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Sacerdoti e soldati

La notizia
"Sacerdozio vietato agli omosex arriva il diktat del Vaticano". Il divieto previsto nella nuova Istruzione dopo lo scandalo pedofilia della Chiesa cattolica negli USA.
La Repubblica, 5 novembre 2002

Il commento
L'articolo pubblicato a pag. 23 è molto interessante, intanto spiega sommariamente quale sia il sistema legislativo della Chiesa. Diversi Dicasteri si sono occupati, nel corso degli ultimi anni di questo problema: la Congregazione per l'Educazione cattolica, la Congregazione del Clero, la Commissione per i Testi legislativi e la Congregazione per la Dottrina della fede.

E poi illustra brevemente il contenuto della nuova direttiva, la cosiddetta Istruzione: il rettore del seminario deve bloccare l'accesso al sacerdozio a chiunque manifesti "tendenze omosessuali", se necessario sarà consentito, e consigliato, il consulto con uno psicologo. Questo perché "l'omosessualità, di per sé, costituisce un rischio per la vita sacerdotale".

Tutto questo quando si imbocca la via canonica al sacerdozio, e cioè nel caso in cui un giovane si ritrovi a frequentare i cosiddetti Seminari Minori dove la sorveglianza e il giudizio del Rettore può realmente attuarsi.

Negli ultimi anni, però, sono sensibilmente aumentate le vocazioni in età adulta e viene a cadere la possibilità di controllo e di formazione delle Autorità preposte. Si prospetta quindi la necessità di ulteriori indagini come ad esempio l'esame del contesto familiare del candidato e, in senso lato, la sua provenienza.

Tutto questo, naturalmente, non è una novità. Anche in passato non era particolarmente accettato che un candidato prete potesse avere delle "tendenze omosessuali", soltanto che - allora - si "consigliava" di riflettere sull'autenticità della vocazione. Ora il divieto è assoluto e tassativo, una Istruzione ha il valore di una Legge che non ammette deroghe.

Non penso che si possa più di tanto criticare un provvedimento di questo genere: la Chiesa ha il diritto di darsi le norme che ritiene più opportune.

Sembra però che questa norma sia di tipo "darwiniano", sia nata, cioè, come conseguenza dei numerosi scandali pedofili che si sono verificati negli Stati Uniti negli ultimi anni e serva, quindi, soprattutto a mantenere in vita la Chiesa stessa.

Dice un esponente ecclesiastico: "L'urgenza del documento viene dagli eventi americani. Negli USA la situazione è infuocata, bisogna placare gli animi, è urgente evitare che prosegua la sistematica campagna di discredito in atto contro il clero cattolico".

I preti, negli USA e anche in Italia, sono spessissimo a contatto - quasi sempre con mansioni educative - con moltissime persone, soprattutto con bambini, e non è assolutamente ammissibile che inclinazioni personali, forse sarebbe meglio dire caratteristiche personali vissute come estremamente problematiche, possano trasformarsi in autentiche tragedie per coloro che subiscono abusi dai quali, qualche volta, è difficile difendersi proprio perché provengono da qualcuno, per definizione, buono.

Bisognerebbe forse vietare anche agli omosessuali laici di avere compiti, ad esempio, educativi?

Ricordo che, qualche mese fa, anche un esponente politico italiano (G. Fini) ha lanciato questa proposta a proposito del personale insegnante in Italia durante una trasmissione televisiva.

Non credo che sia questo un modo per affrontare il problema, forse è un sistema - un trucchetto - per risolverlo definitivamente (?): escludendolo, tagliandolo via, con l'illusione che, come dal dentista, via il dente, via il dolore.

Su Repubblica, a fianco dell'articolo sull'omosessualità vietata c'era anche un piccolo trafiletto che riportava un'altra notizia: "Spagna, sì alle convivenze gay in caserma". Nella Guardia Civil (l'equivalente spagnolo dei Carabinieri italiani) saranno possibili le convivenze fra le coppie di fatto anche se formate da soli uomini.

Forse l'accostamento è voluto, un sorriso per consolarci da giorni e giorni di quotidiani pieni di dolore per i bambini che sono morti in Molise. Penso che si possa riflettere su come due Istituzioni molto diverse fra loro, ma con molte caratteristiche in comune: soltanto maschili, rette da regole molto severe -e poi sono entrambi soldati (con la Cresima si diventa Soldati di Dio)-, decidano di confrontarsi con una questione importante che in qualche modo tocca ciascuno di noi.

Non credo che il provvedimento adottato dalla Guardia Civil sia la soluzione di tutti i mali, è sicuramente un atteggiamento che affronta un problema piuttosto che escluderlo a priori.

