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La forza persuasiva dei soldi

La notizia
Oltre ai kalashnikov Mujahddin a Kabul, anche grazie alla forza persuasiva dei soldi. Kabul. La ''liberazione di Kabul'', come la chiamano i nuovi conquistatori del Fronte unito antitalebano, non è frutto solo dei raid alleati o degli assalti dei Mujaheddin. Oltre alle cannonate, hanno pesato sulle sorti della battaglia i salti dell'ultima ora sul carro dei vincitori, i rapporti personali, spesso di famiglia, tra comandanti dei fronti avversi e il valore del denaro che compra i disertori: 50 dollari per un soldato, 100 per un ufficiale talebano, somme ben più elevate per i veri capi.
''Il Foglio di martedì 14 novembre 2001

Il commento
E' difficile non porsi in una prospettiva psicoanalitica mentre immagini ed eventi, che ci giungono da territori poco conosciuti, occupano molta parte del nostro immaginario e ci inducono anche a chiederci se è lecito usare i nostri strumenti quotidiani per "pensare" altri mondi. Forse quasi inavvertitamente modificheremo e adatteremo i nostri strumenti. Per ora, come psicoanalisti, vedere con occhio psicoanalitico, ci permette di difenderci dalla troppa sofferenza e di porci nella situazione mentale di sentire ed indurre, nonostante tutto, speranza.

E' forse superfluo, in questo contesto di comunicazione, ricordare come, sia la psicoanalisi delle origini che quella successiva, legge ciò che accade nella psiche degli individui che costituiscono gruppi di combattimento. Possiamo accennare agli eventi più importanti: la regressione a fasi di funzionamento infantile con le difese corrispondenti più primitive come la proiezione del male nel nemico, la negazione del pericolo e della paura, l'identificazione nel comandante e nell'invulnerabilità del gruppo, l'eccitazione molto alta che difende dal pericolo della compassione, il passaggio all'atto di gruppo in cui l'aggressività persecutoria potrà togliere i freni per l'esecuzione di trucidezze impensabili ecc.Ma ciò non è evidente a tutti; invece possono saltare agli occhi altri segni: la guerra può essere vissuta per lunghissimo tempo come gioco e come lavoro e rendere contenti; chi in guerra non vorrebbe proprio esserci, come molti di noi qui a guardare ad Oriente, non fa che occuparsi delle guerre altrui con godimento. E' stupefacente la banalità e ripetitività di queste ricorrenze.

C'è un bellissimo film/documentario francese sul comandante Massud capo dei mujaheddin che racconta per immagini e interviste un ventennio di battaglie tra le montagne afgane. E' notevole l'impatto con l'aria apparentemente felice di uomini che dovrebbero essere distrutti da fatica e sofferenze. Si pensa: la guerra può rendere felici, se non fosse così non sarebbe preferita ad altre soluzioni. Ad un soldato viene chiesto: "Perché combatti?" "Non lo so, lo sa il comandante".

Se la guerra perdura vuol dire che ci sono ragioni psichiche dell'essere mano, più forti di ogni apparentemente ragionevole modalità di pensare ed agire con altri strumenti e questo vediamo nei miti e nella realtà. E' anche più facile che questo avvenga dove i bambini crescono tra le bombe e il lavoro quotidiano fondamentale è quello di combattere. Però in mezzo al fumo e agli scoppi ci sono altri intrighi; il gioco della guerra totalmente agito in campo di battaglia si avvia a trasformarsi in scambio di denaro e uomini.

Ho sentito raccontare che c'è un gioco permesso tra le tribù afgane, in cui, non il pallone viene conteso ma il corpo decapitato per l'occasione di una capra (non ho mai visto un esempio più eclatante di lotta per il possesso dell'oggetto primario). Ma nel momento in cui ci si scambia denaro invece che pugnalate, la più primitiva violenza e paura ha una sosta.

Guardando il documentario/film sopraccitato altre cose mi colpivano oltre l'apparente o reale vitalità e gioia di vivere dei combattenti e la loro capacità di trovare momenti per la musica, la poesia, la convivialità: che tutto questo non era diverso nei racconti che mi è capitato di leggere sulle guerre partigiane in Italia; lo stesso piacere di segnare il territorio, di conquistarlo al di là della sua importanza e l'esclusione totale dell'elemento femminile anche se il cibo viene confezionato, servito, dove quando non si sa; un accudimento assicurato e invisibile (come non vedere la fiducia che la mamma ci sarà sempre a proteggerci ma visibilmente solo quando vogliamo noi?).

