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Di separazione si può morire?

La notizia
A Frosinone è morta di infarto una madre di 50 anni, alla vista della figlia di 18, uscita da un coma durato qualche settimana, dovuto ad una malattia di origine genetica, che fa alzare i valori del grasso nel sangue, disturbo comunemente conosciuto con il nome di diabete latente. ''La figlia esce dal coma, madre muore per l'emozione''.
La Repubblica, mercoledì 25 luglio 2001

Il commento
Quando la cronaca dei giornali si occupa di genitori e di figli, di solito è per eventi luttuosi, come in questo caso, che ci colpisce e ci lascia sconcertati per una dolorosa mancanza di senso: la sconfitta della morte da parte della propria figlia emoziona a tal punto la madre da farla morire.

E' molto difficile ragionare intorno a una notizia come questa, poiché possiamo immaginare la tensione, la sofferenza, lo sconforto, che sicuramente hanno preceduto e accompagnato questo ricovero ospedaliero, tutta l'angoscia di una madre nel vedere annullate, in un coma, gli sforzi e le fatiche per accudire la figlia, probabilmente ammalata da molto tempo, e la gioia, rivelatasi devastante, nel sapere che è uscita dal coma, che ce l'ha fatta.

Ci prende lo sgomento: si può morire di amore materno ?

Il pensiero corre a tutto ciò che si è letto e ascoltato sul rapporto genitori - figli, il cui legame d'amore è dato sempre per scontato sia da una parte sia dall'altra, e che comporta invece difficoltà e fatica emotiva per tutti, quotidianamente, al di là di ogni retorica.

E' necessario ricordare che l'amore genitoriale, ed in particolare quello materno, non sembra essere così spontaneo, connaturato ed istintivo, se la storia sottolinea che in tutte le società, per secoli, indipendentemente dalla classe sociale o dal livello culturale di appartenenza, i bambini sono stati trattati in maniera che oggi è inaccettabile per il senso comune; perciò, forse, è necessario interrogarsi prima di tutto sulle motivazioni a diventare genitori, certamente le più varie, e non sempre del tutto chiare nemmeno ai genitori stessi.

Si desidera il bambino o il fatto di generarlo? E se lo si desidera, è per lui stesso o per quanto può dare alla nostra immagine, personale e sociale?

Per alcune donne a volte diventare madre serve a definire la propria identità, perché la maternità è sentita come unica possibilità di autentica realizzazione, di somiglianza con tutte le altre, ed analoghi motivi possono esserci nell'uomo, che vede nel figlio la possibilità di continuare se stesso e la propria opera, perpetuando il senso di appartenenza al nucleo familiare di origine dal quale, forse, non si è ancora staccato.

Ed è indubbio che, nel desiderio di un figlio, si nasconde anche il desiderio di potersi identificare con lui, di viverlo come un prolungamento di sé, per dare spazio finalmente a quelle proprie parti che da sempre si sentono non realizzate.

Alla luce di tutto questo corredo di aspettative e di desideri nei confronti di chi nasce, è possibile ipotizzare che, forse, nella coppia madre - figlia riportata dalla cronaca il rapporto possa aver risentito della pesantezza di aver trasmesso, da un lato, e ricevuto, dall'altro, una malattia, fatto che può aver scatenato sensi di colpa, rabbia, rivendicazioni; la madre può essersi sentita responsabile proprio "nel concreto", geneticamente, della vita difficile della figlia.

La psicologia del profondo ha scoperto il processo di formazione della mente, evidenziando la specificità della figura materna e della qualità della sua relazione con il figlio, in quanto punto di riferimento per la costruzione della mente stessa del bambino.

Proprio i primi contatti fisici ed emotivi con la madre, e perciò con la realtà esterna, permettono al neonato la strutturazione e il funzionamento della mente e della capacità di pensare; gli eventi concreti e le esperienze sensoriali dei primi tempi sono acquisiti nel mondo interno con le emozioni conferite dalla madre nei primi giorni e mesi, e via via si organizzano nella mente del bambino, fino ad assumere il valore di sentimenti, di pensiero, di comunicazione.

In questa prima fase di vita il bambino e la madre vivono in simbiosi, cioè in quello stadio, come afferma la Mahler, "nel quale madre e bambino sono racchiusi in un'identità duale onnipotente all'interno di uno stesso confine", necessaria al nuovo nato dato che il suo "Io" non è ancora attrezzato ad organizzare gli stimoli interni e esterni in modo da assicurarsi la sopravvivenza.

Successivamente, con la "fase di separazione - individuazione" avviene la "nascita psicologica", cioè la presa di coscienza interiore della propria esistenza come individuo separato, e la consapevolezza della propria unicità.

Ma questo processo già lungo e doloroso di per sé, poiché implica l'esperienza di realtà esterna e di realtà interna, di frustrazioni e di delusioni, può essere risultato ancora più difficile e tortuoso per questa coppia, per via della necessità di cure, delle preoccupazioni e delle paure legate alla malattia, che possono aver costretto madre e figlia ad un legame ancora più stretto ed ambivalente.