Il teatro del terrore

La notizia
''Non usate il gas, state uccidendo anche noi'', nel ''diario'' dei superstiti i tre giorni di terrore: quando ci hanno preso pensavamo a uno scherzo del regista. Questa è la testimonianza eccezionale in presa diretta dei minuti della battaglia dentro il teatro. Mentre le teste di cuoio andavano all'assalto, Natalia e Anya hanno chiamato la radio Eco di Mosca con il cellulare per raccontare il loro terrore e chiedere aiuto.
Corriere della Sera, 27 ottobre 2002

Natalia Magnoni Oliva Il commento
Il teatro del terrore

Mi chiamo Felice e sono uno dei tanti bambini russi portati a teatro, magari per la prima volta, ad assistere ad un musical, era il 23 ottobre '02, un mercoledì che non potrò mai più dimenticare…si, c'era stato un film ''un mercoledì da leoni'', ma nel teatro non c'erano leoni ma solo serpenti velenosi che mi hanno ghiacciato il sangue e la mente. Credevo fosse una messa in scena quando dei terroristi con tute mimetiche escono sul palcoscenico e sparano e urlano e ci dichiarano ostaggi, noi spettatori e anche tutti gli attori.

''I combattenti ceceni sono venuti a Mosca per morire e non per sopravvivere'' ha urlato sul palco il capo del commando, e io non capivo ancora, io e tutto il pubblico credevamo fosse lo spettacolo!

Non sapevo che, nel giro di brevi istanti, sarei stato costretto ad abbandonare questo mio nome senza più senso ed ad entrare violentemente in un mondo adulto non mio che mi fa paura e che promette solo violenza. Così, in una sera di un mercoledì, ho perso di colpo tutta la mia infanzia ed ora sono un grande nei panni di un bambino che non si ritrova più, violato nella sua innocenza.

Ho cambiato nome, mi chiamo ora Tristano, e mi tormento aggirandomi ramingo in un vuoto senza senso, anestetizzato da un gas mortale.Sono troppo piccolo per rilasciare interviste, i giornalisti non si interessano a me, loro mi vedono ancora come un bambino, ma io ho perso tutta la mia spensieratezza, mi sento vecchio, spento, disperato.

Non potrò mai più dimenticare come, in un istante, il palcoscenico si sia trasformato in teatro dell'orrore, e il musical in sinfonia di morte.

La guerriglia cecena ha compiuto un attacco senza precedenti contro la Russia utilizzando un commando in ''missione suicida''.

È stata una situazione talmente paradossale che sembrava una fiction.
Si fa sempre più sottile la linea di demarcazione fra simulazione e realtà e quelli che fino all'11 settembre potevano essere solo best sellers di fantapolitica, si trasformano in tragici ed incredibili vissuti quotidiani.

Ed in questa reale vicenda che ha fatto diventare un tranquillo mercoledì a teatro, l'incubo peggiore per tutti noi, perché, se mai ne avessimo bisogno, abbiamo avuto la conferma che dovremo vivere e convivere in una situazione di perenne insicurezza in cui non vi è luogo che possa proteggerci da attacchi terroristici o di singole follie umane.

Ma quale potrà essere la qualità della nostra vita e quale specialmente quella dei nostri figli che si affacciano ora al mondo adulto e che non possono più trovare un valore in cui credere, attorniati solo da violenza.

Respireranno questa violenza e ne saranno permeati come da quel gas venefico che ha invaso il teatro di Mosca.

E questo giallo sul gas, dove il Cremlino non dice cosa sia, anzi, isola i superstiti trasformandoli in qualche modo da ostaggi dei ceceni ad ostaggi del governo, tutto questo lascia ancora più perplessi dello stesso attacco terroristico.

Quando il seme della violenza si impianta, dilaga poi in ogni direzione, senza scampo.

Ma come è possibile che qualcuno abbia avuto il tempo di usare il cellulare da dentro il teatro durante l'operazione delle teste di cuoio e invece i guerriglieri, che sappiamo votati alla morte, non siano riusciti a farsi saltare in aria? Cosa è successo in quel teatro dell'orrore che non sapremo mai?

Siamo pronti a convivere con un terrorismo generalizzato che si espande imitativamente a macchia d'olio?

Quale gas è stato usato? Probabilmente un gas nuovo, si sa infatti che, da anni, Russia, Stati Uniti e Gran Bretagna fanno esperimenti per mettere a punto un gas più veloce nel neutralizzare l'obbiettivo. Qui si apre il dibattito sulle armi chimiche e batteriologiche perché probabilmente, violando i trattati internazionali, stanno portando avanti sperimentazioni su gas pericolosi. Si sta sviluppando una nuova generazione di armi.

Ma come si può assistere a questa disgregazione di valori umani senza restare intrappolati in meccanismi di difesa altrettanto distruttivi quale la negazione che porta poi alla totale desertificazione psichica, truccata da cinismo, oppure, all'opposto, la paranoia che fa vivere terrorizzati da tutto e da tutti?

Il periodo storico che stiamo vivendo richiede un equilibrio psichico molto solido ed oggi invece ne siamo particolarmente carenti, per anni abbiamo enfatizzato gli eccessi e gli estremismi ed in qualche modo ne stiamo raccogliendo i frutti.