Ma 20 anni di guerriglia possono anche stancare e rendere meno esaltante la guerra per chi sopravvive. Come la droga dopo parecchi anni. Nell'ultima intervista del comandante Massud, prima di essere assassinato, a settembre scorso, Massud si ricorda dell'analfabetismo delle donne e delle armi della cultura.

Quando succede questo? Quando l'imperituro gioco della guerra ha perso la tensione iniziale, quando la stanchezza dei gruppi che si affrontano rischiano di far scivolare tra gli individui la depressione. Il capo fa un sogno "politico" e ora un articolo ci racconta delle trasformazioni della lotta, dei tentativi di vendere e comprare uomini. Vuol dire che il gioco con i soldi sarà meno cruento?, Sì, sebbene possa essere terribilmente crudele.

La psicoanalisi ci insegna che tutta l'area degli scambi economici, in una gamma assai grande di variabilità qualitativa, è supportata da un funzionamento mentale che rivisita la fase anale dello sviluppo infantile. La variabilità qualitativa vuol dire che si può trovare in persone diverse una capacità di simbolizzazione inesistente o molto raffinata, però l'opposizione è ugualmente dominante. Soltanto che la violenza viene pensata ed agita con modalità meno totalmente distruttive; invece delle bombe, qualcosa che ricorda la materia fecale, per l'occasione rivestita di lucentezza e seduzione: il denaro, cui è comunque attribuito qualità di salvezza ed onnipotenza.

Poter pensare con Freud che ogni esplosione della pulsione di morte possa avere una tregua, che ci sia una maggior capacità individuale e collettiva di simbolizzazione, che diversi intrecci tra le forze di costruzione e riparazione e la tentazione di distruggere e morire si rendano visibili, ci permette di cercare nella ripetizione degli eventi la possibile unicità dei percorsi evolutivi.

L'alto prezzo dell'emotività negata

La notizia
E il medico diventa cinico. Ti rende cinico, quasi ''staccato'' dalla realtà emotiva che ti circonda. E ti fa diventare così ''cattivo'' da scaricare sugli altri, siano essi collaboratori, amici o ''utenti'' di quanto stai facendo, le tue frustrazioni. Convegno a Genova per studiare il fenomeno del Burn Out, il prezzo dell'aiuto agli altri.
''Il Secolo XIX, venerdì 9 novembre 2001

Il commento
E' la sindrome del Burn Out: può accadere a persone che si occupano degli altri a livello psicologico e sociale come medici, infermieri, insegnanti, magistrati, sacerdoti, psichiatri e psicologi. Chi decide di intraprendere queste professioni spesso ha motivazioni profonde che possono rimanere sconosciute al soggetto in questione. Tali motivazioni nascono e si sviluppano lungo l'arco della vita e in conseguenza delle proprie esperienze personali, in particolare all'interno della famiglia d'origine. Il desiderio di occuparsi di altri esseri umani può dunque derivare da un'abitudine acquisita fin da bambino a porsi come soggetto che ascolta e soccorre il genitore, per tale ragione rinforza in quest'ultimo lo statuto di individuo diventando una sorta di specchio nel quale egli può riconoscersi. Il sentirsi così importante nel farsi carico di questa funzione, pur nell'enorme presa di responsabilità, porta il bambino a sostenere l'adulto piuttosto che essere da lui sostenuto e riconosciuto, nel tentativo disperato di essere da amato.

Quando si diventa a propria volta adulti si può tendere a perpetrare questo modello, a farsi contenitore delle richieste e delle angosce altrui, oltreché dei bisogni fisici e psicologici. Nell'altro però può essere proiettato il nostro stesso bisogno, in noi non riconosciuto, negato e quindi scisso. L'illusione può renderci persone che "al di qua della barricata" si occupano di chi ha bisogno "al di là" dove chi è debole, fragile, malato o bisognoso di aiuto e di cure ci chiede qualcosa e dove noi ci sentiamo forti e in grado di dargliela.

