qui il dramma di ogni essere umano, di ognuno di noi, dunque, nel momento in cui ci si trova ad oscillare di fronte alle quotidiane fatiche della vita e alle difficoltà della realizzazione dei rapporti con gli altri.

Cercando che i morti non siano morti

La notizia
Un mese di funerali fantasma per i dispersi delle Torri'.
''La Repubblica'' di giovedì 11 ottobre 2001

Il commento
Stretti da angosce terribili in questa crisi planetaria, tormentati dall'ansia di tutto quanto può ancora accadere, facciamo fatica sia a distogliere lo sguardo da questi avvenimenti, sia a fermarci un attimo su quanto è già accaduto, su quella realtà fatta di singole storie spezzate, di piccole quotidianità ineluttabilmente segnate dalla morte.

Ma questa notizia richiama con una certa imperiosità la nostra attenzione proprio su quell'universo sofferente e multiforme che è già stato buttato inesorabilmente dentro la Storia.

Ci sono migliaia di persone che non potranno mai più rivedere, non solo in vita, ma neanche in morte, coloro a cui erano legati da una storia comune: mariti, mogli, figli, fratelli, padri, madri, amici… Questo, ci dicono, rende la perdita ancora più ingiusta e assurda, ancora più intollerabile.

Si istituisce inaspettatamente un distinguo, non tanto all'interno del morire come evento fisico, che ovviamente è comune a tutti, quanto sui modi e sulle risultanti della morte.

Il distinguo, in realtà, riguarda i vivi e non i morti. In un tentativo di ordinare la marea di emozioni, i vivi sembrano stilare tristi graduatorie: si sentono più fortunati o più sfortunati a seconda se hanno potuto riavere "qualcosa" del proprio caro o se invece lo devono per sempre abbandonare nella grande fossa comune delle Twin Towers.

La rinuncia definitiva ai "resti" sembra essere l'inaccettabile. Ognuno cerca con i propri strumenti di affrontarla e allora avviene un fenomeno che colpisce perché si riproduce mille e mille volte: ogni nucleo familiare cerca di far riferimento a quella ritualità dell'accompagnamento del defunto verso l'ultimo viaggio, che la tradizione ci offre come momento sociale di conforto. Si celebrano innumerevoli funerali, ma questa volta la persona non c'è più neanche nel corpo: è questo nulla l'impensabile con cui confrontarsi.

Ma se confidiamo nel fatto che tentare di dare un senso, un significato emotivamente plausibile, a ciò che accade fuori e dentro di noi può renderci più tollerabile il peso dell'umana fatica, forse anche di fronte a queste esperienze, vale la pena di chiederci come mai l'impossibilità di recuperare i resti mortali di una persona a noi cara apra spazi di irrealtà e di dolore più ampi e acuti di quelli già sconfinati propri di coloro che le salme le possono piangere.

La morte, tutte le volte che la incontriamo, ci interroga sulla vita.

La morte è quella degli altri, la vita la nostra. Ma è una pura astrazione di comodo pensare alla nostra esistenza come una realtà a se stante, isolata e non intersecata da una rete fitta di altre storie: se ogni nuova intersezione è un potenziale arricchimento che ci viene offerto, una articolazione in più, ogni taglio è una perdita che ci costringe a rivedere profondamente l'intreccio.

Nei primi momenti il dolore è quasi follia: si vorrebbe cancellare l'incancellabile, chiamare chi non può più rispondere, sentire il contatto che ci è sfuggito per sempre, vedere il guizzo vitale di quegli occhi che non ci sorrideranno… E ci sentiamo in colpa per il nostro vivere, ci sembra di rubare qualcosa che è di proprietà altrui, vorremmo morire con i nostri morti.

In fondo l'amore e il dolore sono a ben guardare le esperienze che più accomunano gli uomini, e come dice Croce: "con l'esprimere il dolore nelle varie forme di celebrazione e culto dei morti, si supera lo strazio, rendendolo oggettivo. Così cercando che i morti non siano morti, cominciamo effettivamente a farli morire in noi. Né diversamente accade nell'altro modo col quale ci proponiamo di farli vivere ancora, che è continuare l'opera a cui essi lavoravano, e che è rimasta interrotta."

Una prima riflessione, nella ricerca di possibili spiegazioni del fatto, per altro comunemente condiviso, che la mancanza del corpo da piangere renda l'esperienza della perdita ancora più drammatica, risale necessariamente all'indietro, fino agli esordi della vita.

Il neonato intensamente succhia, attività primitiva e riflessa che contemporaneamente gli garantisce la vita e la conoscenza del mondo.

Quest'atto di incorporazione primigenio risulterà, così, fondante il nostro mondo emotivo; un desiderio ardente di possedere qualcosa che sta al di fuori di noi, da cui sembra dipendere la nostra vita, comparirà costantemente al nostro orizzonte e con forza connoterà, per esempio, le esperienze amorose della vita adulta.