Individuarsi, per il bambino, significa accedere al mondo dell'autonomia e dell'espressione di sé, crescere insomma, e può certo valere il sacrificio psicologico della separazione; ma qual è il prezzo che deve pagare una madre nel favorire questo passaggio, così necessario per la maturazione del figlio? Se, come dicevamo, da qualche parte di sé un genitore sente il figlio come un suo prolungamento, e, in questo caso, può forse essere legittimo ipotizzarlo, avvertirne il processo di autonomia può spaventare, poiché significa evocare la propria fatica di crescere, oppure la perdita dell'oggetto nel quale riporre desideri ed aspettative, l'oggetto che colmava un senso di vuoto oppure dava senso alla propria esistenza.

L'attaccamento è uno dei più potenti sentimenti umani; se un genitore a suo tempo è stato o si è sentito un bambino poco accudito, a volte continua a covare nel profondo un senso di rabbia, di aggressività ostile e distruttiva, e un'insaziabile sete di riconoscimento che, come sappiamo dall'esperienza di chi commette violenze o abusi sui bambini, innesca una catena che può perpetuarsi da una generazione all'altra, sempre con lo stesso sfondo. Vale a dire il tacito assunto che il figlio o il bambino esiste per prendersi cura del genitore, per essere finalmente la sua salvezza, non dell'adulto di oggi, ma di quel bambino di un tempo che ancora reclama la sua parte di amore.

Essere genitori implica un doloroso paradosso: si chiede loro di instaurare un legame strettissimo con il figlio, fatto di accudimento, protezione, cure, amore, per permettergli di crescere, cioè di diventare autonomo e di liberarsi appunto di questo legame, condizione indispensabile per essere adulto; come diceva un genitore: "Devo insegnargli ad andarsene!".

Ma il rapporto genitore - figlio, per la sua scontata intensità, può facilmente diventare il luogo privilegiato dove depositare gli aspetti di sé non risolti, aggiungendo quindi pesi ulteriori al rapporto stesso; per esempio, se non si è stabilita chiaramente la separazione, prima di tutto con le proprie figure genitoriali, diventa molto difficile, in seguito, permettere che il figlio compia questo percorso, perché, se questo succede, viene meno un legame indispensabile al proprio senso di sé, alla propria sicurezza. Infatti, senza separazione non si è potuto fare esperienza di autonomia interiore, l'unica che può consentire, in seguito, di instaurare rapporti interpersonali autentici, e non costretti dalla dipendenza esasperata nei confronti degli altri.

Forse, ma possiamo solo fantasticarlo, dopo giorni e giorni nei quali questa madre, con un dolore indicibile, ha potuto solo assistere, impotente, la figlia che combatteva da sola per la sopravvivenza, vedendola riaprire gli occhi può essere stata sommersa non solo da una gioia altrettanto indicibile, ma dalla sensazione che, fuori pericolo la figlia, il suo compito di cura poteva diventare meno importante, e sentire così sciolto quel legame per lei, interiormente, ancora indispensabile.

Davvero allora, di fronte a tanta, ulteriore angoscia, il suo cuore può avere ceduto.

Privacy: la libertà del privato o la privazione della libertà?

La notizia
Nell'articolo: ''Nuove tecnologie, privacy a rischio'' Stefano Rodotà, Garante per la tutela dei dati personali lancia l'allarme nei confronti delle nuove tecnologie che mettono sempre più a rischio il diritto individuale alla privacy.
Il Secolo XIX, Mercoledì 18 luglio 2001

Il commento
Da tempo, ormai, ci giunge l'allarme di quanto la nostra vita privata stia diventando sempre meno tale. Le notizie, in questo senso, arrivano da fonti diverse e sembrano turbare la nostra tranquillità: "Centinaia di migliaia di sistemi di controllo a distanza sono già operanti - ha ricordato il Garante - cresce in maniera esponenziale il ricorso a test genetici e crescono le pretese di assicuratori e datori di lavoro per utilizzarli nel valutare chi chiede un'assicurazione o un'assunzione.

Quindi, non solo ciò che accade qui ed ora, sembra venire meno alla tutela di uno spazio privato, ma la pretesa è anche quella di "predire", al nostro posto, attraverso gli strumenti di un determinismo genetico, come ci comporteremo dal punto di vista professionale o se saremo predisposti a determinate malattie piuttosto che ad altre.

In altre parole, la vita pare non appartenerci più; laddove la crescita e l'evoluzione di ognuno, per quanto carica di responsabilità - o proprio per questo - apriva l'orizzonte alla libertà, alla scelta ed alla possibilità di dare un indirizzo alla nostra esistenza. Ciò poteva riempire di solitudine la nostra vita: essa dipendeva da noi e noi soltanto potevamo decidere che indirizzo darle, ma il dialogo con l'altro veniva vieppiù accresciuto dalla sensazione di essere individui con una propria identità.