Il non riconoscere però che anche noi possiamo essere individui estremamente bisognosi perché ciò può portarci a percepire anche la nostra fragilità e dipendenza arriva a farci sentire molto soli, nel tentativo di "curare" negli altri quello che non riconosciamo in noi stessi.

A questo punto però la richiesta di aiuto, il grido angosciante di chi non ammette deroghe ci risulta estraneo, pressante, persecutorio; sembra che una violenza invadente si appropri di noi non lasciando nemmeno lo spazio per pensare, per vivere i propri affetti, per elaborare i propri stati d'animo.

Il tentativo di attuare una difesa, di affermare che tutto questo dolore riguarda l'altro, malato o bisognoso di cure e d'attenzione ma non noi, può stare nel trasformarsi in esseri estranei a quanto stiamo vivendo, staccati dalla realtà emotiva vissuta come pericolosa. Il lavoro, allora, può essere svolto in modo automatico, a volte anche in maniera efficiente, purché la realtà emotiva non sia percepita, purché l'anestesia che ci procuriamo ci preservi da quegli stati d'animo che temiamo.

Questa posizione risulta essere, specialmente su tempi lunghi, estremamente limitante per l'individuo che la vive: essa porta a negare la percezione emotiva di buona parte delle esperienze che ci circondano, quindi a sentirci estranei, al di fuori del contatto con la realtà che si sta vivendo, quasi alienati.

Sembra una vita in cui sia difficile o impossibile apprendere dall'esperienza che pure stiamo vivendo: anche la nostra stessa facoltà di percepire stimoli emotivi diventa impoverita; la possibilità di imparare dagli altri sembra spegnersi ogni giorno di più, è "un morbo invisibile che può assumere le sembianze di una depressione invincibile ed è comunque difficile da curare".

Allora la risposta può trasformarsi in efficienza sul lavoro, in fatica estrema ed estrema solitudine: l'onnipotenza di chi si occupava degli altri malati e bisognosi diventa impotenza, disperata rinuncia a cambiare qualcosa, senso di sconfitta.

Gli "utenti" con le loro richieste diventano portatori di istanze che sembrano annientarci; sconosciute e pericolose esse ci rimandano il limite, la finitezza che è propria di ogni essere umano ma anche la frustrazione di sentirci quasi paralizzati di fronte a certi eventi che sembrano ripetersi sempre uguali.

Nel tentativo di difenderci da tanta angoscia della quale possiamo non capire l'origine ma che ci viene chiesta di contenere possiamo, allora, scaricare sugli altri le amarezze e il malumore: e se il problema non viene curato, nel momento in cui l'individuo diventa "capo" riproduce sui sottoposti la sua tensione creando un ambiente di lavoro invivibile.

Diventa visibile in questi stati come l'individuo chieda agli altri di farsi carico al suo posto dell'ansia che prova: qualcuno che sia in grado di contenere la delusione e la rabbia vissuta e in questo modo limitare e dare un senso, pur illusorio, a ciò che così pesantemente si vive.

Ma quale può essere la risposta, quale il lavoro da fare per impedire di essere colpiti dal "morbo invisibile" del Burn Out? La risposta può forse trovarsi in una maggiore conoscenza di sé, dei propri bisogni ed emozioni al fine di comprendere che esse possono accomunare tutto il genere umano pur se a livelli quantitativi diversi.

Conoscendo ciò che ci contraddistingue nel profondo non saremo tentati di negarlo e di vederlo solo negli altri come qualcosa che può attaccare e distruggere la nostra individualità.

In carcere... per vivere!

La notizia
La strana visita di un ladruncolo dal carabiniere che lo arrestò. ''Fatemi tornare in carcere fuori non ce la faccio più''.
''Il Lavoro, di lunedì 29 ottobre 2001

Il commento
E' una notizia curiosa quella di un ladruncolo che chiede di essere messo in carcere … per non rubare. E' una notizia che, proprio per questo, può suscitare interrogativi e far nascere la voglia di andare a vedere che cosa ci possa essere dietro una così "strana richiesta".

E subito alla mente viene spontaneo pensare quanto, infatti, sia difficile trovare dentro se stessi la capacità di controllare i propri bisogni, di gestire i propri impulsi, di modulare i propri desideri. Il detto popolare: "L'occasione fa l'uomo ladro" sembra sottintendere, per l'appunto, tale difficoltà e acutamente mette in evidenza che non è solo un problema di pochi, ma di ogni uomo, anche se per alcuni -più che per altri- tale problema diventa drammatico.