Potremmo allora ipotizzare il teatro dell'orrore come metafora di vita: ogni essere umano fa i conti con i propri sabotatori interni.

Nella ricerca di una illusoria risoluzione dei conflitti intrapsichici, non ci sono i mezzi per comprendere il significato se si rompono le comunicazioni fra gli oggetti interni; il ventre buono della madre si trasforma allora in un luogo mortifero, la balena - squalo di Pinocchio tiene intrappolati nel suo ventre, il teatro di Mosca si trasforma in una allucinante trappola mortale.

Viene in mente, a livello psicoanalitico, il ''claustrum'' di Donald Meltzer come studio dei fenomeni claustrofobici.

Se si va al di là del semplice ''dover procedere, come ragione di stato'', si scopre l'incapacità di tornare indietro, in un luogo che permetta ancora una qualche forma di comunicazione che possa impedire la reiterazione di delitti assurdi, quali ne siano le parti in gioco.

Assistiamo a slogan stereotipati riuniti sotto l'intestazione di ''necessità politica''.Il passaggio dall'avere coraggiosamente fronteggiato il pericolo all'avere coscientemente sacrificato troppi innocenti con il gas killer, si fa via, via, con il passare delle ore sempre più evidente.

Il teatro dell'orrore: luogo di liberazione o di delitti indiscriminati?

L'atmosfera dominante è di trauma e inganno da entrambe le parti.

La '' madre Russia'' dimostra che è pronta a pagare con la vita dei suoi figli, pur di mantenere le sue posizioni di forza; ed ecco che il teatro - ventre si trasforma in un ventre abortivo e ingannevole: i più deboli saranno sacrificati.

L'interno del teatro sta allora a rappresentare l'aspetto della femminilità perversa che non sa contenere, dove non ci sono spazi per pensare, ma solo per agire in un intreccio di equivoci mortali. La femminilità del ventre - teatro, spazio di accoglimento, si trasforma in un ventre espulsivo.

Possiamo leggere questo dramma come la storia di un'unica mente che, non più in grado di tollerare al suo interno elementi conflittuali, si scinde in parti rigide sempre più incapaci, nell'incalzare degli avvenimenti, di trovare un punto di comunicazione.

D'altronde il significato dell'attacco alla femminilità - teatro suppone un profondo dolore intimo di un popolo che ha perso la propria identità e, non trovando ''parole per dirlo'' esprime la sua morte interna con azioni di morte esterna .

È la devastazione dell'anima in scena al teatro, dove ostaggi e guerriglieri diventano, nel freddo silenzio dell'atrocità soffocata, fratelli di morte. Quel teatro ha rappresentato molto bene l'inferno, come condizione interna, insita nella mente umana e sempre in agguato.

Avere gli strumenti mentali per elaborare un capovolgimento epocale e prendere atto, con umiltà, che la nostra società è sull'orlo del tracollo se non corriamo ai ripari, può forse aiutarci a fare, ciascuno di noi, nel proprio piccolo, un esame di coscienza che permetta di metterci in discussione, per ricominciare a pensare ad un futuro senza la pretesa di controllarlo.

Le barriere fra ''l'interno malato'' e ''l'esterno portatore di salvezza'', sono state rase al suolo, la parete del teatro è stata fatta saltare e, attraverso quella ''paralisi mentale'' si è espresso il teatro del non senso.

Il silenzio mortale delle vedove nere, sprofondate in un sonno senza ritorno, immagini senza tempo che dormono la loro morte, espone tutto il loro odio disperato e ostenta i loro ''ventri al tritolo''. Il ventre materno, luogo di concepimento e di accoglienza, si trasforma in un luogo non - luogo, dove si sceglie di annientarsi.

Da questa rappresentazione scenica dell'ultimo atto della follia umana, forse potremmo cogliere la pericolosità distruttiva dei pensieri rigidi e delle ideologie stereotipate siano esse politiche o religiose.

La svalutazione dei concetti di libertà e di creatività offre infatti il fianco alla manipolazione politico - religiosa, da qualsiasi estremismo provenga.

Il terzo millennio ha partorito, dal suo ventre dinamitardo, il regno del terrore. In queste condizioni conformismo e conservatorismo possono offrirsi come ancore di illusoria sicurezza, ma minano, dall'interno, la capacità creativa e trasformano la routine in rigidi rituali. Si offre così il fianco a fanatismi politici e religiosi dove pensieri suicidi e distruttivi prendono campo e vanno a costituire una situazione claustrofobica .

Ero un bambino e mi chiamavo Felice, oggi mi chiamo Tristano e sono già vecchio.

Sogni bianchi, sogni neri

La notizia
"Ogni notte sogno le pietre ", di Anais Ginori
La Repubblica, 8 ottobre 2002

Floriana Betta Il commento
Mi ha colpita, questo articolo, perché riporta un sogno, un incubo.Quello di Amina, la donna nigeriana che attende, entro il 2004, di essere lapidata. Per adulterio.

Come psicoterapeuta, mi occupo di sogni.