Quest'ultima può svilupparsi soltanto se abbiamo uno spazio interno ed esterno sufficiente nel quale confrontarci con i nostri bisogni, limiti e capacità; un luogo riservato dove porre le esperienze che via via facciamo, sicuri che saranno conservate senza essere distrutte.

Ora, invece, tale identità ci sembra negata: "si restringono gli spazi vitali delle persone, continuamente esposti a sguardi e messaggi indesiderati, ormai incapaci di godere di intimità, obbligate a vivere in pubblico, sottoposte ad un'implacabile registrazione di ogni atto anche quando si fa una passeggiata o si fa la spesa al supermercato."

Questo ci porta a riflettere su diversi livelli: ad un livello che potremmo definire più "arcaico", sentiamo che un'entità misteriosa, nel momento che ci controlla e non ci lascia spazio,attiva in noi il fantasma di un genitore che vuole impedirci di acquisire un'identità e di crescere,facendoci sentire come bambini non ancora separati da una madre onnipotente. Una madre che pretende di sapere tutto di noi, che ipoteca il nostro futuro e a cui non siamo in grado di mentire.

Inglobati da una tale figura che ha bisogno di controllare ogni cosa - e che attraverso questo denuncia la propria fragilità - ci sentiamo impossibilitati a qualsiasi riscatto. Una madre così persecutoria - poiché di noi non si fida - porta noi stessi a non fidarci di lei: "posti di fronte all'alternativa tra sicurezza e riservatezza, i cittadini non sempre scelgono la prima, è la nostra esperienza a dircelo, il bisogno di intimità sulle spiagge, ad esempio, porta a rifiutare ogni occhio indiscreto".

Il senso di persecutorietà aumenta, quindi, a livello esponenziale: chi ci controlla può essere inteso come una "cattiva madre", ma anche chi vuole sfuggire a questo controllo onnipotente diventa "cattivo".

Ad un diverso livello la riflessione, pur integrando le cose sopra dette, può assumere sfumature diverse: sempre più questa esigenza di controllo, questo bisogno di guardare ciò che accade agli altri, sembra essere presente in ognuno di noi. D'altro lato aumenta anche vertiginosamente il numero di persone che desiderano essere osservate e forse "invidiate" in ogni attimo della loro vita privata; il Grande Fratello ne è forse l'esempio più eclatante ma anche, meno autentico, costruito a bella posta per veicolare solo una parvenza di realtà.

Ci si chiede, allora, cosa ci può essere dietro a questo bisogno così impellente, a questa necessità che ha portato l'indice di ascolto della suddetta trasmissione alle stelle.

Forse tutto questo può nascere dal senso di esclusione provato da ognuno di noi, bambini piccoli, di fronte alla coppia genitoriale che ci portava ad invidiare ciò che immaginavamo i nostri genitori fossero l'uno per l'altro e a provare gelosia per la loro relazione.

Tale relazione poteva essere idealizzata, vista come qualcosa di bello e terribile al contempo, forse erano tenuti vivi nella nostra percezione infantile principalmente gli aspetti che potevano accrescere la rabbia e la gelosia.

Di fronte ad adulti sentiti così superiori,ci sentivamo piccoli, esclusi da un'intimità che poteva essere carica di paura e di desiderio. Noi, bambini, avremmo voluto essere al posto della mamma o del papà e ricevere l'affetto che sentivamo avremmo voluto tutto per noi.

Nella misura in cui non siamo riusciti a tollerare ed elaborare tale esclusione, possiamo rincorrere ancora con rinnovato desiderio infantile l'immagine di qualcosa che può essere solo visto da lontano e a cui non si può partecipare. D'altra parte, anche in chi tende ad esporsi può esserci lo stesso bisogno e timore, la stessa "gelosia" e "invidia" però negate e fatte vivere "in fantasia" a chi ammira, a chi, incuriosito, sembra spiare dal buco della serratura.

Sembra, quindi, esservi una sorta di scollamento, di scissione: da una parte la ragione, l'intelletto dell'essere umano ha ideato strumenti tecnologicamente avanzati, la scienza ha fatto passi enormi negli ultimi decenni, dall'altra l'uso che si fa di ciò che è stato inventato può essere posto al servizio di bisogni regressivi.

L'abbiamo visto: o il controllo di ogni cosa che impedisce la crescita e l'individuazione, o il guardare da lontano ciò che accade, illudendosi che sia sufficiente sentirsi esclusi a trovare un senso.

A morte la pena di morte

La notizia
Sembra quasi che la pena di morte sia una cosa così cattiva, ed espressione di una così efferata crudeltà che dovrebbe essere comminata a coloro che la infliggono. Sfortunatamente si tratterebbe di un'operazione senza fine.
La Repubblica, sabato 7 luglio 2001

Il commento
Pagina interessante quella di Repubblica di sabato scorso: tre nazioni fra le più diverse e lontane fra loro sono accomunate perché si trovano di fronte lo stesso tema, la pena di morte.