Come mai?

L'osservazione clinica e le conoscenze psicoanalitiche possono darci una mano nel tentativo di capire qualcosa.
Ogni essere umano, in un determinato momento della sua vita, ha fatto l'esperienza di essere guidato, se vogliamo "educato" a gestire quel crogiuolo di emozioni, sentimenti, bisogni che provava, al fine di mettersi in rapporto con gli altri e con il mondo. Alludo, per esempio, al momento delicatissimo, nella prima infanzia, dell'educazione degli sfinteri, ovvero l'apprendimento del bambino a fare cacca e pipì in determinate circostanze e in dati luoghi, con tutti i vissuti psichici sottesi. Alludo, poi, al momento fondamentale dell'introiezione della legge paterna, quale risoluzione della problematica edipica, quando fra i 3, 5 anni il figlio realizza l'identificazione con il genitore del proprio sesso come superamento degli intensi sentimenti di gelosia, rabbia e aggressività nei confronti del padre (per il bambino) e della madre (per la bambina), vissuti come rivali nella conquista della esclusività dell'amore del genitore dell'altro sesso. Alludo, infine, al drammatico periodo dell'adolescenza quando, nella ricerca di una propria identità, il giovane , deve fare i conti con un retaggio familiare di relazioni, codici, valori, leggi assimilati ed una nuova realtà esistenziale da pensare, elaborare e realizzare. Ed è proprio questo il momento in cui, da quella situazione dove erano gli adulti a guidare, ad indirizzare si può realizzare il passaggio ad una capacità di gestire più autonomamente la propria realtà emotiva e la propria capacità relazionale. Ma è anche questo il momento dove, come dire, i "nodi vengono al pettine". Sappiamo che una personalità può svilupparsi nella misura in cui è in grado di sopravvivere, a livello psichico, alle gravose esperienze del cambiamento e delle perdite che tale cambiamento inevitabilmente comporta. Ora questo è possibile se si è stati in grado di creare un' identificazione con una figura interna pensante, come dire, con un centro di amore e di attaccamento, che alla fine può funzionare in modo autonomo dalla sua origine e rappresentazione esterna. In altre parole, la crescita, l'evoluzione, la realizzazione a livello psichico dipendono dal fatto che il "nucleo originario" di ogni essere, quel Sé inesperto ed ancora immaturo, venga inizialmente contenuto (direbbe Winnicott ) e guidato nel corso dei suoi rapporti intimi in famiglia, prima, e nella vita poi. Ora, se questo è mancato o è stato inadeguato, si possono aprire alcune prospettive esistenziali anche drammatiche. Esse vanno dalla incapacità a tollerare autorità, norme, leggi; alla impossibilità a contenere vissuti, stati d'animo … fino alla richiesta all'altro di essere lui quel contenitore che si sente mancante dentro se stessi. I modi sono molteplici: dalla fanatica adesione al credo (politico, religioso, filosofico) del capo; alla acritica adesione ai modelli sociali dominanti; all'appoggio emotivo simbiotico con il partner … fino alla richiesta esplicita al tutore dell'ordine di essere incarcerato, come succede a Roberto M. Il motivo è sempre lo stesso: fammi da contenitore!

Rimane ancora da capire il senso di quello che la psicoanalisi definisce un "agito": quella necessità di rubare di cui Roberto non può fare a meno. Senza pretendere di analizzare il caso, si può però presumere che tale comportamento possa avere anche più di un significato: magari ripristinare qualcosa che si avverte come andato perduto, ad esempio un rapporto padre/figlio. Potrebbe esprimere aggressività, cioè un modo di privare qualcun altro di un oggetto per invidia e rabbia primitive; oppure potrebbe essere il tentativo di colmare con cose preziose appartenenti ad altri una povertà interiore sentita come molto profonda e dolorosa. Potrebbe trattarsi ancora di una reiterata protesta per un'attenzione ed un accoglimento che, nella storia infantile, non sono stati dati con sufficiente continuità dalle persone significative di riferimento. O potrebbero esserci altre ragioni ancora.