Dare un senso all'inconscio.

Come donna, certo di una condizione totalmente diversa e, diciamolo, privilegiata anni luce al confronto, mi sento vicina alla sognatrice.

Come figlia di deportato dei nazisti, ricordo i risvegli di mio padre, che divenivano i risvegli di tutta la famiglia, quando, nell'incubo, urlando, riviveva le torture naziste.

Ho quindi tre buoni motivi per riflettere…pensieri tristi, rabbiosi, indignati.

L'articolo riporta che Amina, la quale è in vita, al momento, solo grazie al dover allattare la figlia nata da questo reato, sogna.

Sogna di essere lapidata.Di non avere possibilità di fuga.

Forse spera, almeno in sogno di poter trovare un'elaborazione, una vitalità dopo tanto annientamento? Se così è, non la trova.E' una faccenda in elaborabile. Da quel che trapela dall'articolo, tra analfabetismo, ignoranza e violenza, Amina non mi pare riesca ad avere neppure più forza per la rabbia.Se fosse un'europea, si potrebbe dire che soffre di una sindrome di Cotard, la dolorosa negazione di ogni vita, la dannazione ad un'immortalità di sofferenza.

Ma europea non è. E, mi pare, la sua sofferenza sia non uno stato di malattia, ma una condizione così stabile da presentarsi come fisiologica. Infatti, l'articolo riporta che solo appena venuta a conoscenza di cosa fosse la Sharia e di cosa le comportasse l'essere rimasta incinta di un uomo che è scappato negando tutto, solo all'inizio Amina era stata male, vomitava e non mangiava, finendo all'ospedale.Ora sembra un personaggio quasi siderato dalla violenza, quasi passiva, senza rabbia e senza emozione.

Solo il sogno, in cui viene lapidata, quasi ogni notte, ci dice qualcosa del suo terrore.

Possiamo, qui, dare l'interpretazione freudiana dell'incubo come, malgrado tutto, un soddisfacimento del desiderio, dato che, al risveglio, Amina può dirsi "non è vero "- almeno per il momento -

Possiamo dare l'interpretazione dei sogni traumatici, in cui si tenta di riportarsi al trauma, per trovare una via di rimedio nell'oggi, non avuta ieri?

Stiamo parlando di un sogno, quindi della " via regia " dell'inconscio..ma possiamo ancora parlare di inconscio, o solo di una violenza abbacinante che scompagina la possibilità di pensare?

Non voglio affatto aprire un dibattito di psichiatria transculturale.Vorrei prestare parole ed emozioni ad Amina, e alle donne come lei, e alle donne come Aileen Wornos, prostituta lesbica americana giustiziata in Florida il 9 ottobre 2002- per sette omicidi di clienti, vittima della violenza civile, made in U.S.A., per la quale donna nessuna associazione, nessun prelato ha mosso un dito. A differenza dell'altra unica donna finita sulla sedia elettrica, accompagnata, però, da un vasto movimento di indignazione pubblica, perché di aspetto fragile, biondino e seduttivo, Aileen è lesbica, non pentita, aggressiva: odia gli uomini. Crepi in silenzio, quindi.

Prestare parole alla quattordicenne Desiré, accoppata dai coetanei, e dalla pornografia allettante della rabbia degli sfigati, e dalla pornografia di noi adulti di oggi, che spacciamo per libertà sessuale la nostra mancanza di responsabilità spirituale.

E di mancanza di spiritualità si tratta anche per la lapidazione.Una violenza che comincia prima.nella concretezza di quella legge paranoidea che caratterizza la Svaria, l'occhio per occhio, dente per dente. Lapidazione, mani mozzate per il furto, flagellazioni..Un'inondazione di concreto che toglie spazio, direi aria, al pensiero.

La violenza comincia dalla reintroduzione di questa Svaria per la legge islamica nel 2000 - mentre da noi si festeggiava il millennio.

Colla reintroduzione della pena di morte punitiva e atroce per il reato ( ? ) di adulterio.

Questo reato deve essere suffragato dalla testimonianza di quattro uomini, per ogni membro di sesso maschile mancante, ci vuole la testimonianza di due donne.

Vale a dire, altra violenza, questa, soffusa: la testimonianza di una donna vale la metà di quella di un uomo.

Oddio, in Italia, il voto femminile è conquista del Partito comunista solo dal 1946. Dopo lungo dibattito, oltre tutto. Ma il voto, mi si può dire, è già parlar di lusso, rispetto a quello che patisce la donna in Nigeria.

Violenza ancora: a beffa della spiritualità, tra un lancio di pietre e l'altro, si recitano i versetti coranici.

La storia di Amina - che, purtroppo, è una delle tante, non l'eccezione! - comincia nella paura e nell'abuso. Infibulata. mutilata. sposata a dieci anni, non sa quanti anni dopo abbia avuto il primo figlio. Poi, altri due. Il marito la ripudia. E si tiene i suoi tre figli. Lei torna alla casa del padre. Incontra un altro uomo, che la mette incinta, poi sparisce.