In Turchia, benché questa norma di legge sia in pieno vigore, non si applica più dal 1984, e si riflette sull'opportunità di abolirla, anche "per adeguarsi ai criteri Europei" in vista di una futura integrazione politica ed economica nell'Europa, appunto.

Il pezzo sulla Cina fa inorridire se si guardano i numeri: nel momento in cui il governo lancia la campagna "Colpire duro", iniziata nell'aprile di quest'anno, il numero delle esecuzioni diventa impressionante. Il record che apparteneva all'anno 1996, con 4637 'giustiziati', rischia di essere frantumato dalle condanne emesse nel 2001. Negli ultimi 10 anni sono state eseguite in Cina oltre 18.000 condanne capitali. Si osserva che "nonostante questo la criminalità aumenta in maniera vertiginosa ..."

Negli Stati Uniti, invece, "si grida al successo" del sistema giudiziario che ha consentito di scagionare, attraverso la prova del DNA, un condannato a morte accusato dell'omicidio di un'anziana donna.

I tre articoli ci offrono tre diversi 'momenti' del problema Pena di Morte e potrebbero consentirci riflessioni di diverso carattere: politico, sociologico, psicologico, etico, religioso, anche economico... Cosa ci fa più male o ci fa gridare allo scandalo? Le migliaia di ammazzati in Cina dopo un processo sommario, o il sistema penitenziario turco a noi geograficamente più vicino, ma che sembra essere caratterizzato da una barbarie senza fine.

Oppure ci fa arrabbiare la civile America nella quale ci si può salvare dalla pena capitale solo se si hanno sufficienti possibilità economiche o se, come nel caso narrato nell'articolo, si riesce "al di là di ogni ragionevole dubbio" a dimostrare la completa innocenza dell'accusato?

Sembra che si riesca a parlare della pena di morte, o della morte, soltanto se si discute di qualche suo aspetto particolare: la pena di morte è sbagliata perché non si può tornare indietro; è sbagliata perché arriva dopo un processo sommario; è sbagliata perché colpisce i più deboli o le classi meno abbienti; perché non è un valido deterrente...

Sembra proprio che non si possa ragionare se non in termini di punizione, di etica, di civiltà, di moralità, di opportunità.

Anche l'argomento più forte di tutti, quello che chiede a gran voce: 'Può un uomo decidere semplicemente della vita e della morte di un suo simile?' sfugge all'interrogativo più importante e diventa esclusivamente argomento accademico di dibattito sociologico e giuridico e non sembra cogliere il centro del problema.

Il fatto è che ci indigniamo moltissimo anche quando qualcuno compie i delitti per i quali è prevista la pena di morte. Capita anche che ci arrabbiamo quando qualcuno lede il nostro diritto alla vita. E allora? Quale è l'emozione che vale di più?

Sembra in realtà che la pena di morte possa risolvere un conflitto, un conflitto molto umano, è un espediente che serve a rendere la vita più semplice, più lineare, serve a dividere le cose, gli uomini i fatti: ci sono gli uomini cattivi che vanno puniti, se vengono eliminati siamo più tranquilli, a posto.

I crimini che pochi fra noi commettono sono gli stessi che molti di noi a volte fantasticano nella profondità del nostro essere. La punizione, la pena di morte, stende un velo, tira una linea, concede l'assoluzione "per non aver commesso il fatto" ai nostri pensieri e lascia che tutto accada nel mondo concreto e reale di Paesi stranieri, arretrati, o al di là dell'oceano.

È un tema angosciante: pare che la scomparsa fisica del male nella società (o di chi lo ha commesso) sia l'unica soluzione. A questo punto non è quindi più necessario pensare e accorgersi che il male (pensieri o fantasie aggressivi, violenti, vendicativi) è parte del nostro essere; abbiamo così creato un soggetto bene identificato adatto a portare la morte: il BOIA. In fondo nel titolo relativo alla Turchia si auspica la scomparsa del BOIA, non della pena.

Freud affema, nello scritto del 1915: "Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte", che la guerra è possibile soltanto perchè sono gli Stati a farla, gli uomini non la farebbero mai, un uomo non giungerebbe mai a così estreme mostruosità.

Credo che per quello che riguarda la pena di morte si possa fare un discorso analogo: è necessaria un'autorità esterna e superiore - uno stato possibilmente disprezzabile - che si prenda la responsabilità di effettuare concretamente quegli atti che simbolicamente corrispondono ai sentimenti più scomodi che sono dentro ognuno di noi.

Calimero, la pedagogia del candeggio e il controllo del mondo

La notizia
La morte di Toni Pagot, uno dei nomi più noti della pubblicità italiana, riporta sulle pagine dei quotidiani, per un giorno, la sua creatura più conosciuta: Calimero.
La Repubblica, martedì 10 luglio 2001

Il commento
E' facile intenerirsi al ricordo: siamo stati i bambini cresciuti con un solo canale televisivo, un solo - quindi imperdibile - Carosello, un solo pulcino nero con mezzo guscio calcato in testa.