Quello che qui si vuole, però, cercare di mettere in luce è un fatto estremamente importante. Al di là delle varie strategie che si possono attivare più o meno inconsapevolmente per sopravvivere, ciò che si ricerca con esse è il tentativo di sfuggire al dolore mentale o se vogliamo, di affrontare tale dolore con delle azioni piuttosto che con il pensiero. E questo si può presentare in qualsiasi stadio della vita, anche in età adulta inoltrata, perché è lo stato mentale dominante che finisce per favorire l'azione rispetto alla riflessione e che provoca reazioni infantili invece di risposte adulte. Sta qui il dramma di ogni essere umano, di ognuno di noi, dunque, nel momento in cui ci si trova ad oscillare di fronte alle quotidiane fatiche della vita e alle difficoltà della realizzazione dei rapporti con gli altri.

Farmaci... basta un click!

La notizia
Sempre più Internet si rivela utile anche per scopi non chiarissimi. Ci si collega ad un sito e si può: ''comprare il Viagra senza ricetta né imbarazzanti visite mediche... si possono avere anche pillole contro l'Antrace, l'obesità, la caduta dei capelli... qualcuno bara!''.
''L'Espresso, novembre 2001

Il commento
A che cosa serve Internet? È un mezzo di comunicazione straordinario che consente a tutti quelli che possono essere collegati di usufruire di moltissimi servizi. Ovvero impedisce a coloro che ne sono privi l'accesso a tali servizi e ancora, permette agli utenti di usufruire di certi servizi perdendo la possibilità di affrontare davvero i problemi.

Sembra quasi, a volte, che sia soprattutto importante avere lì, "a portata di mouse" qualcosa a disposizione per poter soltanto pensare che le cose si possano risolvere, anche se, di fatto, non si acquisterà mai il Viagra "online".

A questo proposito, a dimostrazione della diffidenza che ancora le persone hanno (almeno in Italia) nei confronti degli acquisti in rete, ho letto recentemente che uno degli oggetti più "cliccati", in previsione di un acquisto, è un indumento intimo maschile: uno slip "tipo perizoma".

Al di là di queste considerazioni sul commercio telematico, non è mia intenzione criticare Internet, anche perché sarebbe intrinsecamente sbagliato, ma è forse il caso di interrogarci su come usiamo poveramente un mezzo potentissimo soltanto per difenderci dall'opportunità di affrontare i problemi che ci affliggono: Internet può essere utilissimo per tantissime cose, purtroppo anche per evitare di avere dei rapporti con le persone e con noi stessi.

E sì, perché a cosa serve avere il Viagra in forma anonima? (non parliamo dei farmaci offerti contro l'Antrace che probabilmente sono soltanto il frutto di un'operazione commerciale dovuta esclusivamente alla paura che sta attanagliando tutto il mondo occidentale)

Cosa ci si guadagna?

Cosa si perde?

Si guadagnano tante illusioni, si spera che con un "clic" e la pillola promessa si possano mettere le cose a posto. Si pensa che in questa maniera non si perde troppo tempo.

Si perde il rapporto con una persona: anche ammettendo che un farmaco come il Viagra possa risolvere un sintomo, si perde il significato del problema e anche della persona con cui siamo.

E per quello che riguarda il rapporto altrettanto importante con il medico: non è la stessa cosa comprare un farmaco quasi di nascosto e anonimamente piuttosto che alla fine di un colloquio con un medico; un farmaco ha una sua efficacia, ma questa dipende anche da come lo si assume e da chi lo somministra, se l'approvvigionamento anonimo dà soltanto la possibilità di non parlare con nessuno di sé, il risultato è soltanto quello di aumentare la cappa di silenzio che incombe sopra e dentro di noi con annesso un aumento della sofferenza, del senso di solitudine e della sensazione di onnipotenza di poter fare tutto da soli.

Inoltre non ci concediamo "del tempo". Non prendiamo tempo per riflettere e per pensare un po' a noi stessi. È la stessa cosa che non avere rispetto per noi stessi. Si abolisce qualsiasi responsabilità verso di noi, si elimina la responsabilità dei nostri pensieri, delle nostre emozioni e dei nostri problemi.

Un sintomo, una sofferenza, non nascono a caso nel nostro organismo, sempre hanno un significato. Se troviamo il modo di non pensarci le cose rimangono sempre uguali a se stesse fino a quando non assumono dimensioni tali per cui non è più possibile fare qualcosa.