La polizia non indaga, la condanna e basta , eppure, mi par chiaro che non può essersi messa incinta da sola. Non è mica Madonna, o le altre super donne dei figli in provetta, questa qui. - a proposito di violenza, pornografia, onnipotenza e spiritualità! -

Amina non era neppure a conoscenza della legge islamica: fino al 2000, non era in vigore! Non sa neppure chi sia Clinton , né chi sia l'altra nera che ha scampato di recente la stessa pena.

Il suo sogno è quasi infantile nella sua monotona semplicità - lo sogna ogni notte -e rimanda alla silenziosa disperazione di chi è ucciso e di chi uccide, di chi non è amato e di chi non riesce ad amare: un senso di disperazione insopportabile, una solitudine, una provvisorietà fatale: la cancellazione annunciata.

.Soprattutto la sofferenza di un'impotenza assai grande di fronte a qualcosa che non si può neppure chiamare distruttività, perché fa parte di una cultura, di un'atroce modo di mascherare a religione quello che è solo abuso, o malcelata forma di amore protettivo? Ricordo una madre, portata in Psichiatria, anni fa, perché aveva ammazzato a colpi di mestolo la bimba implume che ne aveva deluso le aspettative. Doveva mangiare tutto, Tutta la pappa. Perché doveva crescere. Per amore ( ? ) questa madre ne aveva fatto polpette.

Questa Sharia, questa legge islamica , imposta dal maschile attraverso le madri, le anziane, a loro volta mutilate e torturate e appiattite ed annientate è forse , come il mio esempio della madre polpettante,una forma di protezione e di amore? Queste storie che legano le madri alle figlie, le bimbe alle anziane - i maschi non assistono mai all'infibulazione, ne sono artefici di sfondo, un setting della violenza inapparente -, queste storie sono violente come una passione.

Le mutilazioni inferte al corpo della bambina - come quelle inferte al loro proprio corpo, da bambine - sono inferte ad un corpo femminile, perché accarezzarlo sarebbe un peccato d'amore… La madre infibula la bambina per tenerla lontana, perché forse quel corpo che le somiglia , tuttavia non le appartiene e vuole sapere che esiste perché solo deformandola e mutilandola ritiene di farla essere ? O in questa deformazione della figlia bambina può esser trovata la giustificazione della madre all'aver accettato questa violenza non come tale, ma come destino.Queste madri violate dai padri patriarchi, che le rinchiudono, le velano, le isolano, le iniziano a piaceri esclusivamente maschili, mai condivisi, mai condivisibili - l'infibulazione è la concretizzazione della sessualità femminile castrata , non solo fantasia dell'afanisi, concreta afanisi per sempre - forse cercano, nel perpetuare l'orrore sulle figlie, di annullare, di rendere non avvenuta la violenza che le ha rese senza radici, sradicano altre vite.

Aileen Wormos, la prostituta killer, figlia violentata e abbandonata, donna omicida , e Amina sono entrambe due condannate a vita e, poi, a morte: per il delitto di aver avuto sentimenti, oltre che pratiche, impropri.Per non aver solo subito.

Quindi, se fossi in seduta, con Amina e le dovessi interpretare il sogno, che dirle?

La cosa inconfessabile che, leggendo di questa vicenda, mi è venuta in mente è che la psicoanalisi si fermi davanti alla Sharia islamica. Come un 'auto senza benzina, come una vita senza amore. Perché di amore, in questi riti religiosi patriarcali, non riesco a vederne. Meglio, mi sembrano, gli antichi cinesi che sopprimevano le figlie femmine alla nascita, come eliminazione e del problema delle bocche da sfamare e come anticoncezionale sulle lunghe. In fondo, risparmiavano loro una lunga penosa tortura.

La psicoanalisi si ferma e può solo partire un tentativo, politico, femminista, che sottragga queste donne alla manipolazione che le sottrae e le estrania da sé ?

O la psicoanalisi può tentare di contenere questo orrore, col cercare di dargli parola, di far parlare le pietre, sostenendo la speranza che qualcosa, lentamente, cambi e trasformi questi giochi di potere familiari e tribali in pensiero.

Forse. Contenere questo dubbio è già, paradossalmente, tentare di elaborare una pensabilità, per quanto futura.Forse è di una qualche utilità occuparsene, non negare l'evidenza emotiva di queste cose, allontanandole da noi come fatti distanti che non ci riguardano.Forse è utile sentirsi tanto impotenti e tanto addolorati.con una confusione, la mia, persino sull'utilità della mia professione, scardinata dalla violenza di quel che mi accade vicino.

Del resto, quando lavoriamo con pazienti paranoici, assolutamente violenti nella loro fraudolenta protervia di insegnare a tutti ciò che è giusto - secondo loro, beninteso, - mentre loro stessi tendono a non assumersi mai una responsabilità, giustificandosi all'infinito mentre sono spietati con gli altri,non siamo molto lontani dal cimento che ci portano questi fanatici islamici con i loro privilegi di maschi a cui tutto è lecito, mentre le donne vengono annientate in nome del Signore.