E' facile ricordare le piccole vicende serali di Calimero, perché per anni si sono dipanate seguendo sempre lo stesso necessario copione: il pulcino nero si trovava ogni volta coinvolto in qualche avventura, ma tanto veniva tiranneggiato e mortificato dagli altri abitanti del cortile che, alla fine, si issava sulle spallucce un piccolo fagotto e zampettava via. Storiche, perché sempre le stesse, le sue lamentazioni: "E' un'ingiustizia, però! Tutti se la prendono con me perché sono piccolo e nero…". Tempestivo, a questo punto, giungeva l'intervento dell'Olandesina - temibile fanciulla in grembiulino inamidato e zoccoletti - che recuperava il fuggitivo e, pronunciando la non meno storica frase, sempre la stessa: " Siamo alle solite, Calimero! Tu non sei nero, sei solo sporco! Là!", lo immergeva entusiasta in una tinozza colma d'acqua saponosa, stropicciandolo e strigliandolo a dovere. Dopo un istante, tra le bolle di schiuma riemergeva un pulcino sorridente e candido come la neve, pronto a pigolare lodi per i miracolosi effetti sbiancanti del detersivo.

In occasione della morte del suo creatore, per qualche ora si è ravvivato intorno a Calimero il dibattito tra quanti si schierano nella corrente che fa del pulcino la nostalgica icona di una lontana pubblicità civile e corretta, e quanti si indignano nella controcorrente che lo stigmatizza come "patetico, razzista, falso".

Anche questa polemica è sin troppo facile.

La pubblicità non è né diabolica, né benefica: sia gli sporadici e ingenui caroselli di un tempo, sia gli spot pervasivi di oggi, hanno sempre avuto il solo scopo di creare nuovi bisogni e di indurre all'acquisto per soddisfarli. Non è credibile, quindi, una pubblicità che pretenda di battersi in nome dei diritti civili: un pubblicitario non può dirsi dentro o fuori dalla corrente, e la denuncia sociale è solo un mezzo come un altro, più scaltro di un altro, per richiamare l'attenzione del consumatore. Un manifesto che reca il primo piano di un condannato a morte, tanto per fare un esempio, sostituisce semplicemente alla seduzione esercitata da un'immagine gioiosa, la seduzione (altrettanto o forse più potente), indotta nello sguardo del passante dall'orrore raccolto nel braccio della morte. Nell'uno e nell'altro caso, l'aumento delle vendite del prodotto in questione è assicurato, e lo scopo della comunicazione pubblicitaria raggiunto.( Per amore di cronaca, è notizia di questi giorni quanto poco abbia giovato, invece, la suddetta pubblicità ad uno dei suoi tanti derelitti testimonial, che negli Stati Uniti ha subito la sua puntuale esecuzione capitale ).

Ma torniamo a Calimero.

E' l'occasione, questa, per ricordare il dispiacere che in molti di noi - allora bambini poco inclini all'uso di acqua e sapone - procurava il suo rituale candeggio, e per riflettere sul significato simbolico che ha oggi per noi - i bambini di allora - la trasformazione di un pulcino nero in pulcino bianco.

Geniale è stata l'invenzione di Pagot: il pulcino con un guscio per cappello, ricordo di una nascita recente, che inizia il suo viaggio nel mondo. E' un piccolo sicuramente fragile e solo, ma anche curioso e recettivo, pronto a conoscere e sperimentare. Si muove, infatti, protetto dai resti dell'uovo in cui ha trascorso il suo tempo di feto: la sua mente, i suoi pensieri, sono ancora "covati" dalla madre, com'è giusto che sia per ogni neonato.

Un qualche tipo di parentela tra il Calimero di Pagot e il Brutto Anatroccolo di Andersen non può passare inosservata: come ogni neonato, entrambi sono stati scaraventati in una realtà esterna sconosciuta e paurosa, ed entrambi sono segnati dal marchio della diversità - Calimero è nero, invece di essere teneramente giallo; il Brutto Anatroccolo ha un corpicino sgraziato e una grossa testa, a ricordargli di non appartenere di diritto all'orgogliosa nidiata di Mamma Anatra.

Ma la somiglianza tra i due piccoli pennuti termina qui.

Sofferenze e frustrazioni segneranno infatti il percorso del Brutto Anatroccolo, che solo lentamente e con fatica raggiungerà infine un'identità adulta e lo statuto di Cigno. Per Calimero, invece, il destino ha in serbo il sollecito intervento dell'Olandesina: una rapida immersione nella tinozza (sostituita nei caroselli dei primi anni '70 dall'ancora più miracolosa lavatrice), e - oplà - l'identità di pulcino normale e pulito viene magicamente acquisita, senza fatica.