Un banale mal di testa può senz'altro avere origini organiche, ma può anche avere il significato di una reazione inconscia del nostro organismo quando, non volendo parlare di qualcosa che non va, ad esempio con il partner, preferiamo "un bel mal di testa" alla relazione con l'altro. A questo punto a cosa serve l'analgesico? Forse a fare passare il mal di testa, ma sicuramente anche a non pensare e a credere che il corpo e la mente siano due entità separate quasi in lotta fra di loro.

Eugenio Gaddini, uno psicoanalista recentemente scomparso, nel suo scritto Note sul problema mente - corpo del 1980 inizia così il suo lavoro:
"La psicoanalisi considera l'attività mentale come la funzione più altamente differenziata del corpo, talmente differenziata da richiedere un suo proprio metodo di indagine, atto cioè a studiare i suoi fenomeni come sono, indipendentemente dai presupposti biologici che li sottendono. Tuttavia, la psicoanalisi considera il corpo e la mente sotto l'aspetto di un continuum funzionale, l'elemento chiave del quale rimane quello di un processo, nella differenziazione della funzione mentale, la cui direzione è dal corpo alla mente, ma che la psicoanalisi studia nella direzione dalla mente al corpo"

Gaddini spiega come questo "continuum funzionale" nasca e si sviluppi necessariamente nel bambino attraverso una costruzione di un sé mentale che passa attraverso la ricostruzione di un sé corporeo. Prima della nascita i confini del feto sono reali, concreti: il liquido amniotico, la parete uterina che contiene e dà una forma al sé. Mente e corpo sono per forza la stessa cosa. Dopo la nascita tutto muta; il bambino impara a fare le prime cose, ovvero comincia a funzionare per determinati aspetti e deve costantemente imparare che esiste un limite al suo corpo e che esiste anche una sua mente, o funzione mentale, che non ha ancora trovato il contenitore adatto.

Quello che accade quando siamo un po' più grandi sembra essere molto simile; una malattia o un sintomo emergono e ci colpiscono nel corpo, ci sembra impossibile che altro rispetto al corpo possa avere un ruolo. Facciamo troppa fatica ad accettare come una qualche funzione mentale (affettiva, emotiva, interiore) non abbia trovato un altro mezzo per evidenziarsi.

Mitscherlich in Malattia come conflitto, dice: "la malattia non è mai in nessun caso qualcosa di fortuito che agisce in maniera anonima: la malattia è una delle possibilità di reazione che si presentano all'individuo allorché si trova in quella che gli appare una situazione senza via di uscita".

E ancora Chiozza in Per un incontro fra psicoanalisi e medicina: "Ogni malattia ha un significato umano che consiste nel fatto che, in qualche modo, un uomo è allontanato dalla sua decisione [ … ]. Esiste, quindi, una partecipazione dell'uomo alla sua malattia, tanto all'origine quanto al decorso della stessa".

Per ritornare al discorso su Internet e i farmaci, non è per questo che è nata Internet, non è un contenitore di pubblicità e basta, o una vetrina, questo è l'uso che ne facciamo, ma è un uso puramente difensivo, quasi patologico, per nulla comunicativo. Senza contare che la Rete non è così nella sua sostanza, siamo noi che ne utilizziamo gli aspetti più "perversi", trascurando le potenzialità comunicative e creative che essa ci offre.

Halloween tra vecchie angosce e nuovi terrorismi

La notizia
E se questa volta gli spiriti malvagi si materializzassero? Se lo è chiesto in un inchiesta il Wall Street Journal e se lo chiedono milioni di americani che di stanno preparando alla festa di Halloween. Con i bambini che scelgono i costumi da indossare la notte del 31 ottobre per poi andare da una casa all'altra dei vicini, formulando l'innocua minaccia: "dolcetto o scherzetto"?
''Il corriere della Sera, di sabato 20 ottobre 2001

Il commento
Il nuovo incubo terroristico si chiama antrace.
Il postino contagiato a Washington è morto; la camera e il senato USA restano chiusi.

Ora, tenere sotto controllo la paura e la nevrosi è forse il compito più difficile...migliaia di persone potrebbero essere contaminate...anche i telegiornali e i mass media divulgano ormai notizie agghiaccianti, senza protezione per le" psicosi collettive".