Davanti ai pazienti paranoici non penserei che la psicoanalisi si ferma.

Forse è la concretezza politica, gruppale, che spaventa di più in queste vicende della legge islamica.

Comunque, spaventa moltissimo.

Alla fine di queste righe, forse sono arrivata vicino al sogno di Amina: spaventata e ferita nelle mie certezze.Che sia questa vicinanza l'elaborazione?

La contesa dei figli

La notizia
Scopre che il figlio non è suo e chiede 500 mila Euro di risarcimento. Nell'ambito di una difficile separazione, nella quale ognuno tenta di ottenere l'affidamento del bambino, il marito scopre e ottiene conferma dall'esame del DNA di aver allevato per sei anni un figlio non suo. Ora chiede alla ex moglie i danni per il trauma subito.
Il Secolo XIX, 20 ottobre 2002

Gisella Troglia Il commento
Questo fatto è balzato agli onori della cronaca durante la settimana nella quale alcuni altri avvenimenti, drammatici e cruenti, hanno fatto scaturire una lunga serie di riflessioni sulle coppie e sulla separazione. Si sono letti molti punti di vista sulla crisi del matrimonio, sui rapporti uomo/donna, sull'emancipazione femminile e sulla fragilità maschile, sull'inadeguatezza delle leggi, sulle statistiche delle separazioni e dei divorzi, sulle sentenze di affidamento dei figli che vedono quasi sempre vincitrici le madri, sul ruolo dei padri…

In me, che, come psicoterapeuta, aiuto coppie in crisi o che si stanno separando, questo dibattito ha suscitato un grande senso di stanchezza interiore, per l'impressione che, davvero, non si riesca quasi mai ad uscire dalla logica, naturale ma molto primitiva, del conflitto: conflitto prima di tutto in se stessi, con conseguente rifiuto di aspetti personali che non si riescono a rielaborare; conflitto con gli altri, che scatena la competizione, purtroppo troppo spesso il cemento delle coppie, al posto del tentativo di comunicare e di scambiarsi reciprocamente sensazioni affettive…

Anche nei diversi commenti su questi avvenimenti, emerge spesso questa logica sottintesa, quando si fa pendere l'ago della bilancia o a favore delle donne, oggi autonome e insofferenti del compromesso, o a favore degli uomini, aggrediti dall'emancipazione e divenuti fragili, o quando si privilegia l'applicazione della logica legale, o si dà invece esclusiva importanza alle dinamiche psicologiche…

Effettivamente il funzionamento della nostra mente prevede che in noi si attivino tutte le difese possibili per non soffrire, e uno dei meccanismi è l'espulsione degli elementi portatori di sofferenza, aspetto che sul piano relazionale può a volte trasformarsi nel tentativo di attribuire gli aspetti negativi o la colpa a qualcuno intorno a noi.

E' chiaro quindi che, quando una coppia non funziona, i suoi membri, senza dubbio emotivamente addolorati, disperati, arrabbiati, inneschino questa dinamica, e rifiutino quindi, prima, di scoprire in sé eventuali responsabilità della crisi, e preferiscano, dopo, attribuire ogni colpa all'altro. Ed è ovvio che, se i fatti aiutano a confermare le responsabilità dell'altro, questo atteggiamento si traduca e venga declinato in termini legali, con liti e diatribe nei tribunali, dove si discute su un piano legale ciò che all'inizio esisteva soprattutto sul piano emotivo.

A maggior ragione, penso, ritrovandosi inaspettatamente "non-padre" di un bambino per sei anni accudito ed amato, si presume, come proprio figlio.

Possiamo solo e da molto lontano immaginare lo stupore, la rabbia, il dolore, la confusione emotiva del marito di fronte a questa scoperta, e certo non ci meraviglia che questa coppia sia andata in crisi, data la non chiarezza sulla quale si reggeva con un inganno di tale portata; di conseguenza, non stupisce nemmeno che la contesa per l'affido del figlio fosse già molto avanzata, con la richiesta della moglie presso il Tribunale per i Minori di far decadere la potestà genitoriale del partner accampando motivi di indegnità.

L'episodio riportato dal giornale mi è sembrato significativo come conferma da un lato dei meccanismi con i quali funzioniamo, dall'altro della piega che queste drammatiche questioni emotive possono prendere, quando vengono manifestate e risolte in ambito legale, come se il percorso della sofferenza potesse esaurirsi o attenuarsi una volta espresso in termini legali ed eventualmente economici.

Quasi sempre durante una separazione legale si assiste alla lite della coppia, per un periodo più o meno lungo, proprio sull'affidamento del figlio, in nome di un presunto "interesse" del bambino che, in realtà, è quasi sempre un'idea di copertura di altri motivi, più profondi e complessi, che partono spesso da molto lontano (per esempio, dalle motivazioni che hanno spinto la coppia a mettersi insieme, oppure ognuno dei coniugi a volere questo figlio).