L'illusione è dunque quella di un mondo che può essere bonificato da un getto d'acqua e un po' di detersivo: un mondo dove non c'è sofferenza, ma neppure consapevolezza.

Il prezzo da pagare per una così gioiosa e facile affermazione di sé, è l'impossibilità di crescere e di imparare davvero qualcosa: Calimero, infatti, non può che replicare infinitamente l'identico copione, perché nulla ha appreso dall'esperienza, soffocata ogni volta, sul nascere, dalla troppo precoce e salvifica soluzione imposta dall'Olandesina. Condannato ad un girotondo insensato, il pulcino continuamente trascorre dal nero al bianco, per ritrovarsi ancora nero, e di nuovo bianco…non scomodiamo metafore allusivamente razziste: semplicemente, all'epoca, i colori televisivi non offrivano molta scelta.

Ci colpisce, piuttosto, il senso più profondo che si cela nella trama apparentemente innocente dell'esistenza di Calimero: l'impossibilità di progredire in una conoscenza volta alla comprensione del mondo.

L'Olandesina lava il pulcino, ma intanto inquina la sua mente con l'imposizione tirannica di un modello stereotipato di pulizia e bellezza.

Perché Calimero non potrebbe essere davvero, semplicemente, nero? E perché, se anche fosse soltanto sporco, non potrebbe essergli consentito di imparare pian piano a pulirsi da sé, impiegando tutto il tempo necessario a scoprire quale colore meglio gli si adatta?

L'operazione dell'Olandesina è paragonabile a ciò che Donald Meltzer descrive come intervento persecutorio sulla mente del bambino da parte di colui che insegna. In questi casi si determina, scrive l'autore " un apprendimento superficiale che comporta una forma di sottomissione a un persecutore (…) Questo metodo pedagogico può essere anche animato da buone intenzioni, ma strutturalmente è tirannico; esso permette di acquisire una forma di apprendimento di tipo meccanico (…) Questo modo di imparare non produce nessuna modificazione di fondo nella personalità, ma serve ad abbellire la facciata esterna del personaggio, che può adattarsi alle richieste dell'ambiente senza preoccuparsi delle finalità o dei principi etici". ( Da "Il ruolo educativo della famiglia", D. Meltzer, Centro scientifico editore, 1986 ).

Ciò che è stato appreso da Calimero, quindi, è immediatamente espulso dalla sua mente, non appena viene a cessare il controllo tirannico dell'Olandesina: il pulcino si ritrova così, ogni volta, costretto a ricominciare da capo.

D'altra parte, in questo meccanismo trovano fondamento l'essenza stessa e il fine ultimo della pubblicità: promuovere una conoscenza volta al controllo del mondo, e non alla sua comprensione. Comprensione che avrebbe luogo solo se a Calimero e all'Olandesina fosse concesso scegliere di vivere in un racconto diverso, aperto a nuovi, imprevedibili sviluppi.

Immaginiamo per un istante che cosa accadrebbe se la loro fosse, per esempio, una storia analitica: L'Olandesina -terapeuta, invece di intervenire scaraventando il pulcino-paziente nella tinozza o nella lavatrice, depositarie della sua verità e del suo sapere, potrebbe rimanergli accanto, segnalandogli ciò che sta accadendo mentre procede al suo fianco, accettando di accudire, dolorosamente, il dolore che, sempre, un processo di crescita comporta. Aiutandolo, così, a costruire un proprio autonomo "apparato per pensare i pensieri".

All'immagine di Calimero si sovrappone, in questo momento, il ricordo di un piccolo paziente che - nel corso della sua analisi - era solito segnalare la sua sofferenza trasformando la stanza in una grossa, claustrofobica lavatrice in cui si chiudeva e in cui veniva sballottato, centrifugato, ed infine sputato fuori, stremato ma ben ripulito. Per molto tempo non c'è stato altro da fare che assistere, con dolore e impotenza, a quel lavaggio cruento di pensieri ed emozioni.

Fino a che il bambino non ha aperto lo sportello della lavatrice alla terapeuta, accettando di condividere l'esperienza con lei. Per riuscire a spiegarle, infine: "Io sono uno straccio strizzato".

Calimero trovava così la sua identità: certo non tanto gradevole, certo stracciata, ma proprio sua. Però questa è un'altra storia, e ad un pubblicitario non credo piacerebbe.