Bacilli come antrace, vaiolo o anche gas nervini diventano i protagonisti dei nostri pensieri, e dei nostri incubi notturni.

La spirale della guerra infrange tutte le barriere ed in qualche modo, paradossalmente, elimina le diversità; sembra che a tutti noi possa toccare la stessa sorte e che una polverina mortifera vada lentamente spargendosi sulle nostre parti vitali.

Di fronte a questo appiattimento delle aspettative e delle progettualità di ciascuno, dobbiamo ritrovare un bagliore di vita.
Alla mostruosa dispersione di ogni nostro slancio vitale, di ogni speranza e progetto per il futuro nostro e dei nostri figli, dobbiamo cercare di opporre una forte e consapevole presa di coscienza che ci permetta di rispondere in maniera soggettiva e non massificata.
Questo attacco terroristico, prima di attentare alla nostra incolumità fisica, sicuramente mette a repentaglio la nostra incolumità psichica.

Ognuno di noi rischia di diventare un potenziale paranoico capace di scambiare dell'innocuo zucchero sui dolcetti di Halloween per polvere di antrace.

Da tempo si parlava della possibilità del bio-terrorismo, ma si diceva che il completamento del progetto-genoma e l'approfondimento del sapere, riguardo a malattie di tipo epidemico come l'antrace e il botulismo, avrebbero permesso, in un prossimo futuro, di ottenere vaccini in grado di proteggere le società occidentali da possibili attentati, oltre che da epidemie di tipo naturale.

Paradossalmente, il nuovo incubo terroristico parte da un'anonima lettera d'amore, scritta alla attrice cantante Jennifer Lopez e recapitata alla redazione del giornale scandalistico Sun in Florida, una settimana prima dell'11 settembre.
Assieme alla lettera c'era della polvere bianca e un talismano ebraico, e come tante lettere di fans è stata cestinata. Dopo un mese, Robert Stevens, fotografo del settimanale Sun, è morto stroncato dal carbonchio e ora si indaga su quella lettera.

Il dottor Gupta, famosissimo neurochirurgo e consulente medico della Cnn cerca di tranquillizzare milioni di americani spaventati dal nuovo incubo del terrorismo biologico con queste parole: "l'antrace è un virus pericoloso, causa una malattia, il carbonchio, che può essere mortale. Tuttavia è una malattia che non si trasmette da uomo a uomo attraverso il respiro, come l'influenza. Può essere curata con diversi tipi di antibiotici facilmente reperibili sul mercato...."

Anche a Milano è scoppiata la "psicosi" da polverina.
La paura del carbonchio dilaga . L'Asl sta tenendo segreti i falsi allarmi. L'ultima scoperta della famigerata polverina bianca è stata fatta allo scalo ferroviario Fiorenza, in via Triboniano, il deposito dove si fa manutenzione degli Eurostar.

Quando qualcosa di molto forte, come ad esempio la morte, esce dalle consuetudini, si crea un vuoto emozionale nel quale entrano paura e ansietà, mistero e incertezza.

Dapprima ci siamo trovati ad affrontare la visione della catastrofe delle torri gemelle in diretta, poi giorno dopo giorno, ora dopo ora, le stesse sconvolgenti immagini ci sono state riproposte, costantemente, in modo ossessivo, senza quiete. Quelle sequenze fotografiche, si sono trasformate in una unica immagine alla moviola che, al rallentatore, fa sprofondare, dalle torri di relativa sicurezza, in un mondo di macerie, dove tutto deve essere ripensato per non soccombere, sempre che ci sia concesso.

Allora, il rapporto fra fotografia e morte, il perturbante - l"unheimlich"- di cui ci parla Freud, diventa più chiaro e imperioso e va a sostituirsi a quel vago senso di nostalgico impedimento che tante volte rende difficile, a nostra insaputa, ordinare le fotografie in album.

Sembra così più chiaro il senso di imbarazzo che si può provare davanti a una fotografia perché nel momento stesso in cui è scattata, si partecipa alla mutabilità della persona, il "qui ed ora" del soggetto è già passato e inizia la nostalgia del ricordo, del non più...

Tutto questo è un utile esercizio di micro - separazioni, nostalgici rimpianti di una giovinezza che sta passando, visi di nostri cari che nel blocco delle foto, immobili, ci richiamano ad altri tempi perduti.