Dato che durante il processo di separazione il ruolo coniugale è evidentemente sottoposto a un grande senso di fallimento, il ruolo genitoriale può uscirne allora trionfante con l'affidamento del bambino, perché ottenerlo vuol dire essere riconosciuto come il genitore buono o comunque migliore, e automaticamente definire l'altro genitore come cattivo o comunque peggiore: l'affidamento assume la funzione di conferma dell'autostima e di definizione del ruolo sociale, funzione che, nel momento della separazione, diventa una difesa dell'inevitabile senso di fallimento, un aiuto a sopportarne la sofferenza.

Contendersi i figli nel momento della separazione diventa un mezzo per affermare la propria validità o il proprio spazio di decisione e di bravura, soprattutto attraverso una definizione di non attendibilità dell'altro come genitore.

Dalle statistiche e dalle analisi compiute dai sociologi, sembra che oggi nella nostra società siano le donne effettivamente quelle più pronte ad affrontare la crisi coniugale, senza temere l'ipotesi di separazione, forse perché investono molto di più, per tradizione e per cultura, sugli aspetti affettivi e sulla famiglia, e paradossalmente sono perciò più pronte a rinunciare quando la coppia non funziona, non sopportano il compromesso, favorite dalla loro emancipazione, più protette nelle vita sociale dall'inserimento nel mondo del lavoro.

Effettivamente, nella mia esperienza ho notato che sono spesso le donne a convincere, o, a volte, quasi a costringere, i loro partners alla consultazione, quando le cose non vanno, al fine di capire il significato della crisi e di prendere una decisione, qualunque essa sia, mentre molti uomini tendono a voler credere che comunque si potrebbe continuare come sempre.

Ho però altrettanto notato quanto la capacità di manipolazione dei sentimenti e delle relazioni sia più attiva nelle madri, sia nei confronti dei figli, sia nel rapporto tra loro e il padre, e quanto questa venga messa al servizio della rivendicazione di una presunta priorità nel rapporto con i figli, per togliere spazi al padre.

E' probabile che dinamiche di questo tipo siano attivate anche nelle famiglie e nelle coppie non in fase di separazione, solo che la cosiddetta normalità della situazione copre i giochi collusivi della coppia stessa; quando l'accordo viene meno, queste dinamiche invece dirompono, con numerose conseguenze, quale, per esempio, quella della esclusione, legalizzata e vissuta, dei padri dalla vita dei figli.

Ma in realtà, più o meno in buona fede, viene sempre fatto un uso dei figli da entrambe le parti, durante la crisi e durante la separazione: sembra che d'un tratto ciascun membro della coppia sia l'unico in grado di capire e di sapere qual è il bene del suo bambino, come deve vivere, quali scelte bisogna fare per lui; ed ognuno sostiene di parlare in nome del "reale interesse" del bambino.

Viene meno così quel dato che solo apparentemente sembra acquisito dal senso comune, che cioè ogni figlio abbia bisogno di entrambe le figure genitoriali, e che, anche in caso di separazione coniugale, egli debba e possa continuare i rapporti già instaurati con ambedue i genitori e con le loro rispettive famiglie, che cioè ogni genitore separato abbia il dovere e il diritto di svolgere comunque il suo ruolo anche dopo la separazione e il divorzio.

Forse non si riflette mai abbastanza sulla significativa importanza di tutte e due le figure genitoriali nello sviluppo psichico del bambino e nel suo equilibrio mentale.

Basti pensare, per esempio, che poter fruire di un rapporto reale e vivo con entrambi i genitori permetterà al bambino quei processi di identificazione e disidentificazione che stanno alla base del proprio senso di identità e della conquista della maturità affettiva ed emotiva.

Avere rapporti poco significativi con un genitore vuol dire per un bambino invalidare o addirittura amputare una parte di sé, reprimere aspetti della sua interiorità; quando un genitore prova a screditare in qualche modo la figura dell'altro genitore, o addirittura a cancellarla, sta contribuendo a invalidare o a cancellare aspetti del Sé del figlio, che ne rimarrà come mutilato in qualche parte della sua mente. (Per questo è necessario sottolineare l'importanza che proprio il genitore che ottiene l'affidamento favorisca e faciliti al massimo ogni opportunità di rapporto dei figli con l'altro genitore).

Non si può allora fare a meno di chiedersi su chi, nell'avvenimento che stiamo commentando, risulta davvero il più traumatizzato, se il padre, ingannato nella sua paternità biologica, o la moglie, scoperta nel suo tradimento, o il figlio, che potrebbe venire a sapere di "valere" 500.000 euro per la persona che ha sempre creduto suo padre…

Ma, forse, ancora una volta, non è questa la logica con la quale ragionare, perché per tutti i personaggi di questa vicenda la posta dei sentimenti in gioco sembra essere molto alta e il bilancio affettivo molto pesante.