Però, questo intenso desiderio di possedere, di incorporare in sé ogni oggetto sentito come necessario alla sopravvivenza, è direttamente legato alla paura della perdita e in una reazione umana universale possiamo cogliere questa profonda connessione: quando siamo di nuovo di fronte ad una persona (o cosa) riottenuta dopo una separazione l' azione riflessa dell'abbracciare, dell'aggrapparsi, dello stringere a noi, mostra chiaramente il nostro desiderio di incorporare quello che è stato-e perciò potrebbe essere di nuovo- perduto.

Paura e desiderio sono infatti indissolubilmente legati, appartengono alla stessa esperienza, sono due aspetti della stessa emozione. Il timore della frustrazione, della totale deprivazione dell'appagamento ci espone ad angosce di annichilimento, e nelle situazioni di lutto siamo chiamati ad evitare la perdita più irreparabile e decisiva: quella di noi stessi.

Possiamo allora ipotizzare che riabbracciare, rivedere, toccare, anche se davvero per l'ultima volta,

il corpo della persona che ci ha lasciato, un poco ci aiuti a intraprendere la dolorosa fatica della separazione.

Il rischio di non oltrepassare l'esperienza, di restare fissati e polarizzati in essa, prigionieri di immaginazioni parassitarie, rende improrogabile il lavoro del lutto, cioè quel dinamismo di affetti e di pensieri che ci permette di far spazio dentro di noi, nel nostro mondo interno, al valore di quel legame a cui abbiamo dovuto rinunciare in senso interpersonale. Solo così il distacco e la perdita possono diventare anche un'opzione per la vita.

"Coloro che conoscono i fantasmi ci dicono che anelano a essere liberati dalla loro vita di fantasmi e condotti a riposare come antenati. Come antenati continueranno a vivere nella generazione presente, mentre come fantasmi sono costretti ad ossessionarla con la loro vita di ombre".(Hans Loewald)

Ma come possiamo essere aiutati a concedere il riposo ai nostri fantasmi? Evidentemente dobbiamo essere capaci di separazione, dobbiamo poter passare da un'esperienza di dipendenza affettiva ad una di autonomia. E forse anche da questa angolatura può risultare significativa la presenza tangibile del corpo.

Se abbiamo potuto imparare a riconoscerci negli altri senza il terrore di rimanerne confusi e imprigionati, se abbiamo potuto accedere alla nostra creatività, se abbiamo potuto giocare con le idee tanto da partecipare con godimento ad una comune esperienza culturale, di tutto ciò dobbiamo riconoscenza a quelle innumerevoli, semplici esperienze di contatto, di intense sintonie emotive in cui mamma e figlio, insieme, sperimentavano giocosamente il paradosso: stiamo bene separati - è impossibile separarci. Queste esperienze di confine in cui non bisognava forzatamente sciogliere l'enigma del punto esatto dove finisce il Me e inizia il Non-Me sono state fondamentali per i nostri equilibri psichici, e allora perché non immaginare che ancora possano venirci in soccorso quando siamo chiamati ad esperienze così squassanti?

Se ancora per un poco possiamo vivere in uno spazio potenziale dove non è urgente aderire all' inesorabile Principio di Realtà, che senza pudore e reticenze ci dichiara l'irrimediabilità dell'accaduto, se possiamo concederci una gradualità che sia più rispettosa della delicatezza delle emozioni coinvolte, se possiamo vivere un'illusione di presenza senza sentirci folli, ci proteggiamo da un eccesso di realtà accecante: per un po' ancora, però, abbiamo bisogno di un corpo, di una prova tangibile che qualcosa è rimasto e che ci concede di essere "sacralizzato".

Abbiamo bisogno di tempo, non per negare, ma per elaborare, per separarci a poco a poco da qualcosa, anzi qualcuno, che ci è appartenuto, a cui siamo appartenuti profondamente. Dobbiamo poter avere il modo di riappropriarci di ciò che di nostro gli avevamo affidato.

Vi è forse ancora almeno un aspetto che possiamo prendere in considerazione: nessun vivo sa davvero qualcosa dell'esperienza della morte. La si fa una volta sola e non c'è quindi possibilità di confrontarsi.

Ognuno, per quanto ci abbia pensato, la affronta comunque impreparato.

In effetti, per sedare il timore che sia una terribile esperienza, può solo contare su un ben misero bagaglio di supposizioni costruite "spiando", addolorato e spaventato, l'ultimo attimo degli altri. Risulta così essere di conforto potersi dire: "guarda che espressione serena, sembra che dorma…". Ma con quale livello di falsificazione possiamo tentare un pensiero del genere per le vittime della ferocia e dell'insensatezza umana? E' improponibile. Allora ecco che quei corpi profanati, smembrati, mischiati al ferro e al cemento, non più riconoscibili come umani, urlano un'altra dolorosa verità: non sappiamo nulla della morte, è un segreto che i morti custodiscono, dobbiamo affrontare davvero l'ignoto. Tutto è così ancora più tragico.