Ben altra cosa è vedere e rivedere per mille sequenze drammaticamente sempre uguali, le immagini dello sgretolamento delle due torri, e pensare che in quell'istante ripetuto all'infinito, coperti da un pietoso velo di polvere, migliaia di corpi, di vite, di progetti futuri, di pensieri vitali, si sono schiantati al suolo, in un fragore, questa volta sì, globale.

La reazione di ciascuno di noi a questi fatti è fortemente soggettiva, ma, comunque, essi hanno inciso profondamente sul nostro modo di essere sulla terra.

. Le immagini che si ripetono ossessivamente, si incuneano nelle menti come un "memento" che travalica l'obbiettiva tragica realtà americana.

La fotografia è servita anche a questa funzione simbolica.

Lo sgomento prodotto dai fatti e sostenuto dalle immagini di distruzione e morte, sta ora, con il terrorismo biologico, toccando stadi ancora più primitivi di paure ancestrali.

La contaminazione mortale può provenire da qualunque fonte e ciò è profondamente destabilizzante.

Ora non abbiamo immagini, a cui appellarci, per significare il nostro sgomento.
È una paura più sorda e insidiosa, che non ha volto: non si fotografa il batterio e neppure le persone contaminate; adesso dobbiamo davvero fare i conti, ciascuno con i propri fantasmi, e, con questi, imparare a convivere.
Il veicolo della morte è diffuso e non ha forma.
Sembra che nessuno abbia protezione, tutti sono potenzialmente esposti.
Questo fa sì che ciascuno venga risucchiato indietro verso angosce senza nome in cui, il bambino che è in noi, non ha strumenti di simbolizzazione. Ciascuno, per quanto adulto, deve forzatamente fare i conti con il bambino impaurito che è stato e con il bambino che è ancora.

Difficile compito, allora, quello di genitori perché costretti a tenere a bada i bambini che hanno e i bambini che sono.

Anche i bambini più fortunati, quelli non toccati direttamente dalle morti, sono stati privati della possibilità di esorcizzare le proprie paure con spensieratezza.

La festa di Halloween ne è un esempio simbolico.
"Dolcetti o scherzetti"; fino ad oggi, con questo ritornello giocoso, generazioni di bambini hanno potuto prendere contatto col mondo pauroso e sconosciuto dei morti, complici gli adulti .

Ma ora, come sarà quest'anno?

I bambini devono fare i conti con la soggettività e le fantasie dei genitori e ne subiscono l'influenza.

Ecco allora che, inaspettatamente, attraverso la notizia giornalistica della paura per la festa di Halloween, i bambini tornano in scena. Noi adulti, presi dallo sconvolgimento degli attacchi terroristici, ci siamo forse dimenticati di loro, di quei piccoli americani che possono avere ancora, dentro di sé, il desiderio di partecipare, come ogni anno, il 31 ottobre a questa festa e che mai come adesso hanno bisogno di esorcizzare.

Il bambino nutre dentro di sé il bisogno della normalità per poter crescere. Noi analisti sappiamo che può sviluppare la sua vitale capacità di affidarsi e fidarsi solo se sostenuto, durante il percorso evolutivo, da "una madre sufficientemente buona", come direbbe Winnicott.

Dove ovviamente per" madre" intendiamo tutto l'ambiente generativo.
Ma come è possibile, mi domando, provare, in questo momento, fiducia e serenità da trasmettere ai nostri figli?

Hanno bisogno di giocare, ridere, gioire...oggi questo è molto più difficile, e l'allegria di una mamma americana rischia di essere disarmonica con il resto dei suoi pensieri.

Come si deve affrontare il tema della guerra e della violenza con i piccoli che si affacciano ora alla vita?

Stiamo con i nostri bambini, parliamo loro, in un linguaggio semplice, delle nostre e delle loro paure, ascoltiamoli, non utilizziamo la negazione come semplice meccanismo di difesa! Solo così potranno vivere le loro feste, affrontare le paure, sentirsi sorretti da genitori capaci di ammettere le loro ansie, senza necessità di trasformarsi in super-man.

Perché, possiamo ammetterlo, la tragedia americana ha scaraventato anche noi adulti in un baratro di incertezze che dobbiamo faticosamente e lentamente elaborare, per presentarci ai nostri figli quali loro ci vogliono, e cioè veri.