G8: non c'è più tempo per il dialogo

La notizia
Nell'articolo ''Non c'è più tempo per il dialogo'' l'antropologa belga Pat Patfoort concede un'intervista dove esprime il suo rammarico per la mancata applicazione dei metodi non violenti di gestione dei conflitti, cosa che, con tutta probabilità, apre il campo all'esercizio della violenza nella gestione del prossimo vertice dei paesi industrializzati che si terrà a Genova.
Il Secolo XIX, venerdì 29 giugno 2001

Il commento
Tra pochi giorni a Genova ci sarà l'incontro tra i grandi della terra. Man mano che il tempo passa, ciò che sta per accadere si carica di una crescente quanto indesiderata dimensione di preoccupazione e di ansia. Nei mesi scorsi era presente nella mente dei più solo come l'evento di un lontano futuro, così lontano da essere suscettibile di considerazioni astratte che si dubitava avrebbero mai potuto contaminare la realtà. Unico segnale tangibile erano le strade scavate, i palazzi incappucciati, le gru e le betoniere che imponevano un linguaggio di sensi unici e di ingorghi di traffico per cui non esisteva ribellione possibile. Era un circolo vizioso che si giocava tra il disagio e la speranza per un fervere di attività che sembrava concludersi solo in una nuova via alberata, in facciate settecentesche riscoperte nei loro colori, nelle palme del porto che rendevano palpabile la nostalgia dell'Africa.

E' a quel punto che il tono è cambiato, forse con l'arrivo dei caccia americani, o maggiormente attraverso i titoli sempre più sorprendenti dei giornali: stazioni chiuse, autostrade bloccate, zone rosse della città in cui non si potrà circolare, annullamento delle trasmissioni via cellulare, oscuramento delle televisioni, cecchini appostati sui tetti dei palazzi, lo sbarco di cento bare da una portaerei americana. Ma cosa sta per accadere a Genova?

Un articolo del Secolo XIX di venerdì 29 giugno, articolo che contiene l'intervista al "guru" della gestione non violenta dei conflitti, l'antropologa belga Pat Patfoort, ci introduce direttamente nei toni della guerra: "E' tardi, non penso che ci sia più molto da fare per agire un vero dialogo. Resta solo da sperare che la polizia, se deve intervenire, lo faccia nel modo migliore, senza provocare né umiliare e nel modo meno violento possibile".

L'impressione è quella di una strada senza ritorno, di un inarrestabile scivolare verso qualcosa di violento, di doloroso oltre misura.

Il 21 e 22 luglio a Genova si incontreranno gli esponenti dei paesi industrializzati per stipulare accordi economici e politici che riguarderanno il prossimo futuro di tutti noi. Sono molti quelli che hanno scelto quei giorni e quel luogo per manifestare il loro dissenso verso un'organizzazione dove sembra che i ricchi e i potenti si riuniscano per spartirsi le ricchezze del pianeta.

Scomodi pensieri che parlano di sopraffazione, di ingiustizia, di indifferenza, sembrano pretendere l'attenzione da parte delle nostre coscienze. Ad essere evocati sono i diseredati, le popolazioni dei paesi cosiddetti in via di sviluppo, le mille e mille immagini televisive di città di lamiera e di fango, di volti illuminati da occhi troppo grandi. Sono queste raffigurazioni che, per un attimo, si accostano alla lussuosissima nave, già ormeggiata nel porto antico, che tra qualche giorno ospiterà i capi di stato dell'occidente ricco. Le due realtà stridono, il porle accanto provoca una malcelata, sotterranea, rabbia. Ma forse disagio, preoccupazione e rabbia possono anche essere il segnale di un coinvolgimento che rimanda a qualcosa di più personale ed intimo. Ci viene imposta una fatica che si preferiva rimandare, non sentire così immediata, compito da conservare per il domani.

Se, in fondo, la sanità mentale riposa sulla capacità di riconoscere la realtà in modo da poterne trarre gli elementi di forza e di consolazione per continuare a vivere, è altrettanto vero, come dice Bion, che " […] allo stesso modo della Terra, anche l'uomo ha in sé un'atmosfera, seppure mentale, che funge da scudo, sempre mentale, di quei raggi cosmici che attualmente si ritiene siano resi innocui grazie all'atmosfera fisica". (W. R. Bion, Cogitations, Armando, Roma, 1996, pag. 198)

E', dunque, un'atmosfera protettiva rispetto a qualcosa che si teme la mente non sia in grado di recepire senza andare incontro ad un disastro, ad essere sottoposta, in questi giorni, all'urgenza di una rivisitazione, potremmo dire di una rarefazione, volendo mantenere i termine della metafora.

All'interno dell'allargamento operato, possiamo tornare a considerare i dati precedenti e riconoscere, forse, nell'immagine di un mondo fatto di uomini potenti, possibilmente colti, supportati da tutte le conquiste tecnologiche ottenute, costantemente giovani, un ideale che anche noi perseguiamo e vogliamo per noi stessi. L'umanità lacera e diseredata, per contro, con la sua fame e la sua sete, risveglia lo spettro di una mancanza radicale, penosa e terribile, di cui è impossibile farsi carico perché sembra presentarsi come incolmabile e immedicabile. Dal punto di vista della logica immediata della paura, sembra possibile solo difendersi, proteggere ad ogni costo il brillante assetto conquistato, rispetto alla minaccia di un dolore e di un male che, nel loro esplodere, sarebbero solo rovina e distruzione per tutti.