Forse, prima o poi, questi genitori sentiranno l'esigenza di deporre le armi, di uscire dalle aule dei tribunali, per cominciare ad affrontare il faticoso cammino che prevede il riconoscimento e il rispetto dell'esigenze dell'altro, in una prospettiva di mediazione, e non più di conflitto, tra i bisogni di tutti, e particolarmente di questo bambino per il quale nessun risarcimento economico potrà mai sostituirsi ai legami affettivi che si sono instaurati in questi sei anni.

Perché la guerra?

La notizia
Alcuni articoli della sezione Primo piano de "L'espresso" affrontano il tema della guerra all'Iraq esaminando la posizione di Bush ("La pace nasce dai missili"), i dubbi nella Casa delle Libertà ("Siam di destra e pacifisti"), le riflessioni di Formigoni ("Ma Saddam non è Hitler"). Il settimanale propone anche una copertina titolata "I padroni della guerra", in cui campeggiano quattro personaggi: il segretario di Stato Colin Powell, il vice presidente Dick Cheney, il presidente Bush, il consigliere per la sicurezza Condi Rice.
L'Espresso, 10 ottobre 2002

Mariella Torasso Il commento
Gli articoli citati confermano l'impressione di determinazione e il crescendo di argomentazioni favorevoli alla guerra che i mass media da tempo attribuiscono quotidianamente alla Casa Bianca e ai relativi portavoce: "Come Napoleone Bonaparte 200 anni fa, George W. Bush vuole portare la libertà nel mondo sulla punta delle baionette" (L'espresso nr. 41, W.Goldkorn, p.32). Ma alle certezze di chi prepara "una marcia trionfale nell'universo musulmano e nel mondo" (ibidem, p.34, parole attribuite al consigliere per la sicurezza, appunto…) si contrappongono i dubbi e le contrarietà di quanti si interrogano sulle ragioni della guerra.

Già nel 1932 Einstein, sollecitato dall'"Istituto internazionale per la cooperazione intellettuale" (emanazione della Società delle Nazioni), aveva coinvolto Freud in un dibattito epistolare sul tema.

Einstein si interrogava sulla possibilità di liberare gli uomini dalla fatalità della guerra e si chiedeva cosa mai rendesse così vulnerabile una massa asservita ad una minoranza decisa a vedere nella guerra un'occasione per promuovere autorità e interessi personali.

L'intervento di Freud adottava il punto di vista psicoanalitico per inserirsi nelle argomentazioni (rilanciando peraltro temi già affrontati dal 1915 al 1929); dopo aver concordato con Einstein circa l'opportunità della costituzione di un organismo sovranazionale di pace dotato di potere, Freud proponeva il potenziamento di Eros contro la pulsione di morte e l'educazione di una "categoria di persone elevate dotate di indipendenza di pensiero", in grado di guidare la massa e di tenere sotto controllo la vita pulsionale dell'umanità.

Al di là del risvolto consapevolmente utopistico del percorso proposto, alcune considerazioni di Freud sull'essere pacifista non mancano di farci riflettere. Il rifiuto della guerra per un pacifista ha carattere costituzionale, organico, e non solamente intellettuale, affettivo perché la guerra contraddice prepotentemente all'organizzazione psichica raggiunta con il processo di civilizzazione. La guerra è totalmente altro rispetto alla preminenza dell'intelletto sulla vita pulsionale e rispetto all'interiorizzazione dell'aggressività che il percorso di civiltà ci ha portato - con le sue conseguenze non sempre positive. "Quanto dovremo aspettare perché anche gli altri diventino pacifisti?" si chiedeva Freud nel settembre del 1932.

Una settantina di anni dopo non possiamo sottrarci al flusso di immagini e di notizie che la guerra mass-mediatica rovescia nelle nostre case. Possiamo fingere di essere indifferenti - anche per difenderci dall'angoscia - e rifugiarci in una posizione regressiva ("tanto le decisioni passano sopra la mia testa di semplice cittadino…"), ma il nostro inconscio sicuramente registrerà l'impatto violento delle immagini di sofferenza e di morte e forse ci rilancerà la domanda: perché?

Wotan, l'antico "dio d'impeto e di bufera", potente incantatore e illusionista dello spirito germanico, risvegliatosi - nella lettura di Jung - a distruggere gli ideali di un'epoca e a proporre un ritorno al passato, forse sta assumendo archetipicamente nuovi volti in nuovi luoghi. Per riprendere l'immagine di Jung (1936), come un vecchio fiume scomparso nelle viscere della terra ritorna improvvisamente nel suo letto, così si può ridestare pericolosamente dagli abissi dell'inconscio quella parte ombra che l'uomo non sa più riconoscere come propria.

Consapevoli dell'urgenza di ridurre la distanza tra mondo interno e mondo esterno, si desidera suggerire la lettura dell'interessante testo di Nicole Janigro, La guerra moderna come malattia della civiltà (Bruno Mondadori, 2002) che, proponendo brani di Freud, Jung e altri, può accompagnare la riflessione su ciò che significa guerra oggi.