Potremmo chiederci, a questo punto, se tutto ciò, in realtà, non accada anche dentro ognuno di noi, rispetto all'accoglienza che possiamo riservare agli aspetti di noi "in via di sviluppo", quelli che giudichiamo meno affermati e di successo. Quei modi di essere per cui ci sentiamo fragili, inadeguati, "impresentabili in pubblico". Tutto ciò che chiamiamo difetto e che, bene o male, cerchiamo di nascondere con vergogna, che parla del passare del tempo, dei limiti del nostro sapere, delle imperfezioni del corpo e della mente, del desiderio di affetto e di sostegno. E' il contesto di una fragilità e di un bisogno che spesso ci può aver portato a sentimenti penosi di rabbia invidiosa, di gelosia impotente con cui possiamo avere attaccato, nella realtà o nella fantasia, quanto di buono ci circondava, persone e cose, semplicemente perché nulla era disponibile in modo automatico ed immediato per alleviare la nostra sofferenza. Anche il ricordo di queste immagini di noi, però, può risultare intollerabile e minaccioso, richiedente unicamente la rigidità della difesa al fine di mantenere quell'immagine ideale di potenza e perfezione nella quale soltanto ci sembra di poterci riconoscere.

In mancanza della possibilità emotiva di accogliere il limite e l'imperfetto, di accettare, senza morirne, che si sono perdute per sempre delle possibilità, che si sono commessi degli errori, che quello che è accaduto nel passato non tornerà più, che il futuro non sarà sufficiente a contenere quello che pensavamo saremmo dovuti diventare, può scattare la repressione di noi verso noi stessi. Se non si potrà più "oscurare" - mantenendo un termine di questi giorni - ogni comunicazione tra i paesi ricchi e poveri che sentiamo esistere dentro di noi, si potrà scegliere direttamente la violenza, la segregazione, l'omicidio per attuare, come dice Meltzer "un commercio e una distruzione di oggetti interni apparentemente mutilati e senza speranza", in un crescente senso di angoscia e di precarietà. Ogni negazione, infatti, sembrerà andare ad appesantire ancora di più i nostri paesi poveri, dove avremo l'impressione di avere gettato, senza riguardo alcuno, gli avanzi inservibili di tutte le nostre operazioni di chirurgia estetica. Ci sembrerà di contenere, al nostro interno, qualcosa di sempre più mostruoso, sempre meno accettabile e integrabile, qualcosa da cui, semplicemente, aumentare ancora la distanza. Potrà crescere il timore di una rivolta imminente, da tenere a bada con la forza per non soccombere sotto il peso di una verità vergognosa ed intollerabile.

"V'è una sola prova contro di lui. Il ritratto stesso: ecco la prova".

Questo pensa Dorian Gray di fronte alla tela che trattiene nei suoi colori quello che lui stesso non è stato in grado di accettare per sé, il suo inevitabile invecchiare, l'essere consegnato ad un tempo che lo conduce ad una misteriosa fragilità, ad una incomprensibile fine dell'esistere.

"L'avrebbe distrutto. Perché lo aveva conservato per tanto tempo? Una volta gli faceva piacere osservare il suo mutarsi e invecchiare, ma negli ultimi tempi non provava più alcun diletto. Gli aveva fatto trascorrere notti insonni; quando era lontano rabbrividiva all'idea che altri occhi potessero guardarlo. Era stato per lui come una coscienza, si, era stata la sua coscienza. L'avrebbe distrutto. […] Avrebbe ucciso così anche il passato e quella morte lo avrebbe reso libero. Avrebbe ucciso la mostruosa anima vivente, senza il suo ripugnante rimprovero, si sarebbe sentito in pace. Impugnò il coltello e colpì la tela."

Il G8 a Genova sembra, paradossalmente, rappresentare nella realtà e a livello macroscopico un dramma anche interiore, conosciuto profondamente da ciascuno di noi. Nell'immagine di una società che raggiunge aree sempre più grandi di benessere, che riesce a prolungare la vita, che procede secondo la vittoriosa teoria delle conquiste tecnologiche, ma che conserva una non considerazione ed una diffusa indifferenza verso altri esseri umani che mancano dei mezzi per sopravvivere, una società che investe nell'industria bellica più risorse che in qualsiasi altro settore, finiamo, tristemente, per riconoscere un nostro modo di funzionamento mentale arcaico e paranoicale, chiuso alla prospettiva del dialogo e dell'integrazione.

Probabilmente è per questo che le immagini del G8 si stanno facendo preoccupanti e, se vogliamo, sempre più drammatiche: sembra che l'occidente industrializzato si appresti, per ognuno di noi, a difendere con la violenza quell'immagine di uomo immortale, autarchico, onnisciente ed onnipotente, contro il pericolo del dolore per la consapevolezza di un tempo che passa, che non conosce solo il successo e il progresso, ma che è strutturalmente aperto al peso della dipendenza dagli altri, del limite, della morte.